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Dialoghi in corso. La distanza fra scienza e politica, un problema

Fonte Internet

Fonte Internet

by Accademia dei Lincei

(A cura di Adriano Zecchina, prof emerito di Chimica Fisica Università di Torino; Accademia Nazionale dei Lincei ; Accademia delle Scienze di Torino)

È sempre più comune sentire considerazioni preoccupate sulla separazione tra le due culture, cioè la cultura umanistica e quella scientifica. Altrettanto frequenti sono le raccomandazioni affinché questo gap venga colmato al più presto in modo da poter positivamente influenzare le decisioni politiche che richiedono, in un modo globalizzato e limitato, un approccio più interdisciplinare.

Il problema è antico e ne ho trovato più di una traccia nella storia. Un esempio importate è il congresso internazionale di Chimica tenutosi a Karlsruhe nel 1860. Credo con ragione che si sia trattato del primo congresso internazionale scientifico tenuto nella storia dell’umanità. Che sia stato un congresso di chimica non deve meravigliare poiché siamo nel periodo che precede di qualche anno la formulazione della tavola periodica.

Infatti pochi anni dopo (1869), Dmitrij Mendeleev pubblicherà la tavola periodica degli elementi che rappresenta una pietra miliare della scienza di tutti i tempi e la scacchiera sulla quale la natura e l’uomo hanno costruito l’infinità di materiali e molecole che ci circondano. Questo incontro fu la conseguenza delle continue scoperte di nuovi elementi, di nuove molecole e di nuove reazioni che caratterizzarono la prima metà del XIX e che richiedevano una completa presa di coscienza di un campo scientifico in rapida espansione.

Venne quindi proposto da scienziati delle comunità più forti e soprattutto dai tedeschi (tra cui Friedrich August Kekulé, uno dei fondatori della chimica organica, noto ancora oggi per i suoi contributi sul benzene, sui composti aromatici e sulla teoria della risonanza) e dai francesi (tra cui Charles-Adolphe Wurtz, un grande chimico francese noto ancora oggi per la reazione di Wurtz che porta alla formazione di legami carbonio-carbonio) di tenere un congresso internazionale.

Fu un vero trionfo della libertà e della conoscenza in cui gli scienziati presenti forse credettero di formare una comunità basata sulla universalità del pensiero scientifico in quanto capace di liberarsi dei fantasmi dell’alchimia e di travalicare le differenze di lingua, nazionalità e interessi materiali. Il congresso di Karlsruhe ha visto infatti la partecipazione di 140 scienziati di cui solo due italiani (Stanislao Cannizzaro e Angelo Pavesi), alcuni Russi (tra cui Dmitrij Mendeleev e Aleksandr Borodin), due austriaci e una maggioranza di francesi e tedeschi molti dei quali sono già stati ricordati. La partecipazione inglese fu numerosa ma abbastanza formale quasi a dimostrare un certo distacco dal continente.

Il congresso vide emergere la figura e il contributo di Stanislao Cannizzaro che tra l’altro fece conoscere l’opera di Amedeo Avogadro, sino ad allora quasi sconosciuto.

Al fine di non dare un’idilliaca immagine della scienza chimica ricordo che già allora (esattamente come oggi) i rapporti tra gli scienziati non furono sempre pacifici. Per esempio dopo il congresso di Karlsruhe, Borodin (anche grande musicista, autore del conosciuto Principe Igor) fu in conflitto con i molto famosi Kekulè e Wurtz che non avevano citato i suoi lavori.

Dopo centocinquanta anni oggi direi: tutto normale anche se gli strumenti di comunicazione sono divenuti immensi. Comunque non si può negare che l’idea di un congresso come quello di Karlsruhe sia stata, oltre che importante e innovativa, generosa e di carattere universalistico (come tante altre che sono venute poi in seguito nel mondo scientifico e intellettuale). È tuttavia incredibile come questo incontro tra scienziati di diverse nazionalità europee sia avvenuto in un periodo di guerre sanguinose tra i loro stati.

Tra quelle appena precedenti più vicine alla data del congresso basta citare quella di Crimea (1853) condotta contro l’Impero Russo da un’alleanza composta da Impero Ottomano, Francia, Regno Unito e Regno di Sardegna e che è stata causa di un numero di morti molto elevato (c’è chi riporta un milione) e che, per la sua estensione dal Baltico, al Mar Nero e all’Estremo Oriente, somigliò ad una guerra “quasi” mondiale anche per l’impiego di armi mai usate prima, quali i nuovi pezzi di artiglieria francesi.

In quella guerra, durante l’assedio di Sebastopoli, fu proposto anche l’uso di proiettili contenenti cianuro. Il primo ministro inglese Lord Palmerston non era contrario ma la marina militare si oppose obiettando che si trattava di “un modo pessimo di fare la guerra tanto quanto avvelenare i pozzi del nemico” (pratica invero antichissima).

Appena un anno prima del congresso (1859), Francia e Regno di Sardegna (per l’Italia) da una parte e impero di Austria-Ungheria dall’altra si erano scontrati a San Martino e Solferino in una delle più cruente battaglie del secolo XIX (circa 40.000 morti in un solo giorno). Altre battaglie seguiranno prima della fine del secolo, battaglie che invece di risolvere i problemi tra le nazioni saranno preparatorie delle due guerre mondiali del secolo XX.

Tra queste battaglie è da citare il conflitto tra Prussia e Impero austriaco (1866) e la terribile guerra franco-prussiana (1870-71) che si concluse con la sconfitta della Francia a Sedan, la caduta di Napoleone III e la unificazione della Germania. Il numero dei morti complessivi fu di circa 200.000. Mi pare del tutto evidente che i gruppi dirigenti tedeschi e francesi abbiano obbedito a principi molto diversi da quelli che hanno animato il congresso di Karlsruhe. I gruppi dirigenti tedeschi hanno infatti descritto questa guerra alla stregua di un passaggio verso l’unificazione e la grandezza tedesca. Quelli francesi invece come un argine alla emergente strapotenza germanica, concetti che sentiremo ripetere nel secolo successivo.

Non sapremo mai come reagirono e reagiranno di fronte a queste guerre i molti scienziati francesi, tedeschi, inglesi, russi, italiani etc che avevano partecipato al congresso del 1860. Sospetto che tutti tornarono ai loro posti e alle loro carriere limitando il loro pensiero al solo ambito della scienza o a attività patriottiche. Penso che ragionassero come le loro classi dirigenti e che si sentissero sopratutto patrioti.

 

Questo pone un altro problema: quanto questi intellettuali della natura (chimici in questo caso ma credo che il fenomeno sia generale) che nel 1860 si riunirono per scambiarsi informazioni fondamentali e universali e che tanto hanno contribuito e contribuiranno alla ricchezza delle nazioni erano coscienti della situazione politica?

Io penso che alcuni la ignorassero del tutto mentre la maggioranza facesse riferimento a verità e interessi ritenuti più profondi quali patria, religione, lingua e ricchezza etc del tutto estranei all’universalismo della cultura scientifica. In conclusione essi non misero mai in discussione i principi e gli interessi più profondi delle proprie comunità.

Dall’esperienza che ho accumulato partecipando a tanti congressi scientifici internazionali, sono quasi certo che di argomenti politici si sia parlato ben poco anche nel secolo XX, secolo che ha visto due grandi guerre mondiali. Dopo un breve e forse superficiale esame della storia sono giunto alla conclusione che questa dicotomia tra scienza e politica è stata ed è sempre presente. Non so se questo sia limitato solo ai cultori delle scienze naturali. Penso che tutto ciò sia conseguente al predominio di principi religiosi, linguistici e nazionalisti che spesso nascondono gli interessi pratici della propria nazione e del proprio gruppo sociale.

Del resto il grande scrittore russo Lev Tolstoj, indignato per quella che lui considerò come una guerra patriottica contro un aggressore, partecipò all’assedio di Sebastopoli e ne trasse l’ispirazione nel 1855 per i Racconti di Sebastopoli. Dalla parte inglese il tutto fu celebrato in vari film epici tra cui quello intitolato “la Battaglia di Balaclava”.

Tutto ciò mi suggerisce una domanda: è cambiato o sta per cambiare qualche cosa dopo quasi due secoli? Forse sono pessimista ma non mi sembra proprio, anche se i potenziali conflitti insiti nella globalizzazione sono incombenti. Il tutto in presenza di armi di una potenza militare e distruttiva senza precedenti e di un galoppante problema climatico da noi stessi provocato, fatti che richiederebbero un urgente rafforzamento del legame tra le basi scientifiche e umanistiche della cultura al fine di contribuire a creare una coscienza politica più lungimirante e saggia.

1 commento a Dialoghi in corso. La distanza fra scienza e politica, un problema

  • Giuseppe Farina

    Sarebbe auspicabile una ricerca scientifica senza confini, frutto della collaborazione di migliaia di ricercatori sparsi per il mondo. Ma temo che la ricerca sia controllata dai poteri e dagli interessi dominanti e indirizzata innanzi tutto a fini militari, economici e nazionalisti e non al servizio dell’umanità, per risolvere ad esempio problemi quale la fame, la poverta, la salvaguardia della salute, la tutela dell’ambiente, del clima, dei territori, delle foreste e dei mari. C’è invece la corsa agli armamenti, sempre più sofisticati e distruttivi, o si cerca di raggiungere Marte, chi sa per quali insani disegni, mentre si sfornano telefonini…

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