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Cultura. La casa in collina (1948), Cesare Pavese

La casa in collinaRiassunto breve

Corrado, il protagonista, è un professore di Torino che vive con uno spirito di indifferenza e di apatia il duro periodo dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Rifugiatosi sulla collina torinese, vive presso due donne molto premurose nei suoi confronti: Elvira e la madre. Così trova piacevole incontrarsi con un gruppo di gente semplice e allegra che si ritrova in una vecchia osteria dalla parte opposta della collina, tra cui ritrova anche Cate, una donna che aveva amato anni addietro e che poi aveva lasciato per paura delle responsabilità. Cate ha un figlio di nome Dino, che egli sospetta essere suo figlio, con il quale passa il tempo e nel quale egli rivede la sua spensierata fanciullezza. Ma tutto questo non può durare e quando l’8 settembre 1943 giunge l’annuncio dell’armistizio e la situazione, dopo i primi entusiasmi, sta precipitando, Corrado trascorre mesi di angoscia e paura finché un giorno i tedeschi fanno una perquisizione nell’osteria e Cate e gli amici vengono catturati. Corrado, che nel frattempo rientra da Torino, osserva quanto sta succedendo senza essere visto e si salva. Rimane per un po’ di tempo nascosto presso Elvira e sua madre e in seguito si rifugia presso il Collegio di Chieri, mentre Dino, che lo raggiungerà più tardi, rimane per il momento presso le donne. Quando Dino lascerà il collegio per unirsi ai partigiani, Corrado decide di ritornare al suo paese natale “di là dai boschi e dal Belbo” anche se il ritorno a casa non serve a migliorare la sua crisi esistenziale.

Trama del romanzo

Anche in questo romanzo, pubblicato nel 1948, c’è la storia di Pavese, ma quella più recente, sia cronologicamente, sia come contenuto rispetto al testo. La guerra è appena finita ed egli dal 1943 al 1945, si era rifugiato nel Monferrato per sfuggire alla guerra civile allora in corso. L’io narrante del romanzo è Corrado, un insegnante che otto anni prima del 1943, anno della destituzione di Mussolini (25 luglio 1943), dell’armistizio con gli Alleati (Cassibile 8 settembre 1943), dell’inizio della guerra partigiana a seguito dell’occupazione militare tedesca dell’Italia Centro Settentrionale,  aveva iniziato a dare le prime lezioni come professore. Pavese traccia un paragone tra le colline, dove ora vive, quelle a lui care delle Langhe e quelle che Corrado frequentava ai tempi della guerra. In tutti i romanzi di Cesare Pavese c’è sempre un confronto continuo e serrato tra il presente e il passato fatto di nostalgia e di memorie. Anche l’incipit del romanzo non sfugge a questo tema: “Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche, dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita. Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Devo dire- cominciando questa storia di una lunga illusione- che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava. Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute” (Cesare Pavese, La casa in collina, pag. 16,17, Milano 2003).

Otto anni prima del 1943, Corrado, allora ventenne, aveva conosciuto Cate: “Una figliola beffarda e disoccupata, magra e un poco goffa, violenta. Se usciva con me, se mi stringeva sottobraccio nascondendo le unghie rotte, non era detto per questo che sperasse qualcosa. Era l’anno che io affittavo una stanza in via Nizza, che davo le prime lezioni e mangiavo sovente in latteria. Da casa mi mandavano quattrini, tanto poco per allora bastavo a me stesso. Non  avevo nessun avvenire se non quello generico di un giovane campagnolo che ha studiato e che vive in città, si guarda intorno e ogni mattina è un’avventura e una promessa. Vedevo molta gente in quei giorni, mi davo d’attorno e vivevo con molti” (Cesare Pavese, La casa in collina, pag. 22, Milano 2003). Il protagonista ha molti amici, tra questi, Gallo con il quale progetta di aprire una scuola di agraria. Gallo, arruolatosi nell’esercito, morirà in Sardegna a seguito dello scoppio di una bomba. “C’erano le sorelle di tanti, e Martino il giocatore che sposò la cassiera, e i chiacchieroni, gli ambiziosi, che scrivevano libri, commedie, poesie, se le portavano in tasca e ne parlavano al caffè” (pag. 22, 23). Corrado frequenta Cate con la quale ha un intenso rapporto sentimentale. Egoista, solitario e incapace di rispondere all’amore della ragazza, improvvisamente la lascia: “L’idea di esserle legato, di doverle qualcosa, per esempio del tempo, mi pesava ogni volta” (pag. 24). In quest’amore consumato più volte tra i due, c’è tutta la personalità di Pavese, incapace di avere rapporti duraturi e profondi con le donne della sua vita.

Corrado incontra Cate otto anni dopo, in piena guerra. E’ ospite di due donne, madre e la figlia, in una villa, fuori Torino, in collina. Fa il pendolare tra questa casa e Torino, dove va a insegnare al Convitto. I bombardamenti degli aerei anglo americani sconvolgono la città. Preferisce vivere da sfollato e godere di tutte le attenzioni delle due donne: “Delle due preferivo la vecchia, la madre, che nella mole e negli acciacchi portava qualcosa di calmo, di terrestre. Non parlava gran che, ma sapeva ascoltare. L’altra, la figlia, una zitella quarantenne, era accollata, ossuta, e si chiamava Elvira. Viveva agitata dal timore che la guerra arrivasse lassù. M’accorsi che pensava con ansia a me, e me lo disse: pativa quand’ero in città, e una volta che la canzonò in mia presenza, Elvira rispose che, se le bombe distruggevano un altro po’ di Torino, avrei dovuto star con loro giorno e notte” (pag. 17). Corrado, nel suo nascondiglio, ha con sé un cane: Belbo, con il quale fa lunghe passeggiate per i sentieri e i boschi attorno alla casa in collina. Poco lontano dalla sua pensione provvisoria c’è una osteria “Le Fontane” dove si danno convegno in tanti: Fonso, Giulia ed altri. In un giorno imprecisato, Corrado che è a spasso con Belbo, sente delle voci. Si avvicina e trova proprio la ragazza che aveva conosciuto otto anni prima, ora donna con un figlio. Ma è Cate a riconoscerlo: “E lei che fa? E’ in villeggiatura? Riconobbi la voce. Adesso, a pensarci, mi sembra evidente. La riconobbi, e non mi chiesi di chi fosse. Era una voce un poco scabra, provocante, brusca. Risposi scherzando che andavo a tartufi con il cane. Lei mi chiese se dove insegnavo si mangiavano tartufi. – Chi le ha detto che insegno? – feci sorpreso. – Si capisce,- mi disse nel buio. C’era qualcosa di canzonatorio nella sua voce. Lei è Cate. Cate non mi dava più risposta. Credo che avesse chiuso gli occhi” (pag. 22, 21). Corrado rincasa nella villa delle due donne, meritandosi i rimproveri di Elvira che stava in pensiero per lui. Corrado, mentre sta mangiando, ripensa all’incontro con Cate: “Masticando pensavo all’incontro, alla cosa accaduta. Più che di Cate m’importava del tempo, degli anni. Era incredibile. Otto, dieci? Mi pareva di avere riaperto una stanza, un armadio dimenticato, e d’averci trovata dentro la vita di un altro, una vita futile, piena di rischi. Era questo che avevo scordato. Non tanto Cate, non i poveri piaceri di un tempo. Ma il giovane che viveva quei giorni, il giovane temerario che sfuggiva alle cose credendo che dovessero ancora accadere, ch’era già uomo e si guardava sempre intorno se la vita giungesse davvero, questo giovane mi sbalordiva. Che cosa c’era di comune tra me e lui? Che cosa avevo fatto per lui?  Quelle sere banali e focose, quei rischi casuali, quelle speranze familiari come un letto o una finestra – tutto pareva il ricordo di un paese lontano, di una vita agitata, che ci si chiede ripensandoci come abbiamo potuto gustarla e tradirla così” (pag. 21,22).

“È innegabile la tendenza di Pavese a narrare se stesso, il suo dramma di uomo incapace di agire, di scegliere, di operare, tutto teso ad osservare la vita che gli scorre addosso e lo isola dalla possibilità di interagire con il mondo, quel dramma che alla fine lo porterà a scegliere il suicidio, ad anteporre la morte alla vita, ad andarsene da quel mondo che non sapeva entrare nella sua anima, se non come un paesaggio contemplato, come una meditazione illuminata dalla luce della luna o dal rosso di mille emblematici falò. C’è tutto Pavese nella figura di Corrado che non sa amare Cate, e che disprezza Elvira, emblema inquietante di quella misoginia malamente mascherata, di quella disperata ricerca di amore che invece non c’era, nella sua vita, e forse non ci sarebbe stata mai.  Non è facile nascondere a Pavese la sua tendenza all’autobiografia, sia pure celata dietro inutili artifici: professore di scienze, Corrado, e non di letteratura, ma appunto l’espediente serve a poco e del resto poco importava, poco importa. Cesare/Corrado vuole narrare la guerra come idea, come impegno, la guerra civile, i bombardamenti che, per la prima volta, non risparmiano le città”.

Bombardamenti su Torino.

I bombardamenti su Torino continuano incessanti, fino ad arrivare, sebbene attutiti, nella casa in collina dove Corrado gode della protezione delle due donne, madre e figlia. Il giorno successivo, dopo il bombardamento, si reca a Torino per la scuola rimasta intatta. Trova solo Domenico, il bidello della scuola, non c’è la segretaria, non c’è Fellini, altro bidello, non ci sono i professori, non ci sono gli alunni. Corrado passa il tempo ad aggiornare i registri e a scrivere giudizi, poi esce in strada: “Finii la mattina andando a zonzo, nel disordine e nel sole. Chi correva, chi stava a guardare. Le case sventrate fumavano. I crocicchi erano ingombri. In alto, tra i muri divelti, tappezzerie e lavandini pendevano al sole. Ciclisti avidi, sudati, mettevano il piede a terra, guardavano e poi ripartivano per altri spettacoli. Li muoveva un superstite amore del prossimo. Sui marciapiedi, dov’era avvampato un incendio, s’accumulavano bambini, materassi, suppellettili rotte. Bastava una vecchia a vuotare l’alloggio. La gente guardava. Di tanto in tanto studiavano il cielo. Faceva strano vedere i soldati. Quando passavano in pattuglia, con la pala e il sottogola, si capiva che andavano a sterrare rifugi, ad estrarre cadaveri e vivi, e si sarebbe voluto incitarli, gridargli di correre, far presto perbacco. Non servivano ad altro, si diceva tra noi. Tanto la guerra era perduta, si sapeva. Ma i soldati marciavano adagio, aggiravano buche, si voltavano anche loro a sogguardare le case. Passava una donna belloccia e la salutavano in coro. Erano gli unici, i soldati, ad accorgersi che le donne esistevano ancora”(pag. 28). Ritornando nella sua casa in collina, Corrado ripensa al tempo in cui era giovane: “Mi vennero in mente le cose di un tempo, le sere, i discorsi, i miei furori, l’anno in cui conobbi Anna Maria che volevo sposare. Glielo chiedevo dappertutto, per le scale, nei balli, sotto i portoni. Lei si faceva misteriosa e sorrideva. Durò tre anni e fui sul punto di ammazzarmi. Di uccidere lei non valeva la pena. Ma persi il gusto all’alta scienza, al bel mondo, agli istituti scientifici. Mi sentii contadino. Siccome la guerra non venne nell’anno, concorsi a una cattedra e cominciai questa mia vita” (pag. 30). Rientrato nel suo rifugio in collina, Corrado conosce Egle una studentessa quindicenne, protetta da Elvira e  la nonna di Cate. Con il mese di giugno chiudono le scuole e Corrado ha tutto il tempo per passeggiare per i boschi, interessato com’è alle Scienze Naturali. Approfondisce l’amicizia con Fonso, un ragazzo di diciotto anni. Conosce Dino, il figlio di Cate: “Chi non mancava mai, nel cortile o dietro casa, era Dino. Adesso, finite le scuole, era in mano della nonna, che lo lasciava gironzolare, gli puliva la faccia con lo straccio e lo chiamava a far merenda. Era magro e monello. Non so perché, mi faceva quasi pena” (pag. 40). Dino trascorre molto tempo con Corrado, lo segue nei boschi in compagnia del cane, anche a lui piace conoscere i nomi delle piante, Corrado vede in lui il se stesso ragazzo. Un dubbio lo assale. Perché quel nome? “Un mese mi c’era voluto per capire che Dino vuol dire Corrado”. Forse, pensa, potrebbe essere anche suo figlio: “Dissi brusco e strinsi il braccio, – di chi è figlio Corrado? Si liberò senza parlare. Era robusta più di me. – Stai tranquillo, – mi disse, – non avere paura. Non sei tu che l’hai fatto. Tu l’hai fatto l’amore con me, – disse tranquilla, – e di me t’importava un bel niente. Dino è mio figlio, – disse piano. – Andiamo via” (pag. 46). Corrado chiede al ragazzo, quando è in sua compagnia al borgo del Pino, un’altra piccola località poco distante dalle “Fontane”, se ha conosciuto il padre. La mamma, risponde il ragazzo, l’ha conosciuto. Lui no. “Io sono orfano”.  Nella comitiva che frequenta la trattoria “Le Fontane”, Corrado conosce il fratello di Egle, Giorgi che presta servizio presso l’esercito come ufficiale pilota. Venuta la sera, Corrado si sente sempre più solo: “Poi venne sera e, non so come, quella sera stetti a guardare il cielo nero. Ripensavo alla notte e al mattino, al passato, a tante cose, alla mia strana immunità in mezzo alle cose. Di tanto in tanto nella notte mi giungevano canti, clamori lontani. Fiutavo l’odore dei boschi. Pensavo a Dino, all’aviatore, alla guerra. Pensavo che tanto ero vecchio e che avrei sempre continuato quella vita” (pag. 50).

 

 

Destituzione di Mussolini.

 

Anche alle “Fontane” giunge la notizia che Mussolini era stato rovesciato. In molti ascoltano Radio Londra. Nando, lo sposo sinistrato, le sorelle di Fonso, Fonso stesso, Gregorio, l’oste della trattoria, Cate propongono che è giunto il tempo per fare qualcosa: scioperi, manifestazioni, per strappare al governo la pace e non permettere che i Fascisti si riorganizzino. Cate lavora presso un ospedale di Torino. Corrado raggiunge tutti i giorni la propria scuola. Fonso ha una ditta nei pressi di Borgo Dora. Ha operai e il lavoro non manca. Pensa di organizzare qualcosa. Corrado è sempre lontano dalla realtà. Mentre tutti pensano a lottare, lui ritorna a chiedere a Cate se Dino è suo figlio e lei: “Che cosa t’importa se Dino è tuo figlio? Se fosse tuo figlio, mi vorresti sposare. Non ci si sposa per questo. Anche me vuoi sposarmi per liberarti di qualcosa. Non pensarci, – Mi strinse il bavero, carezzandomi. Mi guardò sorridendo. – Te l’ho già detto. Sta tranquillo. Non è tuo figlio. Sei contento? (pag. 59). Cate vorrebbe che suo figlio studiasse, che diventasse qualcuno. Corrado le risponde: “Essere qualcuno è un’altra cosa. Non te l’immagini nemmeno. Ci vuole fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno. Se davvero speri nella rivoluzione, – le dissi,- ti dovrebbe bastare un figliolo operaio” (pag. 61). Rincasando, Corrado viene rimproverato da Elvira perché non l’aveva avvisata che era fuori, “credendo di avere diritto a un riguardo, a un pensiero. Padrone di andarmene con chiunque, disse. Ma almeno avvertissi”. Corrado reagisce in modo sgarbato: “Che diritti, – risposi seccato. – Nessuno ha diritti. Abbiamo quello di crepare, di svegliarci bell’e morti. Con quel che succede. L’Elvira nel buio guardava oltre le mie spalle. Taceva. Mi accorsi con terrore che le guance brillavano di lacrime. Allora persi del tutto la pazienza. – Siamo al mondo per caso, – dissi. – Padre, madre, figlioli, tutto viene per caso. Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli. – Basta volere un po’ di bene, – mormorò lei, con quella voce autoritaria” (pag. 61). Il giorno successivo, Corrado chiede scusa ad Elvira e cerca la compagnia di Dino, che non lo accetta poi così tanto: “Strana cosa, pensai, coi bambini succede come succede con gli adulti: si disgustano a troppo accudirli. L’amore è una cosa che secca. Ma erano amore, le smanie dell’Elvira per me, le mie chiacchiere con Dino e il farmi ragazzo per lui? Esistono amori che non siano egoismo, che non vogliano ridurre l’uomo o la donna al proprio comodo?” (pag. 63). Gli allarmi notturni intanto mettevano tutti nel panico: “Gli allarmi e i passaggi d’aerei ricominciarono presto. Vennero i primi temporali, ma dal cielo lavato la luna d’agosto illuminava fin le bocche dei tombini” (pag.64). Nando, Tomo, Fonso e finanche Dino che canta “Bandiera Rossa” vogliono impegnarsi in prima persona per combattere contro i tedeschi e i fascisti, temendo che la destituzione di Mussolini fosse solo un gioco delle parti. Gli Inglesi avevano altro da pensare. Corrado rimane distaccato: “Ogni volta giuravo di tacere e ascoltare, di scuotere il capo e ascoltare. Ma quel cauto equilibrio d’ansie, d’attese e di futili speranze in cui adesso trascorrevo i giorni, era fatto per me, mi piaceva: avrei voluto che durasse eterno. L’impazienza degli altri poteva distruggerlo. Da tempo ero avvezzo a non muovermi, a lasciare che il mondo impazzisse” (pag.65). Intanto applaude al fatto che ci fossero dei sovversivi pronti a rovesciare il vecchio mondo che implodeva da se stesso: “Sovversivi, lo so. Meno male. Crede, rivolgendosi ad Elvira che al mondo ci siano che i preti e i fascisti?”. Passa l’estate: “L’estate finiva. Si cominciavano a vedere contadine per i campi, e le scalette contro i tronchi dei frutteti. Adesso con Dino uscivamo dal prato: c’erano le pere, c’era l’uva, c’era il campo di meliga. L’otto settembre ci sorprese che con Gregorio abbacchiavamo le noci. Prima passò sulla strada un autocarro militare, che ululava alle curve e levò un polverone. Veniva da Torino. Dopo un attimo, altro schianto e altro fragore: un secondo autocarro. Ne passarono cinque. La polvere giunse fin tra le piante, nell’aria limpida della sera. Ci guardammo in faccia. Dino corse in cortile” (pag. 72).

 

La Guerra Civile.

 

Gli eventi precipitano. I Tedeschi occupano militarmente Torino, Acqui, Alessandria, Casale. I Fascisti alzano la testa. Mussolini viene liberato dalla prigionia del Gran Sasso. Viene proclamata la Repubblica Sociale Italiana con sede a Salò. La guerra è un affare di tutti. Alle “Fontane” si nascondono armi e cibo per le prime formazioni partigiane. Molti partono per la montagna e fuggire all’arruolamento. Nando, Fonso, Cate, Gregorio decidono di esporsi in prima linea. “Fonso e gli altri incettavano armi, svaligiavano magazzini e ripostigli, qualcosa nascosero anche alle Fontane” (pag. 79). Corrado, aperte le scuole, si reca giornalmente a Torino ed assiste ai primi scontri al momento solo verbali tra fascisti e antifascisti decisi a resistere anche con le armi. Non sa cosa fare. Lascia che gli eventi facciano il loro corso: “Alzai le spalle anche stavolta. Le alzavo sovente in quei giorni. Il finimondo sempre atteso era arrivato. Era chiaro che Torino tranquilla in distanza, la solitudine dei boschi, il frutteto, non avevano più senso. Eppure tutto continuava. Sorgeva il mattino, calava la sera, maturava la frutta. M’aveva preso una speranza, una curiosità affannosa: sopravvivere al crollo, fare in tempo a conoscere il mondo di dopo. Le strade e le campagne formicolavano di fuggiaschi, di soldati infagottati in impermeabili, stracci, giacchette, scampati dalle città e dalle caserme dove tedeschi e neo fascisti infuriavano. Torino era stata occupata senza lotta, come l’acqua sommerge un villaggio; tedeschi ossuti e verdi come ramarri presidiavano la stazione, le caserme; la gente andava e veniva stupita che nulla accadesse, nulla mutasse; non tumulti, non sangue per le vie, solamente, incessante, sommessa, la fiumana di scampati, di truppa, che colava per i vicoli, nelle chiese, alle barriere, sui treni” (pag.79). Ritornato alla casa in collina, gira per le strade per informarsi. Si reca all’osteria del Pino e qui in mezzo a tanta gente: sbandati, fuggiaschi, sfollati, ascolta le storie del soldato toscano che è rientrato a piedi dalla Francia. Ascolta storie di rappresaglie, vendette, case e villaggi incendiati. Dino non ha nessuna voglia di seguire le sue lezioni. E’ sempre in strada, sempre attento a ciò che i grandi dicono, raccoglie notizie e le riferisce a Corrado. La guerra sta trasformando anche il ragazzo: “Dino era anche lui parte del mondo stravolto; Dino era chiuso, inafferrabile. Mi ero accorto che stava più volentieri con Fonso e con Nando che con me” (pag. 81). In mezzo a tanti sconvolgimenti, Corrado rimane sempre distaccato. Eppure la sua analisi della situazione è lucida: “I Tedeschi hanno soltanto sfasciato la baracca, tolto il credito ai padroni di prima. Questa guerra è più grossa di quello che sembra. Adesso è andata che la gente ha veduto scappare quelli che prima comandavano, e non la tiene più nessuno. E’ adesso che comincia la guerra, quella vera, dei disperati” (pag. 82, 83). Cate lo rimprovera perché lui non sta facendo nulla, eppure sa tante cose: “Cate mi guardava, seria, – Sai tante cose, Corrado, – disse piano, – e non fai niente per aiutarci”. Quello che era successo in tante altre parti d’Europa anni prima, ora accadeva anche in Italia. A scuola, la campana suona l’inizio e la fine delle lezioni, ma è un suono completamente diverso da quello solito. Castelli, il professore di Francese, stanco e sfiduciato, medita di ritirarsi dall’insegnamento anche per non essere complice con il nuovo governo fascista spalleggiato e sostenuto dai tedeschi. Corrado lo incoraggia dicendogli che in questo modo anche i tranvieri, i giudici, i postini avrebbero dovuto lasciare il lavoro. Corrado scopre da Castelli stesso che aveva parlato di questo con Lucini, il professore di Educazione Fisica, ex fascista e capomanipolo, una figura losca di cui nessuno a scuola si fida, nemmeno il preside che convoca Corrado e gli espone le sue angosce. I nuovo padroni controllano tutto e tutti. C’è aria di perquisizione. Castelli presenta la sua domanda e lascia l’insegnamento. Il risultato è la prigione. Nessuno a scuola si sente al sicuro. Intanto alle Fontane, Nando propone di agganciare la lotta amata contro i tedeschi: “Ogni tedesco che agganciamo, – disse Nando, – è uno di meno che combatte a Cassino” (pag. 95). Corrado tentenna. Vive alla giornata, aspettando gli eventi. Continua la spola tra Torino e la casa in collina. Si sente braccato e colpevole, ma “Pensavo alle voci, alle storie, di gente rifugiata nei conventi, nelle torri, nelle sacrestie. Che cosa doveva essere la vita tra quelle fredde pareti, dietro a vetrate colorate, tra i banchi di legno? Un ritorno all’infanzia, all’odore di incenso, alle preghiere e all’innocenza, prima, passando davanti a una chiesa, non pensavo che a zitelle e a vecchi calvi inginocchiati, a fastidiosi borbottii. Che tutto questo non contasse, che una chiesa, un convento fossero invece un rifugio dove si ascolta con le palme sul viso calmarsi il battito del cuore?” (pag. 97). Un giorno si decide ad entrare in chiesa: “Mi soffermai presso la porta, poggiato alla fredda parete. C’era in fondo, sotto l’altare, un lumicino rosso, nei banchi, nessuno” (pag. 98).  Si chiede se Dino andasse in chiesa e lo chiede a Cate. Tra Corrado e Cate, mentre ritornano ambedue da Torino, c’è spazio anche per alcune riflessioni in fatto di religione: “Siamo tutti malati, le dissi, che vorremmo guarire. E’ un male dentro, basterebbe essere convinti che non c’è e saremmo sani. Uno che prega, quando prega è come sano” (pag. 99). Cate gli risponde che non conta quel che si dice ma quello che si fa, come dice più volte Fonso. Cate non ha il tempo per insegnare certe cose a Dino. Lascia che sia la nonna a farlo. Questa lo manda a messa. “E religione anche non credere in niente”, risponde Corrado che poi aggiunge anche: “Il modo migliore di fare un cristiano è insegnargli a non crederci, e viceversa” (pag. 99). Alle “Fontane”, intanto, Corrado apprende che i tedeschi hanno arrestato Giulia nella sua casa di Torino e tutti temono per la sua sorte e per quella di tutti. Giulia sa delle armi nascoste. Se fosse costretta a parlare sotto tortura? Ma è troppo forte Giulia, non la ritengono capace di questo, anzi temono, conoscendo il suo odio profondo per tedeschi e fascisti, che si possa ribellare apertamente, facendo sciocchezze. Di ritorno da Torino, mentre si trova a passeggiare sul sentiero che conduce all’osteria del Pino, Corrado vede da lontano che davanti alle “Fontane” stazionano più macchine militari. Sì, i tedeschi e i fascisti sono arrivati anche lì. Deportano tutti. Solo Dino è riuscito a nascondersi e a fuggire all’arresto, anche se aveva fatto del tutto per salire sul camion dove era la mamma che lo aveva invitato caldamente a nascondersi e a salvarsi. Corrado apprende tutto da Dino che trafelato lo raggiunge assieme al cane Belbo: “Incontrai Dino a mezzacosta. S’arrampicava con le mani in tasca. Si fermò, rosso in faccia e ansimando. Non mi pareva spaventato. – I tedeschi, – mi disse, – Sono venuti stamattina in automobile. Hanno dato dei pugni a Nando. Volevano ucciderlo… – la mamma dov’è? Anche Cate era presa. Anche il vecchio Gregorio. Tutti” (pag.104). In sua assenza, i tedeschi erano andati anche alla villa di Elvira. Questa aveva dato loro l’indirizzo della scuola. Ma sarebbero ritornati. “Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo anche a questo se sono ancora libero, se sono quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché dovevo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? Perché ero entrato quella volta in chiesa? L’esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che essere vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte. Dopo aver ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato” (pag. 105).

Elvira raggiunge Corrado assieme a Dino al colle del Pino e gli suggerisce di nascondersi a Chieri, nel collegio dei preti; ha con sé la lettera di presentazione del parroco, lettera che Corrado presenterà a padre Felice, il rettore del collegio. Dino lo avrebbe raggiunto poco dopo. Nel collegio ci sono molti soldati, ufficiali, giovanotti del Sud che sotto mentite spoglie fanno da insegnanti e precettori agli allievi nelle ore di studio. Corrado nel chiuso del collegio, completamente isolato dal mondo, ha tempo per interrogarsi sulla fede e sulla religione: “Entrai qualche volta da solo in cappella, nel freddo buio mi raccolsi e cercai di pregare; l’odore antico dell’incenso e della pietra mi ricordò che non la vita importa a Dio ma la morte. Per commuovere Dio, per averlo con sé- ragionavo come fossi credente- bisogna aver già rinunciato, bisogna essere pronti a spargere sangue. Pensavo a qui martiri di cui si studia al catechismo. La loro pace era una pace oltre la tomba, tutti avevano sparso del sangue. Com’io non volevo. Volevo essere buono per essere salvo. Lo capii così bene che un giorno mollai. Naturalmente non fu in chiesa, ero in cortile con i ragazzi. I ragazzi vociavano e giocavano al calcio. Nel cielo chiaro- quel mattino aveva smesso di piovere- vidi nuvole rosee, ventose. Il freddo, il baccano, la repentina libertà del cielo mi gonfiarono il cuore e capii che bastava un soprassalto di energia, un bel ricordo, per ritrovare la speranza” (pag.108). In collegio, Corrado fa amicizia con padre Felice al quale chiede qualcosa attorno al breviario che il religioso legge, camminando per i lunghi corridoi. Corrado non si sente al sicuro: “L’ora più crudele era l’alba, quando attendevo la campana del risveglio nel lettuccio in soffitta… Era l’ora in cui si fanno le irruzioni, in cui si sorprendono nei nascondigli i fuggiaschi” (pag. 108). Teme di dire qualcosa di compromettente parlando con qualcuno del personale in divisa di avanguardista volontario. Ma tutto sembra andare per il verso giusto perché, accompagnato dal parroco e da Elvira, anche Dino giunge in collegio. Corrado e Dino vivono sotto lo stesso tetto ma è come se non si conoscano. Corrado istruisce il ragazzo a parlare poco e a non rivelare nulla, ma quest’ultimo un giorno non si tiene più quando inveisce contro un alunno che si era messo a difendere la Repubblica Sociale, chiedendogli con gli occhi fuori dalle orbite dove fosse il Socialismo in una simile costruzione politica. L’intervento di padre Felice ristabilisce l’ordine. Intanto un ragazzo del collegio, che era stato avanguardista, minaccia di denunciare e di rivelare alle autorità tutti i nomi dei renitenti nascosti. Corrado, consapevole che non può trattenersi oltre, su suggerimento dello stesso padre Felice, decide di allontanarsi dal collegio per ritornare nella casa in collina, da Elvira, dopo aver catechizzato Dino di starsene buono. Elvira, giunta in collegio per portare delle mele al ragazzo, scopre che Dino è scappato, la donna inveisce contro i preti e il portiere che non avevano controllato un bel niente. Corrado ritorna in collegio e scopre che la minaccia del ragazzo avanguardista era priva di fondamento. Si stabilisce di nuovo in collegio, indicando ad Elvira dove trovare Dino, forse a Torino, in un luogo che lui sapeva, dove si riunivano i partigiani. L’anno scolastico volge al termine. Con l’arrivo dell’estate, il collegio si svuota.  Qualche istitutore, a seguito dell’avanzata alleata, rotto il fronte a Cassino, era partito per il Sud. Il protagonista non fa che a pensare a Dino: “Dino era un grumo di ricordi che accettavo, che volevo, lui solo poteva salvarmi, e non gli ero bastato. Non ero nemmeno sicuro che, incontrandomi, mi avrebbe fatto caso. Se fossi sparito coi suoi, non mi avrebbe degnato di un ricordo di più. Veramente la guerra non doveva finire se non dopo aver distrutto ogni ricordo e ogni speranza. Questo già allora lo capivo” (pag. 119).

All’arrivo dei Tedeschi che si stabiliscono in forza al collegio, Corrado decide di fuggire verso il proprio paese, le Langhe, dirigendosi prima a Villanova dove passa la strada ferrata. Il viaggio in treno dura poco. Il ponte sul Tanaro è distrutto. Si incammina a piedi e raggiunge un portico con stallaggio. Mangia un po’ di minestra intanto si informa come sia la situazione nelle Langhe: “Sulla Langa c’era battaglia continua. Secondo i paesi. C’erano zone tutte in mano ai nostri. Finché durava, si capisce. Vero pericolo non c’era per le strade, ma sui ponti e nei paesi. Rividi il mio ponte di ferro, dove da bimbo facevo rimbombare i passi. Nominai un paese vicino, dove s’andava per quel ponte. – Laggiù c’è la repubblica, – dissero” (pag. 123). Un carrettiere lo fa salire sul carro e lo porta in località Molini. Rimessosi in viaggio da solo, si ferma in un fienile per passare la notte. Intanto incontra Otino, un contadino del luogo, che gli indica la strada per superare il Tinella, in seguito, gli consiglia di buttarsi nei salici e nascondersi. Alcune contadine, vedendolo, gli correggono il percorso, deve ridiscendere a valle e salire poi verso altre colline. “Scrutavo attento i lineamenti delle creste, gli anfratti, le piante, le distese scoperte. I colori, le forme, il sentore stesso dell’afa, mi erano noti e familiari; in quei luoghi non ero mai stato, eppure camminavo in una nube di ricordi. Prima di notte, mi dicevo, sono al Belbo (il fiume che bagna Santo Stefano Belbo). Una casetta sulla strada, annerita, sfondata, mi fermò e fece battere il cuore. Pareva un muso sinistrato di città. Non vidi anima viva. Ma la rovina non era recente: sulla parete, dove prima era una vite, spiccava appena la macchia azzurra del verderame. Quanto sangue, mi chiesi, ha già bagnato queste terre, queste vigne. Pensai che era sangue come il mio, ch’erano uomini e ragazzi cresciuti a quell’aria, a quel sole, dal dialetto e dagli occhi caparbi come i miei. Avrei voluto trovar tutto come prima. Era per questo, non soltanto per vana prudenza, che da due giorni non osavo nominare il mio paese; tremavo che qualcuno mi dicesse: E’ bruciato. C’è passata la guerra” (pag.127, 128). A un posto di blocco alcuni partigiani lo fermano. Sospettano che sia una spia. L’intervento di Giorgi, l’ex soldato aviere, ora tra i partigiani, fratello di Egle, interviene e Corrado riprende il cammino verso casa. Lungo la strada vede accorrere una donna disperata. Corrado fa pochi passi lungo la strada e vede i segni della battaglia tra fascisti e partigiani: “Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le ruote, davanti alla macchina, erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e un prete, s’aggirava là intorno. Vidi sangue sui corpi. Uno – divisa grigioverde tigrata- era piombato sulla faccia, ma i piedi li aveva ancora sul camion. Gli usciva il sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo, imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Chiesi al prete se i morti erano tutti quelli del furgone. Il prete energico, sudato, mi guardò stravolto e mi disse non solo ma nelle case più avanti era pieno di feriti.. – Chi aveva attaccato? Partigiani di lassù, mi disse che li aspettavano da giorni. – Loro ne avevano impiccati quattro, – strillò una vecchia che piangeva e agitava un rosario. – E questo è il frutto, – disse il prete. – Adesso avremo rappresaglie da selvaggi. Di qui all’alta valle del Belbo sarà un falò solo” (pag. 134). Corrado avanza verso la valle e trova distruzioni e morte. “Una colonna di tedeschi e fascisti s’era buttata sul versante e bruciava, sparava, rubava”. Camminando ancora per sentieri e boschi, a sera arriva a casa dai suoi, di là dai boschi e dal Belbo. Tirando le conclusioni, Corrado annota: “Niente è accaduto. Sono a casa da sei mesi, e la guerra continua. Qui sulle strade e nelle vigne la fanghiglia di novembre (1944) comincia a bloccare le bande; quest’inverno, lo dicono tutti, nessuno avrà voglia di combattere, sarà già duro essere al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Malgrado i tempi, qui nelle cascine si è spannocchiato e vendemmiato. Dei compaesani soltanto i vecchi e i maturi mi conoscono, ma per me la collina resta tuttora un paese d’infanzia, di falò e di scappate e di giochi. Se gli incontri e i casi di quest’anno mi ossessionano, mi avviene a volte di chiedermi: “Che c’è di comune tra me e quest’uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore? Non è che non provi una stretta se penso a chi è scomparso, se penso agli incubi che corrono le strade come cagne (…), ma accade che l’io, quell’io che mi vede rovistare con cautela i visi e le smanie di questi ultimi tempi, si sente un altro, si sente staccato, come se tutto ciò che ha fatto, detto e subito, gli fosse soltanto accaduto davanti- faccenda altrui, storia trascorsa” (pag. 139, 140). Il protagonista ripensa al suo recente passato: “Non so se Cate, Fonso, Dino e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi- che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” (pag. 140, 141). Corrado s’interroga sul senso di tutti quei morti e risponde che non saprebbe trovarlo. Solo gli stessi morti, solo loro, gli unici forse a sapere perché tutto sia stato quel che è stato, e gli unici per i quali tutto è veramente finito. Per i vivi la realtà continua a essere una falce spietata, un frammento d’oscurità che nasconde la bellezza della luna, un freddo glaciale che corrode le energie e le speranze, un luogo desolato da cui fuggire.

 

Raimondo Giustozzi

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