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Libri. Uomini e no di Elio Vittorini

Vittorini

Vittorini

Uomini e no (1945), Elio Vittorini

Cenni critici sul romanzo

Uomini e no è il primo romanzo della Resistenza. Scritto da Elio Vittorini tra la primavera e l’autunno del 1944, in presa diretta sui fatti narrati, fu pubblicato da Bompiani alla fine del giugno 1945, due mesi dopo la Liberazione. Ebbe subito un grande successo di pubblico. La critica letteraria invece non fu altrettanto unanime sul suo valore. Gli intellettuali rimproveravano all’autore un compromesso irrisolto tra cronaca, lirismo, allegoria e saggistica.

La critica più dura al romanzo di Elio Vittorini venne fatta il 12 settembre 1945 su l’Unità, da Fabrizio Onofri, il dirigente comunista già capo romano dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Onofri definì il romanzo “il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio” (Uomini e no, introduzione di Paolo Di Stefano al romanzo, pag. 7, Mondadori, Milano 2015). Conscio dell’incompiutezza dell’opera, lo stesso Vittorini ritornò più volte sul romanzo. Il suo intento, precisò in diversi articoli, era quello di “esaltare la forma del dialogo in chiave conoscitiva oltre che come soluzione fonico- stilistica improntata sui modelli americani” (pag. 8). Il lavoro insomma doveva essere, nella forma stilistica, la prosecuzione del romanzo Conversazione in Sicilia. La narrazione degli avvenimenti in chiave realistica non sempre si concilia con le riflessioni, a tratti ossessive e onirico – visionarie, dell’io narrante scritte in corsivo. Vittorini stesso ritornò più volte su queste parti fino a ridurle soltanto a pochi paragrafi dei ventitré della prima edizione.

Italo Calvino riconobbe Uomini e no “un libro necessario, che a suo modo esaurisce l’argomento dell’adesione di un intellettuale di una determinata cultura alla lotta popolare” Nella famosa prefazione (1964) al suo romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” lo scrittore sanremese annotava che, con quel libro di Elio Vittorini, “i Gap di Milano avevano subito avuto il loro romanzo, tutto rapidi scatti sulla mappa concentrica della città”. Uomini e no era per Italo Calvino il primo libro della sua generazione a tener dentro “la nostra primordiale dialettica di morte e felicità”.

Lo scrittore Romano Bilenchi confessò personalmente all’amico le sue riserve. Lo avrebbe raccontato qualche anno dopo: “Avevo finito di leggere Uomini e no e non mi era piaciuto. Gliene spiegai le ragioni. Anche io non avevo un’idea statica del romanzo, ma il libro era fallito proprio in quello che Vittorini aveva voluto fare di nuovo. Non gli era riuscito di usare la storia in rapporto ai sentimenti e all’azione del protagonista” (pag. 8).

Luigi Meneghello ( Malo, 16 febbraio 1922 – Thiene, 26 giugno 2007) così scriveva nel suo libro Piccoli maestri (1964): “Il libro di Vittorini lo sentii, quando uscì, come qualcosa di intrinsecamente falso, oggi non intendo confermare questa critica di Uomini e no, ma allora mi parve qualcosa di peggio di un libro mal riuscito. Non solo non esprimeva i caratteri che a me parevano quelli veri della Resistenza, ma ne faceva la caricatura. E’ in parte per questo che a suo tempo il mio è stato scritto come è stato scritto”.

E’ difficile negare che nel romanzo di Vittorini non ci sia la “premeditazione” del messaggio. C’è il tentativo di affrontare i fatti e i temi della guerra e dell’occupazione nazista con l’intenzione di spiegarne il significato universale e morale, proiettandolo in una dimensione mitica e simbolica. Anche la scelta linguistica di chiamare alcuni personaggi con nomi simbolici: Baffi Grigi, Occhi di Gatto, Cane Nero, Figlio di Dio, va in questa direzione. I rischi della “premeditazione” Vittorini li conosceva. Per questo in una sua Nota, apparsa nella prima e nella seconda edizione del romanzo, si soffermava sullo spinoso rapporto tra politica e cultura e sottolineava “I compiti sociali di chi scrive e il suo dovere di prendere parte alla rigenerazione della società italiana”. Aggiungeva anche che in ambito artistico “cercare i progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale”. Proseguiva anche scrivendo: “In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali; tutto è legato al mondo psicologico dell’uomo, e nulla vi si può affermare di nuovo che non sia pura e semplice scoperta umana”. Insomma: “Non perché sono, come tutti sanno, un militante comunista, si deva credere che questo sia un libro comunista”, anche se precisa ironicamente l’autore, i meriti del libro vanno attribuiti certamente al suo comunismo e i difetti alle sue “debolezze d’uomo”. Tra i difetti, Vittorini sapeva che non piaceva del romanzo la narrazione binaria e la crisi esistenziale del protagonista Enne 2 . Questi combatte da eroe contro il Fascismo e il Nazismo fino a soccombere ma non sa appagare il suo desiderio d’amore, legandosi a Berta, l’altra protagonista del romanzo.

Vittorio Spinazzola, altro critico letterario, in un suo saggio scrive che nel romanzo la dimensione degli affetti personali finisce per incrinare la poetica neorealista al punto da sfatare “l’illusione utopica che il progresso politico – sociale possa mai risolvere le contraddizioni del rapporto fra l’io e gli altri”. Nel protagonista che s’immola per la causa antifascista senza risolvere il suo difficile rapporto con Berta, Vittorini “stende l’atto di morte del vecchio intellettuale prebellico, estenuato dai suoi conflitti interiori come lo sforzo incompiuto di integrarsi nel movimento popolare”. Coriolano, Mambrino, Barca Tartaro, Metastasio, Orazio, Pico Studente, i compagni di lotta di Enne 2 sono persone semplici, pacifici, al contrario del protagonista che fa sempre ragionamenti astratti e difficili da comprendere. L’abito di Berta appeso dietro la porta del proprio nascondiglio rimarrà come un feticcio. Sarà l’esempio lampante della sua incomunicabilità con gli altri e con se stesso.

Giacomo Noventa, cattolico liberale e socialista in un saggio del 1946, riconosceva nel romanzo “La tragedia della nostra gioventù e della nostra cultura, di quella gioventù che ha partecipato alle ultime lotte e che ha creduto di reagire al proprio culto fanatico di una poesia di impotenti con un fanatismo più crudele e più impotente ancora: quello dell’uomo d’azione che resta al di qua della poesia”. In altre parole, ciò che Vittorini rappresenta, attraverso il suo protagonista – alter ego che rinuncia all’amore per Berta, sublimandolo in Grande Amore impossibile, è l’incertezza “fra la letteratura e la politica, fra una nuova letteratura e una nuova politica, o almeno la volontà di non rinunciare facilmente alla letteratura, di non cederla troppo facilmente a un gusto troppo volgare dell’azione”. Fu una lettura radicale ed eccentrica che piacque a Vittorini.

uomini e no copertina

Trama del romanzo

Uomini e no è ambientato in una Milano ridotta in macerie. E’ l’inverno del 1944, il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo. Narra gli attentati di un gruppo partigiano comandato da Enne 2, nome di battaglia, e le rappresaglie dei nazisti compresa la terribile fucilazione di numerosi cittadini i cui cadaveri verranno esposti per le strade della città: Largo Agusto, piazza Cinque Giornate, Corso di Porta Vittoria.  L’apice della brutalità viene raggiunto quando, per ordine del generale Clemm, gli ufficiali tedeschi fanno sbranare un venditore ambulante, Giulaj, da due cani. Su questo sfondo di azioni che si dipanano tra attentati, inseguimenti per le vie della città, ripiegamenti in alloggi segreti, rastrellamenti, posti di blocco, nuovi attacchi dei partigiani, risposta feroce da parte dei tedeschi e dei fascisti, c’è la contrastata vicenda d’amore che lega il protagonista Enne 2 a Berta, sposata con un altro uomo dal quale, pur senza amore, non si decide di separarsi. La donna, concentrata sulla borghese amministrazione dell’adulterio più che sulle ragioni civili collettive, avrà una crisi di coscienza di fronte alla visione di trucidati in Largo Agusto. Il destino di Enne 2 si conclude con il fallimento di un attentato cruciale e con la scelta di asserragliarsi nella sua stessa stanza in attesa del duello finale con il capo fascista Cane Nero e nell’estrema esile speranza di venire raggiunto da Berta.

Luoghi e tempi

I luoghi delle vicende narrate sono quelli della grande città di Milano, cari a tutti i milanesi e a quanti amano e conoscono il capoluogo lombardo: piazza della Scala, via Manzoni, bastioni di Porta Romana, Porta Vigentina, piazza Cavour, corso Sempione, via Pontaccio, via Santa Margherita, Porta Ludovica, Porta Vittoria, piazza Missori, corso Italia, viale Monforte, piazza Cinque Giornate, Largo Augusto, Porta Venezia, il Duomo, piazza Fontana.

Il tempo è quello dell’inverno del 1944: “il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo a Milano; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mese; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. Il libraio ambulante di porta Venezia diceva: Questo è l’inverno più mite che abbiamo avuto da un quarto di secolo. E’ dal 1908 che non avevamo un inverno così mite” (E. Vittorini, Uomini e no, pag. 17, Mondadori, Milano 2015).  L’uomo che si avvicina con la bicicletta all’edicola del libraio è Enne 2. Sul tram che sferraglia poco lontano, il protagonista intravede Berta che scende alla fermata. I due s’incamminano per strada a piedi, lei dà la mano all’uomo che spinge la bicicletta con l’altra mano. E’ l’incipit del romanzo. I due attraversano le vie immerse nello “splendore invernale tra due spoglie file di alberi che mai terminavano, e nella tersa luce, a duecento metri, un camion fermo col vetro che luccicava, e uomini neri attraverso la strada, anch’essi fermi, con al braccio bastoni che anch’essi luccicavano” (pag. 23). Gli uomini neri sono i fascisti, i bastoni sono i fucili dei soldati.

Sono molte le pagine nelle quali Elio Vittorini si sofferma per descrivere l’ambiente e il tempo: “Il parco splendeva sul terreno bianco l’inverno, nella solitudine dei grandi alberi spogli” (pag. 21). “Il sole splendeva sulla canna nera del suo mitragliatore (del soldato tedesco), e d’un tratto egli fece un brusco movimento; quattro uomini uscirono, con lunghi cappotti militari al sole” (pag. 37). E’ il momento che precede l’attentato al comando tedesco e l’uccisione del presidente del tribunale. “Alle cinque era il primo buio, fumo leggero nella sera d’inverno senza nebbia, e non portava notte, portava luna” (pag. 58).

“L’inverno era lo stesso di due giorni prima; l’aria leggera, viva; lo stesso sole; e barbagli di sole in tutti i vetri. Lo stesso poteva esser lui dietro il tram, sulla sua bicicletta. Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si voltava per guardare. Andò, dal Duomo, verso piazza Fontana, non sapendo dove andare, volendo camminare, e vide che i tram procedevano di là a passo d’uomo” (pag. 119- 120). Di lì a poco, Berta scoprirà i morti di Largo Augusto.

In un momento in cui le armi tacciono, Berta e Enne 2 si ritrovano nell’appartamento di quest’ultimo per mangiare qualcosa. Enne 2 esce di casa con la bicicletta per comprare il pane. Berta osserva dalla finestra il paesaggio fin dove arriva il suo sguardo: “Vedeva il ghiaccio celeste delle montagne, l’inverno in quel ghiaccio, e l’inverno sui tetti ch’erano sotto le finestre, su Milano ignuda, nel sole di foglie morte, e vedeva ogni cosa che era stata ed era, tutto quello che lui diceva (Enne 2), ma ancora si chiedeva che cosa fosse stata con quell’altro” (pag. 158). Elio Vittorini, tra la primavera e l’autunno del ’44, mentre scrive il romanzo, è nascosto sulle montagne perché ricercato dai fascisti. Per questo conosceva molto bene l’inverno delle montagne. Mussolini stesso aveva ordinato ai suoi di sparargli a vista qualora l’avessero trovato. Elio Vittorini resiste perché esiste.

I Morti di Largo Augusto

Quando Berta scopre i morti di Largo Augusto, capisce il peso della lotta armata contro il Nazi – Fascismo. Nei volti di chi incontra lungo il tragitto c’è sgomento ma anche tanta compostezza: Gente andava, quella nella sua direzione, affrettata e a gruppi; quella che veniva in su era invece smarrita, spesso si fermava, e stava voltata a lungo indietro. «È accaduto qualcosa?» Berta domandò. Era un vecchio signore a cui si rivolse; guardava indietro, e teneva il bastone alzato, pallido in volto, rabbioso, teneva alzato il bastone in uno strano gesto come lei ricordava di aver visto tenere alto il fuso le donne di campagna che filavano. «Oh!» il vecchio rispose. «Niente di straordinario!» Uno più giovane era giallo come un morto, anche lui di coloro che venivano in su fermandosi e stando a lungo voltati indietro, e aveva in mano una borsa vuota che continuamente apriva, capovolgeva, scuoteva e poi richiudeva. «Così proprio» disse. «Che di straordinario?» «Niente di straordinario» il vecchio disse. Si fermarono insieme, e per un po’ continuarono, uno come domandando e l’altro come rispondendo, dicendo entrambi la stessa cosa. «Che di straordinario?» «Niente di straordinario». Non erano molti che venivano in su, erano uno ogni dieci nella folla che andava in giù, affrettata, a gruppi, ma tutti se si guardavano, se si vedevano, avevano gesti strani e si parlavano nello stesso modo. «Che di straordinario? Io non ho veduto niente di straordinario». «Nemmeno io. Che ho veduto io di straordinario? Niente ho veduto di straordinario». «Che c’è da vedere di straordinario?» Al largo Augusto, Berta vide che la folla era nel mezzo della strada, e camminava tra i due marciapiedi, tutta in un senso, tutta verso la piazza dov’è il monumento delle Cinque Giornate: ma lei continuò per il marciapiede. Si trovò sola, lungo le botteghe chiuse, eppure continuò, e vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch’era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. Non formavano file, né erano molti, stavano sul marciapiede sparpagliati, e il sole brillava sulle canne nere dei loro fucili, sui loro bottoni, e anche su un punto dei loro berretti. Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini; e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci; qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, cappotti: panni usati. Che cos’era? Guardò, pur camminando, e più da vicino; e vide, fuori da qualcuno di quei mucchi, scarpe. Scarpe anche? Le vide come ai piedi dell’uomo, quando un uomo è steso in terra. C’era gente in quei piccoli mucchi? C’erano uomini? Guardò, quasi spaventata, dietro a sé; nelle facce della folla. «Ma… » disse. Qualcosa per cominciare. E avrebbe voluto chiedere se ognuno di quei mucchietti fosse un uomo; e perché fossero lì, cinque mucchietti, cinque uomini; se fossero uomini catturati, e catturati a che scopo; e perché fossero tutti stesi, perché nessuno fosse seduto, nessuno in piedi, nessuno che si muovesse. Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non vederlo da sé; e invece vide da sé; e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede, uno vestito anche con cravatta al collo come se lo avessero ucciso mentre camminava per la strada, ma tutti gli altri in disordine, uno avvolto nel tappeto d’un tavolo, uno con la giacca sulla faccia e sotto in mutande e camicia, due in biancheria da letto con i piedi nudi. «Ma che cosa» disse «è accaduto?» Guardava nelle facce che aveva intorno, voleva sapere, e non c’era che da vedere. Che cosa avevano fatto a quegli uomini? E chi glielo aveva fatto? Perché glielo aveva fatto? Alzò gli occhi su uno dei militi con la testa di morto in mezzo al berretto, e fu per chiederlo a lui. Ma non chiese niente. Arrossi anzi, e si tirò indietro nella folla, abbassò il capo, camminò via. In fretta, senza quasi piu fermarsi, continuò fino al monumento di piazza Cinque Giornate, poi tornò indietro. Fu di nuovo a piazza Fontana, piazza Duomo, piazza della Scala, tutto quasi correndo, in piazza della Scala riprese il tram, e poco dopo era un’altra volta da Selva. I morti al Largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, dei morti all’ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa. Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava. «Non bisogna» il vecchio disse «piangere per loro». «No?» disse Berta. «Non bisogna piangere per nessuna delle cose che oggi accadono». «Non bisogna piangere?» «Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare». «Gli uomini sono uccisi, e non bisogna piangere?» «Se li piangiamo li perdiamo. Non bisogna perderli». «E non bisogna piangere?» «Certo che no! Che facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa». Era questo piangere? Rendere inutile ogni cosa ch’era stata? Il vecchio lo diceva, e Berta poteva anche crederlo. Forse era questo. Ma non poteva non piangere, e stava pur sempre col capo chino, si bagnava di lagrime il grembo. «Non bisogna» disse il vecchio. «Non bisogna». «Sì» disse Berta. «Non bisogna». «Vedi che non bisogna? Smetti». «Ma io non piango per loro». «Non piangi per loro?» «Non su di loro». «No?» disse il vecchio. Berta non piangeva sopra i morti, per il sangue loro. Ora lo sapeva. Le veniva da loro, ma non era pietà per loro. Era pietà, o forse disperazione, su se stessa; ma dinanzi a loro era un’altra cosa. Che cosa? Disse al vecchio: «No. Non piango su di loro». Aveva rialzato il capo, il pianto si asciugava sulla sua faccia, e rivide nel vecchio gli occhi azzurri. Glieli guardò. «Ma che dobbiamo fare?» gli chiese. «Oh!» il vecchio rispose. «Dobbiamo imparare». «Imparare che cosa?» disse Berta. «Cos’è che insegnano?» «Quello per cui» il vecchio disse «sono morti» (pagg. 119 –  132)

Sono le pagine del romanzo riportate in tutti i libri di antologia. Dovrebbero essere mandate a memoria per non dimenticare niente di ciò che è stato fatto contro la dignità dell’uomo dal Nazismo e dal Fascismo. Tra la gente che sfila davanti ai cadaveri di Largo Augusto ci sono anche i compagni di lotta di Enne 2: Gracco, Metastasio, Scipione, Mambrino, Barca Tartaro, El Paso, Figlio  di Dio. Capiscono perché sia successo tutto questo, come lo capisce e non piange chi è lì sul marciapiede o sulla strada. Chi aveva colpito, l’aveva fatto in modo scomposto, irrazionale, da belve: “Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpire l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura. Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura. Aveva paura il Gracco? O Figlio-di-Dio? Scipione? Barca Tartaro? Non potevano averne. O poteva averne Enne 2? Non poteva averne. Allo stesso modo ogni uomo ch’era nella folla non aveva paura. Ognuno, appena veduti i morti, era come loro, e comprendeva ogni cosa come loro, non aveva paura come non ne avevano loro. Avrebbe anche potuto essere stato con loro, la sera prima. Poteva anche conversare col Gracco. il Gracco conversava, infatti, con ognuno. Era dinanzi ai morti, uno incontrava la sua faccia, e a lui veniva, nel mezzo delle labbra, quella piccola ruga. Perché, tu dici? Questo il Gracco diceva: Perché, tu dici? Perché? L’altro diceva. Certo che lo dico. Non debbo dirlo? Puoi dirlo se lo vuoi, diceva il Gracco. E la donna? L’altro diceva. Lo dico sì. Perché la donna? Oppure: Perché la bambina? Oppure: Perché questi due ragazzi? Diceva allora il Gracco: E quest’uomo no? Perché quest’uomo? Era un uomo alto, di cui non si vedeva la faccia. Si vedevano le sue gambe, forti, coi lunghi muscoli di uomo nel fiore degli anni, le scarpe ai piedi messe senza le calze, e, per il resto, in mutande e camicia. Aveva scuri i polsi, e le mani chiuse di uno che stia stringendo i denti. Ma sulla faccia gli era stata gettata una giacca. Perché Era come per nascondere un tradimento che gli si fosse fatto, a lui nel fiore degli anni, peggiore che agli altri. Perché quest’uomo? Diceva il Gracco. E quello che parlava con lui: Già. Perché? Il Gracco lo diceva di ognuno dei morti. Gli veniva la ruga in mezzo alle labbra, guardava, e quello guardava allo stesso modo. Ogni uomo morto era come la bambina. Una cosa si sapeva per tutti i morti, e se si cercava una risposta nuova, parole che cambiassero il corso della nostra consapevolezza, non si poteva chiedere che perché per tutti insieme” (126- 128).

I personaggi del romanzo

I militi fascisti vestono di nero. Hanno la testa di morto riprodotta sui berretti. Non amano la vita ma la morte. Fanno la guardia ai cadaveri mangiando. Si riparano dietro ai carri armati tedeschi. Sono servi di questi ultimi. La gente, impotente guarda: Un camioncino col rancio era passato per il largo Augusto e il corso, e gli uomini con la testa di morto sui berretti mangiavano al sole, mangiavano all’ombra, su ogni marciapiede dov’erano di guardia. La gente li guardava, e due giovanotti che li guardavano sorrisero tra loro. “Buono, eh?” disse uno. “Mica male,” uno di quegli uomini rispose. “Che ci avete dentro? Carne?…” “Eh, sì! Carne!” “Ossa anche?” “Ossa? Come ossa?” Uno sbarbatello delle teste di morto venne dov’erano i due giovanotti e mostrò il recipiente. “C’è carne. C’è pancetta. C’è fagioli. C’è patate.” “Vedo, ” disse il giovanotto che aveva parlato. “Ci trattano bene, ” lo sbarbatello continuò. “La mattina,” disse, “pane con burro e marmellata…” Aveva piena la bocca, e voglia di parlare. “Il pomeriggio, lo stesso. Pane, con burro e marmellata.” Il giovanotto si voltava indietro, mentre lui parlava. Guardava occhi, nell’attenta folla. E lui dalla testa di morto, sempre piena la bocca, parlava. “La sera, maccheroni e pietanza.” “Di carne cruda?” “Di carne cruda? No, di carne cotta. Più la frutta. Più il formaggio. Più il vino.” “E quest’intruglio a quest’ora?” “Intruglio? Questo è un piatto tedesco. Ha un nome loro non so come si dice. E c’è anche salsiccia.” “Ma guarda!”  “Uno come noi può ringraziare Iddio. Di questi tempi che farebbe, se no? Fame, se no!” “Lo credo.” Con la testa di morto sul berretto, quello mosse la sua mascella piena, masticando, in direzione della folla e indicò le facce davanti a sé. “Che fanno loro? Se non sono ricchi sfondati, fame!” Il giovanotto si voltò di nuovo. “Dì, ” disse lo sbarbatello. E gli diede una gomitata. “Che vuoi?” Si serve la patria e si sta come papi,” disse lo sbarbatello. “Che intendi dire?” il giovanotto chiese. “Se vuoi arruolarti ti raccomando io.” “Grazie. Grazie.” Un graduato chiamò, dalle teste di morto, lo sbarbatello. “Tu!” “Vengo,” disse lo sbarbatello. Sorrise con malizia al giovanotto, e gli porse, su dal recipiente, una cucchiaiata colma. “Assaggia,” gli disse, con la bocca piena. “Io?” il giovanotto esclamò. Guardò l’altro giovanotto, e disse, non come allo sbarbatello, ma come a lui: “Mica io sono un antropofago.” Lo sbarbatello delle teste di morto scoppiò, pur come aveva piena la bocca, in una risata. “Ah! Ah!” gridò. “Che ha l’idiota?” disse il graduato, da dove era. “Oh!” lo sbarbatello gridò. “Dice che mica è un antropofago.” Rideva, e altri delle teste di morto, più in là, risero pure. “Che cosa?” il graduato domandò. “Dice che lui non mangia. Che non è un antropofago.” Il graduato si era messo in piedi, e venne davanti alla folla. “Chi non è un antropofago?” Gridò alla folla la sua domanda, poi fece un passo in avanti, ancora masticava, e pareva sicuro che la folla dovesse indietreggiare. Ma la folla non indietreggiò” (pagg. 137- 139). Tutti si erano venduti agli occupanti nazisti, trincerandosi dietro il nome della Patria. Mangiano, ridono e scherzano davanti ai partigiani fucilati per rappresaglia. Meritano solo il disprezzo.

I soldati repubblichini non hanno nomi. I nazisti si chiamano Clemm e Cane Nero. Sono nomi inventati ma esistevano davvero. L’inumanità di Clemm si rivela in tutta la sua ferocia e perfidia quando ha una discussione con Ibarruri, il nuovo consigliere d’ambasciata spagnola arrivato all’albergo Regina dove ha sede il comando tedesco. Ibarruri si fa chiamare El Paso. I nazisti non sanno che fa parte del gruppo partigiano guidato da Enne 2. Ibarruri, nel corso dell’ennesima discussione con Clemm gli dice chiaramente che i tedeschi saranno sconfitti e diceva loro: “Sono i vostri ultimi giorni. Perché uccidere? Non dovreste farlo. Sono i vostri ultimi giorni. Dovreste chiamare il confessore” (pag. 83). Clemm risponde: “Se sono i nostri ultimi giorni sono gli ultimi giorni di tutto il mondo. Per ogni tedesco che muore noi uccidiamo dieci persone. Siamo novanta milioni di tedeschi. Prima di morire in novanta milioni noi dovremmo uccidere novecento milioni di persone. Ci sono nel mondo novecento milioni di persone? Non ci sono. La Germania non può morire, Ibarruri” ( pag. 83).

Cane Nero, all’anagrafe si chiamava Franco Colombo, ex sergente della Milizia, che aveva messo su la famigerata Legione Ettore Muti  con la caserma in via Rovello. Un’accozzaglia di assassini e avanzi di galera lasciata libera dal questore di Milano di spargere terrore per la città. Il capitano Clemm si chiamava Theo Saevecke, occupava l’hotel Regina di via S. Margherita, quartier generale milanese della Gestapo. Si serviva del cosiddetto macellaio Gradsack, e lì ‘lavoravano’ i sanguinari Otto Kock, sottufficiale Gestapo, e Franz Staltmayer, detto la belva, armato di nerbo e cane lupo”( fonte: Internet).

I partigiani guidati da Enne 2 fanno saltare il comando tedesco, assaltano il tribunale militare, uccidono tutti gli occupanti e i soldati che sono di guardia all’esterno dell’edificio. Falliscono nell’ultimo disperato tentativo di uccidere Cane Nero. Combattono con coraggio. Sono armati alla leggera. Sparano con rivoltelle e mitragliatrici. Si spostano rapidamente da un luogo all’altro della città in bicicletta o in macchina. Godono di coperture. Figlio di Dio e El Paso sono i loro informatori presso l’hotel Regina. Hanno dei nascondigli dove riparare prima e dopo gli attacchi. Il gruppo che fa capo ad Enne 2 è composto da quindici uomini. Dopo aver fatto saltare il comando tedesco, devono impedire che il tribunale militare elegga il nuovo presidente e fermare la rappresaglia nazista. Sono dodici gli uomini che partecipano all’azione che va a buon fine. La rappresaglia nazista si materializza con i morti di Largo Augusto. Hanno nomi di battaglia. Vivono alla macchia. Alcuni hanno famiglia ma è come se non l’avessero. Combattono una guerra spietata fatta di assalti, agguati contro postazioni naziste che hanno carri armati e armi in quantità. Hanno nomi strani: Coriolano, Mambrino, Barca Tartaro, Pico Studente, Metastasio, Orazio, Scipione, Foppa, Figlio di Dio. Quest’ultimo lavora presso l’hotel Regina come facchino d’albergo. Sono operai, padri di famiglia e giovani, semplici e uniti: “Coriolano era un uomo semplice: aveva una faccia buona, l’aveva tonda e buona. E Barca Tartaro l’aveva ferma e buona. Pico Studente l’aveva acuta e buona. Tutti questi uomini erano semplici, erano pacifici, semplici, e i due giovani delle macchine, Metastasio e Orazio, erano come loro. Essi avevano, ognuno una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano molto più in là di questo, erano come i ,oro discorsi. Perché, ora, lottavano? Perché vivono come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? Perché dormivano con una pistola sotto il cuscino? Perché lanciavano bombe? Perché uccidevano? Anche Scipione e Foppa erano uomini semplici, pacifici. Scipione aveva moglie e figli, Foppa aveva forse una ragazza, un tempo andava tutte le sere al cinematografo, e avevano entrambi la faccia buona. L’avevano ferma, tranquilla, e nella fermezza buona” (pag. 74). Si preparano assieme ad Enne 2 all’assalto del tribunale militare. Hanno la voce tranquilla e buona. Discorrono tra loro come fanno i bravi soldati prima della battaglia: “Ma i bravi soldati vanno a una battaglia dove la morte è a somiglianza di loro, brava come loro, ed essi invece andavano a una battaglia dove la morte non era affatto brava. I bravi soldati hanno davanti altri bravi soldati. Combattono contro uomini che sono anch’essi uomini, pacifici e semplici. Possono darsi prigionieri. Possono sorridere se sono catturati. E poi, i bravi soldati hanno dietro tutto il loro paese, con tutta la gente e tutte le cose, le città, le ferrovie i fiumi, le montagne, il foraggio tagliato e il foraggio da tagliare; e se essi non tornano indietro, se vanno avanti, se uccidono, se si lasciano uccidere, è il loro paese che li costringe a farlo, non sono proprio essi a farlo, lo fa il loro paese, e a loro è possibile, molto naturalmente, senza sforzo, restare semplici e pacifici anche durante una battaglia, e prima della battaglia parlare di bachi da seta e cinematografo” (pagg. 74- 75). E’ il senso etico che anima chi sta dalla parte delle libertà e della democrazia. Il partigiano che mette a repentaglio la sua esistenza lo fa per la felicità propria e per quelle degli altri. Perché nessuna cospirazione o rivoluzione può avere senso se gli uomini non possono essere felici.

E’ la ricerca della felicità il movente delle loro azioni. Di questo è interprete la bella vecchia dai capelli bianchi, Selva, che ospita e nasconde Enne 2 e Berta nella propria casa. Trova strano che Enne 2 non ha una donna con la quale condividere i pericoli. Berta è innamorata di lui. Il suo è un amore nascosto. E’ sposata con un altro. Vive fuori Milano, perché la sua casa è stata distrutta dalle bombe. Si muove dalla periferia verso il capoluogo con i treni delle Ferrovie Nord. Enne 2 non ama Berta perché ha da compiere altro nella vita. La sua missione è di dare la felicità agli altri. Lui può farne a meno. Eppure, la mite e saggia Selva lo rimprovera dicendogli: “Un uomo deve avere una compagna. Tanto più deve averla se è uno dei nostri. Dev’essere felice. Che cosa può sapere di quello che occorre agli uomini se uno non è felice? Noi lottiamo per questo. Perché gli uomini siano felici… Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Dev’essere felice con la sua compagna” (pag. 116).

La violenza dei non-uomini colpisce gli uomini: è questo il senso della dicotomia suggerita dal titolo. Uomini e no definisce una contrapposizione fra chi è vittima e chi è carnefice, anche se il rischio di confusione fra i due ruoli è molto alto, come dimostra l’incapacità dell’ultimo associato alla brigata di Enne 2 di uccidere a sangue freddo un soldato tedesco che non appare poi tanto diverso da lui. Il tedesco “era non più un ragazzo, col nastrino, al petto, di una campagna, non di una decorazione. E la sua voce fu molto timida. Eh? – Chiese. L’operaio voltò via il suo muso piccolo da lui. Dio di Dio! Pensò. Che aveva un tedesco da essere triste in quel modo” (pag. 248- 249).

Enne 2, dopo il tentativo di uccidere Cane Nero, preso dallo sconforto per aver perso tanti compagni di lotta, decide di attendere nel suo appartamento l’arrivo dei fascisti. “Vi fu una notte l’assalto dei nostri per eliminare Cane Nero. Fu alla caserma dove Cane Nero dormiva, l’organizzò e diresse Enne 2, ma lo scopo non venne raggiunto. Enne 2 vide cadere Scipione amico del Foppa e Mambrino amico di Coriolano, di nuovo fu tra la gente che si perdeva, ancora seppe di non poter aiutare nessuno, non poter far nulla perché una testa si rialzasse dal proprio sangue, e un’altra volta ricominciò ad aver voglia di fare almeno basta, perdersi con chi era perduto, non dover più sapere di uomini che si perdevano. Allora il Gracco si accorse che c’era disperazione in lui” (pag. 210). Lorena, una donna del gruppo, dice ad Enne 2 che la sua foto è su tutti i giornali. Lo ha riconosciuto anche il giornalaio, quello che appare all’inizio del romanzo. Deve abbandonare Milano. Enne 2 decide di resistere. Decide di restare e resistere: “Non c’era che resistere per resistere, o non c’era che perdersi. Non c’era sempre stata sugli uomini la perdizione? I nostri padri erano perduti. Sempre il capo chino, le scarpe rotte. O erano perduti dal principio; o resistevano per resistere, e poi lo stesso si perdevano. Perché ora sarebbe finita? Perché vi sarebbe stata una liberazione? Ora molti resistevano per una liberazione che doveva esserci. Anche lui aveva resistito per questo, ancora per questo resisteva, era sicuro che vi sarebbe stata, ma ecco, proprio per questo, che resistere non era semplice” (pag. 220).  Figlio di Dio gli porta da bere. “Orazio e Metastasio, venuti per ultimi, gli portano un pacchetto di nazionali”. Non le vuole perché non vuole che i suoi amici si privino delle sigarette per darle a lui. Ne accetta solo cinque. El Paso fa fuori Clemm. Figlio di Dio uccide i suoi cani che hanno sbranato l’ambulante Giulaj. Rimane solo Cane Nero. Gli amici cercano invano di dissuaderlo a restare, Enne 2 non ascolta. Decide di affrontarlo di persona, togliendo la sicura alle due pistole che ha in mano, mentre Cane Nero è sulla porta di casa. In quelle condizioni si poteva solo combattere, e pur nelle giusta rivendicazione d’una vita privata, d’una felicità propria non si poteva prescindere dalla riconquista collettiva della libertà, dello stato di diritto, della dignità umana.

Vittorini ci dice con il romanzo Uomini e no che importante nella vita è resistere per esistere. La recensione è solo un invito per rileggere il libro o leggerlo per la prima volta. E’ il canto della Resistenza al Nazismo e al Fascismo. Lo stile è inconfondibile. Il racconto si snoda su più piani temporali. Le ripetizioni nei dialoghi tra i personaggi hanno il potere di descrivere e presentare vicende, luoghi, drammi, e personaggi a tutto tondo. Discorso a parte meritano i capitoli scritti in corsivo, solo sei nell’edizione del libro che ho suggerito di leggere. Vanno letti più volte perché sono argomentativi. Ritornano sulla vicenda e sui protagonisti per precisare meglio tutti i drammi del racconto.

Raimondo Giustozzi

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