Se questo è un uomo è un’opera memorialistica di Primo Levi, scritta tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947. Rappresenta la coinvolgente testimonianza di quanto vissuto dall’autore nel campo di concentramento di Auschwitz. Levi sopravvisse infatti alla deportazione nel campo di Monowitz, lager satellite del complesso di Auschwitz e sede dell’impianto Buna – Werke, proprietà della I. G. Farben. Il testo venne scritto non per muovere accuse ai colpevoli, ma come testimonianza di un avvenimento storico e tragico. Lo stesso Levi diceva testualmente che il libro era “nato fin dai giorni di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi” ed è scritto per soddisfare questo bisogno. L’opera, durante la sua genesi, fu comunque oggetto di rielaborazione. Al primo impulso da parte di Levi, quello di testimoniare l’accaduto, seguì un secondo, mirato ad elaborare l’esperienza vissuta, il che avvenne grazie ai tentativi di spiegare in qualche modo l’incredibile verità dei lager nazisti. Il destino del libro doveva rivelarsi in un qualche modo imprevedibile, paragonabile da questo punto di vista alla sorte umana con i suoi più impensati alti e bassi. Infatti il manoscritto fu rifiutato da Einaudi in due occasioni, nel 1947 e nel 1952, visto favorevolmente da Natalia Ginzburg ma non da Cesare Pavese. Venne dato alle stampe dalla casa editrice Francesco De Silva, che fece uscire però solo 2500 copie. Il successo e la notorietà del libro si fecero attendere fino al 1958, anno in cui l’opera venne ripubblicata da Einaudi. Anche dopo la pubblicazione, la scrittura dell’esperienza personale vissuta alla fine della guerra rimase perennemente un lavoro in corso. Successivamente a Se questo è un uomo venne pubblicato il romanzo La tregua che descrive l’interminabile viaggio nei paesi dell’est in cui era stato coinvolto Levi sulla via del ritorno a casa, dopo la liberazione dal campo. Quest’opera deve il suo titolo al fatto di rappresentare una fase in cui la mente del protagonista resta in parte libera dal pensiero assillante della prigionia. Un pensiero che comunque lo avrebbe riassalito al momento di ritornare a casa e anche negli anni successivi. Nel 1986, infatti, pubblicò il saggio I sommersi e i salvati, dove tornava a trattare la tematica del lager. Il romanzo va letto da chi ha proposto in un passato non molto lontano una revisione del Fascismo, presentandolo come una sorta di operetta. Vergogna! Vergogna! Vergogna! Primo Levi fu consegnato ai Nazisti da Fascisti Italiani. Ritornò dal lager, il ricordo dell’Inferno di Aushwitz lo perseguitò per tutta la vita fino alla fine avvenuta l’11 aprile 1987.
Trama del romanzo
Il primo capitolo (Il viaggio) spiega la situazione degli ebrei italiani deportati a Fossoli nel Campo di transito. Il trasferimento in Germania è comunque imminente e la maggior parte dei prigionieri sa di andare incontro alla morte quasi sicura. Il treno fa tappa al Brennero, a Salisburgo, a Vienna e ancora in Polonia. Nei carri adibiti per il trasporto degli animali, i deportati viaggiano in condizioni disumane, cosicché parecchi di loro muoiono.
Nel secondo e nel terzo capitolo, Sul fondo e Iniziazione, sono descritte le prime scene nel campo di concentramento. A ciascuno dei prigionieri, chiamati in tedesco Häftling, è assegnato un numero (Levi è il 174517) che costituisce la loro nuova identità con decorrenza immediata. Si tratta di un’identità carica peraltro di significati fin dall’inizio. Al suo arrivo, il protagonista ignora ancora che grazie a quelle cifre è possibile stabilire provenienza e grado di anzianità dei vari prigionieri. Fin troppo in fretta si apprendono le prime leggi del campo, come quella di non fare domande, di fingere di capire tutto, di saper apprezzare il valore di oggetti essenziali alla sopravvivenza come le scarpe e il cucchiaio. Primo Levi tiene molto a spiegare il variegato panorama linguistico delle varie comunità etniche, compreso l’uso di termini specifici tedeschi in tutte le lingue. A proposito di questo paesaggio linguistico variegato, Levi propone un paragone tra il lager e la torre di Babele.
Ka-Be è il nome abbreviato dell’infermeria (baracca detta Krankenbau) che dà il titolo al quarto capitolo. In seguito ad un problema al piede, Levi è assegnato a questo blocco, fatto che gli concede una sorta di tregua per venti giorni, ma non di vera e propria speranza. Come dovrà capire, il numero che il protagonista porta tatuato sul braccio si trova di poco al di sotto di duecentomila: dato che il campo ospita poche decine di migliaia di persone, è logico che centinaia di migliaia di persone sono state uccise o sono morte di stenti prima ancora della deportazione del protagonista. Del resto, nel campo regna qualcosa come la certezza matematica che la maggior parte dei vivi è destinata a morire a medio termine. E’ questo quanto un gruppo di prigionieri ebrei fa capire a Levi, non senza fargli sentire un certo disprezzo. Quest’atteggiamento ostile è in parte dovuto al fatto che il protagonista – essendo italiano – non parla la loro lingua, lo Yiddish.
Il quinto capitolo, Le nostre notti, contiene tra l’altro una celebre pagina in cui il protagonista illustra il suo dormiveglia, una situazione nella quale i confini tra realtà e sogno si dissolvono. Si tratta dunque di un sonno che non regalerà mai il necessario riposo. Ogni notte, infatti, Levi, come gli altri internati, è periodicamente assalito da due incubi ricorrenti: Il primo riporta l’autore a casa, ignorato dai suoi amici e familiari mentre racconta le atrocità subite nel lager; il secondo illude invece Levi d’aver davanti a sé del cibo che poi scompare repentinamente ogni volta che prova a mangiarlo.
Il lavoro, sesto capitolo, illustra tra l’altro la scarsa predisposizione di Levi ai lavori pesanti: dovendo trasportare carichi di grosse dimensioni, il protagonista rischia di morire estenuato. Ciononostante, Levi approfitta della solidarietà del compagno di origini francesi Resnyk, il quale lo aiuta generosamente nei compiti più gravosi.
Il settimo capitolo, Una buona giornata, presenta una nuova fase di tregua nella vita del lager. Il fatto di poter mangiare a sazietà costituisce un evento eccezionale per i prigionieri, perché le dosi di cibo previste dai regolamenti non coprono il fabbisogno energetico giornaliero. La parvenza di un minimo di normalità, d’altro canto, favorisce il riemergere della tristezza, altrimenti rimossa durante le giornate dominate dalle percosse, dalla fame e dalla spossatezza.
Il titolo dell’ottavo capitolo, Al di qua del bene e del male, allude all’opera omonima di Nietzsche. Al contrario dell’eroe nietzschiano, il prigioniero del lager è presentato nella sua nullità. Questo capitolo illustra inoltre il significato e le ripercussioni di un evento apparentemente banale come il cambio della biancheria (il cosiddetto Wäschetauschen). Infatti, sul mercato del lager le camicie dei prigionieri vengono utilizzate come merce di scambio da cui poter ricavare della stoffa: nel campo si è sviluppato un mercato nero, una sorta di borsa soggetta a regole descrivibili con una certa precisione. Il valore di scambio, quindi il prezzo di cose e materiali è soggetto a sbalzi e ad improvvise cadute, in funzione della variabile disponibilità dei beni e dei capricci del mercato: oltre ai meccanismi di domanda e offerta, giocano un ruolo molto importante le manovre di speculazione messe in atto dai prigionieri. Un imminente cambio della biancheria, ad esempio, comporta un crollo di valore delle camicie sul mercato nero non appena reso noto.
Uno dei capitoli di maggiore importanza è senza dubbio il nono, dedicato a i sommersi ed i salvati (il titolo di questo capitolo verrà ripreso per battezzare l’importante saggio del 1986). Levi spiega come questa distinzione (tra candidati alla sopravvivenza o alla morte) sia per lui di importanza assai maggiore rispetto a quelle di bene e di male, categorie praticamente impossibili da definire in maniera obiettiva. Levi passa quindi ad illustrare le vicende di alcuni detenuti (Schepschel, Alfred L, Elias Lindzin, Henri) a mo’ di esempi, come mostrano le brevi note biografiche dedicate a questi internati. Il miglior modo per sopravvivere è senza dubbio quello di conquistarsi un posto al sole facendosi incaricare di mansioni speciali, diventando ad esempio un cosiddetto Kapo. La maniera esemplare per far parte dei votati alla morte sicura è invece quella di adattarsi alle regole ufficiali del campo, per poi indebolirsi lentamente a causa dell’esaurimento, della denutrizione e delle malattie.
Esame di chimica: in seguito a questa prova sostenuta presso il dottor Pannwitz, Levi è ammesso alle mansioni di laboratorio. È questo uno dei principali fattori a garantirne la sopravvivenza nel lager, sottraendolo al destino dei cosiddetti Muselmänner, cioè dei votati alla morte certa.
L’undicesimo capitolo, Il canto di Ulisse, è ispirato al ventiseiesimo canto dell’Inferno, in cui viene narrata la vicenda umana di Ulisse, guidato – come Dante Alighieri e come Levi – dalla sete di sapere. Il protagonista cerca di ricordarsi i versi danteschi e di tradurli a un suo compagno di prigionia. Levi rivive la chiusa del canto, mentre è in fila per la zuppa, come metafora dell’esperienza che sta scontando nel lager. “- Kraut und Rüben – Si annunzia ufficialmente che la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Kàposzta és répak. Infin che ‘l mar fu sovra noi rinchiuso”.
I fatti dell’estate: questo capitolo si riferisce al tracollo militare dei nazisti, fatto quindi noto ai prigionieri. Neanche alla fine della guerra, dopo lo sbarco in Normandia e la gigantesca controffensiva sovietica in Russia, si sviluppa tra i prigionieri una speranza vera e propria. I fronti alleati sono, infatti, lontanissimi, mentre la necessità di risolvere gli impellenti problemi della sopravvivenza quotidiana continua a essere onnipresente.
Ottobre 1944, il tredicesimo capitolo, illustra la sopravvivenza di Levi a una selezione dei nazisti, mentre il capitolo successivo, Kraus, propone il ritratto di un prigioniero del lager.
Die drei Leute vom Labor (le tre persone del laboratorio) descrive alcune impressioni sulla nuova vita da chimico del protagonista, senza tuttavia approfondire le funzioni specifiche del laboratorio, né le mansioni svolte dal narratore. La presenza di tre donne crea un effetto estraniante.
Nel capitolo L’ultimo è rappresentata la figura amica di Alberto, il bresciano Alberto Dalla Volta, già nota dai capitoli precedenti. Costituisce una specie di alter ego per il protagonista. Si tratta di un personaggio sempre solidale e molto ricco d’inventiva e diplomazia, e di una figura assai amata nel campo.
Scritto sotto forma di diario, Storia di dieci giorni costituisce l’epilogo della vicenda. Siccome l’arrivo dell’Armata Rossa è oramai imminente, i tedeschi decidono di evacuare il campo facendo partire da Auschwitz almeno i prigionieri sani. Dato che si è ammalato di scarlattina, Levi è ricoverato e viene escluso dal trasferimento, senza sapere che però quella spedizione finirà per portare i prigionieri verso la fine (si tratta della marcia della morte ed è questa la sorte riservata ad Alberto). Sopravvivranno invece diversi dei pazienti che, come Levi, rimangono nel campo. Il protagonista e altri due prigionieri si daranno da fare per aiutare gli altri malati della loro baracca mentre aspettano l’arrivo dei sovietici, avvenuto il 27 gennaio 1945. A ricordo di questa data, si ricorda ogni anno il giorno della memoria.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)
Primo Levi, nella poesia, si rifà alla preghiera Shemà (in ebraico), Ascolta (a volte detto Shemà Israel; (“Ascolta, [O] Israele!”). È in genere considerata la preghiera più sentita. La sua lettura avviene due volte al giorno, al mattino ed alla sera. “Ascolta Israele il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Benedetto il Suo nome glorioso per sempre. E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che Io (cioè Dio) ti comando oggi, nel tuo cuore, e le insegnerai ai tuoi figli, pronunciandole quando riposi in casa, quando cammini per la strada, quando ti addormenti e quando ti alzi…”.
Il ruolo della donna, madre e moglie, nella tragedia della Shoà
Primo Levi così descrive, nel primo capitolo del romanzo “Se questo è un uomo”, il giorno prima della partenza dal campo di prigionia di Fossoli (20 febbraio 1944): “…Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all´alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? Nella baracca 6 A abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato” (Primo Levi, Se questo è un uomo”, RCS Libri S.p.A., Milano 2012, pag. 13).
La partenza da Fossoli e l’arrivo ad Aushwitz- Birkenau
“Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine, – Wieviel Stück? – domandò il maresciallo; e il caporale salutò di scatto, e rispose che i «pezzi» erano seicentocinquanta, e che tutto era in ordine; allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?
I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi.
Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza” (pag.14- 15).
L’arrivo ad Aushwitz- Birkenau avviene cinque giorni dopo (25 febbraio 1944). “La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno, in meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.
Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla (pag. 16- 17).
Umiliazione, offesa e degradazione dell’uomo
Tutto il romanzo è una documentazione sincera e appassionata di ciò che è il lager: umiliazione, offesa e degradazione dell’uomo. Dopo la prima sommaria selezione, Primo Levi si trova caricato su di un autocarro con una trentina di altri prigionieri in piena notte per giungere al campo dove all’ingresso campeggia la ben nota frase: “Arbeit Mach Frei”. Scesi dal carro vengono fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata: “Il debole fruscio dell’acqua dei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto. Sopra un cartello, che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, essi sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Questo è l’inferno” (Primo Levi, Se questo è un uomo, pag. 19). “Poi arriva l’ordine di spogliarsi, fare un fagotto degli abiti in un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra, togliersi le scarpe ma fare molta attenzione di non farcele rubare. Poi viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finito e ci sentiamo fuori dal mondo e l’unica cosa è obbedire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. E’ matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saranno spaiate. La porta dà all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tedesco la riapre, e sta a vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripararci dal vento uno dietro l’altro; poi se ne va e la richiude” (pag. 20). La spogliazione della dignità continua in un crescendo da inferno dantesco: “Adesso è il secondo atto. Entrano con violenza quattro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e giacche a righe, un numero cucito sul petto, ci agguantano e in momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco. Finalmente si apre una porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, con i piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno risponde. L’ingegner Levi mi chiede se penso che anche le nostre donne siano così come noi in questo momento, e dove sono, e se le potremo rivedere. Io rispondo di sì ma ormai la mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono (pag. 21). L’interprete Flesh, un ebreo tedesco sulla cinquantina, traduce a malincuore in Italiano quello che dicono le autorità del campo. Primo Levi ha compassione per lui perché ha iniziato a soffrire prima di loro. Vengono poi a sapere da un altro internato, di professione dentista, in lager da quattro anni, di origine ungherese, che il campo è quello di Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia, regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Improvvisamente, al suono di una campana, “l’acqua scaturisce bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine, ma subito dopo irrompono quattro che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpe a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui è concesso di vestirci” (pag. 23). E’ l’inizio della demolizione di un uomo, scrive Primo Levi. Tolti tutti i segni del mondo esterno: scarpe, capelli e il nome, il prigioniero è in balia di tutto e di tutti, soprattutto dei prigionieri criminali, quelli contrassegnati con il triangolo verde, i veri padroni del campo. Scrive così Primo Levi: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede; sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi a perso tutto, di perdere se stesso” (pag. 23). Tutti diventano dei numeri. Primo Levi diventa il 174 517. Nel campo, solo mostrando il numero si ricevono il pane e la zuppa. Finita l’operazione di tatuaggio del numero al braccio, il processo di inserimento nel nuovo ordine avviene sempre più in maniera grottesca: “Ci hanno chiusi in una baracca dove non c’è nessuno. Le cuccette sono rifatte, ma ci hanno severamente proibito di toccarle e di sedervi sopra; così ci aggiriamo per metà giornata nel breve spazio disponibile, ancora tormentati dalla sete furiosa del viaggio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo dal vestito a righe, dall’aria abbastanza civile, piccolo, magro e biondo. Parla francese. Io gli chiedo se ci avrebbero restituito almeno gli spazzolini da denti, lui non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: – Vous n’êtes pas à la maison– Ed è questo è il ritornello che da tutti sentiamo ripetere; non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? Lo impareremo bene più tardi (pag. 25). Dopo le pratiche d’iniziazioni alla vita del campo, i prigionieri sono obbligati tutti inquadrati ad ascoltare il suono di una ben nota canzonetta “Rosamunda”. Primo Levi fa la conoscenza di un giovane ebreo polacco Schlome, mai più rivisto in seguito: “Non ho più rivisto Schlome, ma non ho dimenticato il suo volto grave e mite di fanciullo, che mi ha accolto sulla soglia della camera dei morti” (pag. 27). Anche la decisione di trovarsi gli Italiani, ogni domenica sera in un angolo del lager, è abbandonata “perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, più deformi e più squallidi” (pag. 32). L’iniziazione alla vita del campo viene descritta lucidamente nel capitolo “Iniziazione”: “La sveglia. L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica, molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, il sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco” (pag. 34).
Ricoverato nell’infermeria del campo per una brutta ferita ad un piede, Primo Levi impara proprio qui che chi non è abile al lavoro e non guarisce passa per le selezioni e viene portato al crematorio. E’ quello che accade a Schmulek, ebreo: “Il giorno dopo, invece del solito gruppo di guariti, sono stati messi in uscita due gruppi distinti. I primi sono stati rasi e tosati e hanno fatto la doccia. I secondi sono usciti così, con le barbe lunghe e le medicazioni non rinnovate, senza doccia. Nessuno ha salutato quest’ultimi, nessuno li ha incaricati di messaggi per i compagni sani. Di questi faceva parte Schmulek. In questo modo discreto e composto, senza apparato e senza collera, per le baracche del Ka- Be si aggira ogni giorno la strage, e tocca questo o quello. Quando Schmulek è partito, mi ha lasciato cucchiaio e coltello; Walter (Walter Bon, un olandese, malato, anche lui in infermeria) ed io abbiamo evitato di guardarci e siamo rimasti a lungo silenziosi. In questa Ka- Be, parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la nostra vita; e i savi antichi, invece che ammonirci “ricordati che devi morire”, meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia. Se dall’interno dei lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui. La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore. “Heimweh” si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire “dolore della casa”. Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo di fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo con stupore che nulla abbiamo dimenticato, ogni memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida. Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo” (pag. 48- 49).
Si sa che al campo, la fame viene calmata con litri di zuppa mista ad acqua: “Devono essere passate le ventitré perché già è intenso l’andirivieni al secchio, accanto alla guardia di notte. E’ un tormento osceno e una vergogna indelebile: ogni due, tre ore ci dobbiamo alzare, per smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame. Non si tratta solo della processione al secchio: è legge che l’ultimo utente del secchio medesimo vada a vuotarlo alla latrina, è legge altresì, che di notte non si esca dalla baracca se non in tenuta notturna (camicia e mutande), e consegnando il proprio numero alla guardia. Ne segue che la guardia notturna cercherà di esonerare dal servizio i suoi amici, i connazionali e i prominenti (pag. 55.)
Nel lager non esistono buoni o cattivi, vili o coraggiosi, disgraziati o fortunati, come invece può accadere nella vita civile, ma tutti gli internati si possono dividere in due categorie: I sommersi e i salvati. “La via maestra”, scrive Primo Levi, “per essere tra i salvati è la Prominenz. Prominenten si chiamano i funzionari del campo, a partire dal direttore Häftling, ai Kapo, ai cuochi, agli infermieri, alle guardie notturne, fino agli scopini delle baracche, ai sovraintendenti alle latrine e alle docce. I prominenti ebrei costituiscono un triste e notevole fenomeno umano. In loro convergono le sofferenze presenti, passate e ataviche, e la tradizione e l’educazione di ostilità verso lo straniero, per farne mostri di asocialità e di insensibilità. Essi sono il tipico prodotto della struttura del lager tedesco: si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. I prominenti politici tedeschi, polacchi, russi, rivaleggiavano in brutalità con i rei comuni” (pag. 82, 83). Nella vita comune, scrive Primo Levi può anche accadere che uno si perda, ma mai toccherà il fondo, perché ha dentro di sé riserve spirituali, fisiche ed anche pecuniarie. “Una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale, che è legge interna; viene considerato tanto più civile un paese, quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente. Nel lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo. Se uno vacilla non troverà nessuno che gli porga una mano, bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un “Mussulmano” (i vecchi del campo designavano così i deboli, gli inetti, i votati alla selezione, scrive Primo Levi in nota) di più si trascini al lavoro. Se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento; diventerà più forte, e perciò più temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a sopravvivere. Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini), finisce in breve mussulmano. Una terza via esiste nella vita, dove anzi è la norma; non esiste in campo di concentramento. Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare… sono battuti sul tempo, non cominciano ad imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento” (pag. 80, 81).
Quando nell’agosto 1944 iniziarono i bombardamenti nell’Alta Slesia, anche la Buna, la grande fabbrica iniziò a cadere “a pezzi intorno a noi. Abbiamo dovuto sudare fra la polvere e le macerie roventi, e tremare come bestie, schiacciati a terra sotto la rabbia degli aerei. Tornavamo la sera in campo, rotti di fatica e asciugati dalla sete, nelle sere lunghissime e ventose dell’estate polacca, e trovavamo il campo sconvolto, niente acqua per bere e lavarsi, niente zuppa per le vene vuote, niente luce per difendere il pezzo di pane l’uno dalla fame dell’altro, e per ritrovare, al mattino, le scarpe e gli abiti nella bolgia buia e urlante del Block. Quando la terra cominciava a tremare, ci trascinavamo, storditi e zoppicanti, attraverso i fumi corrosivi dei nebbiogeni, fino alle vaste aree incolte, sordide e sterili, racchiuse nel recinto della Buna; là giacevamo inerti, ammonticchiati gli uni sugli altri come morti, sensibili tuttavia alla momentanea dolcezza delle membra in riposo” (pag. 105, 106).
Primo Levi, assieme ad altri due compagni del suo Block, ha la fortuna sfacciata di entrare, dopo aver superato un esame come laureato in chimica, nell’omonimo laboratorio. E’ al caldo, al riparo, fino a quando non rientra nel capo da percosse e dalle angherie dei sorveglianti. Il termometro segna 24°, ha a disposizione matite, quaderno ed un libro per rinfrescarsi la memoria sui metodi analitici. E’ da qui che nasce il libro “Se questo è un uomo”: “Ecco al mio fianco la compagna di tutti i momenti di tregua, del Ka- be e delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui la coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo quello che non saprei dire a nessuno” (pag. 126). Nel laboratorio ci sono tre ragazze civili tedesche, più una ragazza polacca che è la magazziniera. “Queste ragazze cantano, come cantano tutte le ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende profondamente infelici. Discorrono tra loro: parlano del tesseramento, dei loro fidanzati, delle loro case, delle feste prossime. – Domenica vai a casa? Io no: è così scomodo viaggiare! – Io andrò a Natale. Due settimane soltanto, e poi sarà ancora Natale: non sembra vero, quest’anno è passato così presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a moltissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere” (pag. 127).
Al campo, tutti i prigionieri sono costretti ad assistere all’impiccagione di un detenuto che assieme ai propri compagni del Sonderkommando aveva fatto saltare uno dei crematori di Birkenau. Dopo aver assistito come automi all’impiccagione, “Alberto (è un compagno di prigionia con il quale Primo Levi condivide tutto) ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere un duro, doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi siamo rotti, non ha potuto piegarlo. Perché anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo”( pag. 133).
Sotto l’incalzare dell’Armata Rossa, più di diecimila prigionieri vengono incolonnati per essere trasferiti in altri campi. Alberto, l’amico di Primo Levi, morirà in queste marce di trasferimento. Primo Levi, Charles ed Arthur, diventano nel campo con i pochi sopravvissuti, il punto di riferimento per tutti. Ma manca ormai tutto. E’ l’ultimo capitolo del libro scritto sotto forma del diario: “26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. E’ uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non – umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo” (pag. 152).
I Russi entrarono nel campo “mentre io e Charles portavamo la cosa Somogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia” (pag. 153).
“La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Somogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo” (Primo Levi, La Tregua, Torino 1997). “La tregua”, l’altro romanzo di Primo Levi, è la continuazione di “Se questo è un uomo”. E’ considerato da molti il capolavoro di Primo Levi, pubblicato nel 1963, è il diario del viaggio verso la libertà dopo l’internamento nel Lager nazista.
Raimondo Giustozzi
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