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gliannisessanta. La condizione giovanile.

Eskimo

Il sociologo italiano Camillo Pelizzi, in un articolo pubblicato il 2 febbraio 1959 su “Il Messaggero”, così scriveva dei giovani circa il modo di vivere la propria condizione giovanile: “In generale è una gioventù che desta poche preoccupazioni, che ispira scarso interesse e che dà l’impressione di non riserbare grandi sorprese”(Cfr. Il Messaggero 2 febbraio 1959). I giovani, smentendo quanto detto dal Pelizzi, cominceranno di lì a poco a far sentire la loro voce e saranno i protagonisti delle manifestazioni di piazza, dei durissimi scontri con la polizia e porteranno, nel luglio del ’60, in Italia, alla cacciata del governo Tambroni, appoggiato dal M.S.I. (Movimento Sociale Italiano), il rinato partito nazionale fascista.

JAMES DEAN GENERATION

Agli inizi degli anni sessanta, se è vero che molti ragazzi e molte ragazze della “James Dean Generation” degli anni cinquanta, erano rientrati nei ranghi, è altrettanto vero che essi furono sostituiti da altri. Il numero dei giovani e dei giovanissimi protestatari che si sentivano oppressi dall’ambiente familiare, giudicavano inadeguata l’istruzione scolastica, non si riconoscevano nella cultura ufficiale, e che avvertivano più o meno consciamente una specie di rimorso per le sperequazioni e le ingiustizie sociali, erano in aumento. Quello cui si assiste, non è solo un semplice conflitto generazionale, un contrasto tra padri e figli. Affermare che i giovani non si riconoscono nei genitori perché non hanno da loro quella comprensione cui aspirerebbero, vuol dire non saper cogliere a fondo il significato del problema. La “Young Generation” non vuole comprensione, desidera essere libera, poter capire ciò che accade attorno a sé e non dover subire il condizionamento politico, morale e ideologico di altri che decidono in vece sua. In questo senso si veniva a creare una profonda spaccatura con la “Old Generation”, accusata di viltà, compromessi e ipocrisia. Le tante inchieste sui giovani americani di quegli anni mettevano in luce che alla base della loro protesta vi era un senso di diffidenza verso le persone anziane, come se temessero continuamente di essere ingannati. Uno degli slogan di maggiore successo diceva: “Attenzione! Coloro che hanno superato i trent’anni sono vostri nemici”. Gli abiti bizzarri, le tuniche a fiori, le giubbe ricamate, i giacconi di pelle di pecora, i pastrani lunghi fino ai piedi, i vestiti di foggia ottocentesca, le mine gonne audacissime, servono come mezzo di riconoscimento. Segnano la linea di demarcazione tra coloro che anche nel modo di vestire hanno accettato l’anonimità e coloro che rifiutano programmaticamente il conformismo. Nei ragazzi e nelle loro compagne che s’incontrano nei campus universitari, vi è su per giù lo stesso atteggiamento: essere se stessi e vivere intensamente, in modo febbrile, al di fuori del falso perbenismo; quasi che quello sia l’unico modo per sfuggire alla morsa della società che li circonda.

LA BEAT GENERATION

Beat Generation! Il termine ha un’origine jazzistica e beat sta ad indicare sostanzialmente il rifiuto aggressivo e non compromissorio della realtà corrente, della morale comune e codificata, delle regole di vita ufficiale e quindi ipocrite. Il “beatnik” rinnega i valori ufficiali, si “disaffilia” dalla società che lo circonda, la contesta, la irride, e per converso ricerca un rapporto umano autentico, ispirato alla natura, a dispetto del culto del benessere, del progresso tecnologico, dell’esaltazione nazionalistica, della politica di potenza, in una parola, si direbbe oggi con un termine largamente diffuso, del sistema. La “Young Generation” parla di dignità della persona, di amore indiscriminato, di consapevolezza delle scelte, d’individualità creativa: un linguaggio cui molti si sono disabituati. Si capisce quindi che, per chi è vissuto fino a ieri, giurando sulla validità delle proprie convinzioni ed è assolutamente certo della bontà politica ed economica del sistema, non riesce a rendersi conto delle ragioni del dissenso.

LA PROTESTA GIOVANILE

Nei ragazzi e nelle ragazze che si incontravano nella Haight Asbury di San Francesco, nei campus universitari, pessimismo e speranza si alternavano in una sorta di balletto scandito dal suono delle chitarre, dai ritmi del blues e delle melodie orientali. Più che dai libri, è dalle parole delle canzoni del folk singers che imparavano i fondamenti di una filosofia istintiva che parlava di amore, di pace, di amicizia, di armonia e di Dio. Un Dio che era presente cme aspirazione verso l’Assoluto, ma anche come possibilità di realizzare un mondo migliore, diverso da quello in cui erano costretti a vivere. Dicevano i versi di Joan Baez, la cantante che con Bob Dylan ha condiviso le maggiori simpatie dei giovani americani ed i cui dischi sono stati venduti a milioni di copie: “Gesù d’oro e d’argento / senza stivali, senza elmetto e senz’armi / senza la borsa dei documenti / che coraggio, Gesù d’oro e d’argento / nelle stanze piene di gente / con gli occhi giovani vecchi di mille anni / guardare intorno e sapere / che non c’è amore nel mondo”. Com’è per i ritmi dei blues, anche le canzoni di protesta sono un mezzo di espressione, un veicolo di comunicazione diretta e immediata. Isolati dal resto della comunità adulta, i versi delle canzoni sono una specie di cifrario comprensibile solo ai giovani. Essi si riconoscono e s’identificano nella simpatia che provano per i medesimi complessi e i medesimi cantanti. In quelle ballate colgono accenti che esprimono i propri sentimenti, le proprie ansie e i propri desideri più profondi.

Quante strade deve percorrere un uomo
prima che tu possa chiamarlo uomo?
E quanti mari deve navigare una bianca colomba
prima di dormire sulla sabbia?
E quante volte devono volare le palle di cannone
prima di essere proibite per sempre?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
E quanti anni può esistere una montagna
prima di essere erosa dal mare?
E quanti anni possono gli uomini esistere
prima di essere lasciati liberi?
E quante volte può un uomo volgere lo sguardo
e fingere di non vedere?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.
E quante volte deve un uomo guardare in alto
prima di poter vedere il cielo?
E quanti orecchi deve avere un uomo
prima di poter sentire gli altri che piangono?
E quante morti ci vorranno prima che lui sappia
che troppi sono morti?
La risposta, amico mio, soffia nel vento,
la risposta soffia nel vento.

Bob Dylan

LA MUSICA

L’altro argine di difesa dall’invadenza della società dei consumi e canale di socializzazione è la musica. Musica vuol dire stare insieme, irridere i benpensanti, contestare l’ordine, il decoro, la rispettabilità, l’efficienza. I Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, Joan Baez sono il simbolo di questa cultura giovanile. I “Favolosi Beatles” a Milano, il 24 giugno 1965, una data storica per la musica leggera italiana. I quattro ragazzi di Liverpool: John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Star erano esplosi improvvisamente nel 1962. Paul, Gorge, John e Ringo arrivarono da Lione a Milano la sera del 23 in treno: sbarcarono dal Trans Europa Express, il T.E.E. come si diceva allora familiarmente, alla Stazione Centrale. Oltre tremila fan erano in attesa pronti a replicare le scene d’isteria che accompagnavano ogni loro apparizione. Per evitare problemi il treno venne fatto arrivare però su un binario diverso da quello ufficialmente previsto, dove soltanto pochissimi riuscirono ad arrivare per vederli scendere. I Beatles vennero prelevati da quattro spider Alfa Romeo rosse e portati all’hotel Duomo. Suonarono il 24 giugno al Vigorelli, il 26 al Palasport di Genova, il 27 e 28 al teatro Adriano di Roma. Il tour, organizzato da Leo Wachter, “inventore» tra l’altro del Ciak, che ha segnato una svolta nel teatro milanese, arrivava nel momento magico dei Beatles. L’anno prima erano stati consacrati idoli mondiali dal loro viaggio negli Usa e nel ’65 “Help” segnava il culmine della loro affermazione. La loro non fu solo una “rivoluzione musicale”; con le loro canzoni lanciarono un nuovo modo di vestirsi, di pettinarsi, di muoversi, di vivere. Diventarono il leitmotiv e il simbolo degli anni sessanta. Non c’era gruppo musicale italiano, anche in provincia, che non si rifacesse a loro nel modo di muoversi sul palco, di suonare e di cantare.

I ROLLING STONES

E’ il gruppo musicale britannico giunto fino a noi, diversamente dai Beatles che hanno avuto vita breve. E’ composto da  Mick Jagger (voce, armonica), Keith Richards (chitarra, cori), Ronnie Wood (chitarre, cori) e Charlie Watts (batteria, percussioni).  È una delle band più importanti e tra le maggiori espressioni della miscela tra i generi della musica rock e blues, quel genere musicale che è l’evoluzione del rock & roll anni cinquanta, da loro rivisitato in chiave più dura con ritmi lascivi, canto aggressivo, continui riferimenti al sesso e, talvolta, alle droghe pesanti. Per il loro essere trasgressivi furono chiamati i “brutti, sporchi e cattivi” e contrapposti ai più rassicuranti Beatles, anche se tale contrapposizione fu spesso creata dagli stessi Rolling Stones che si comportavano in modo volutamente antitetico rispetto ai Beatles (con i quali ebbero peraltro sempre un ottimo rapporto di stima ed amicizia), proponendo così un modello alternativo a uso e consumo della stampa musicale. I Rolling Stones sono stati, e sono tuttora, un’autentica pietra miliare nell’evoluzione della musica pop del novecento, portando sotto i riflettori il malcontento e di conseguenza la protesta di intere generazioni, incarnando così il travagliato spirito dei grandi bluesman del passato e scegliendo il titolo di una canzone di uno di questi (Muddy Waters) come nome del loro gruppo. La rivalità fra Beatles e Rolling Stones è una leggenda metropolitana, un’invenzione dei media. I due gruppi non solo si stimavano, ma in qualche modo collaboravano affinché le reciproche uscite discografiche non andassero a sovrapporsi. Bastava un colpo di telefono e il gioco era fatto: questo mese usciamo noi, il prossimo è tutto vostro. E bacio in bocca a sugellare l’accordo.

IL “FOLK REVIVAL”

Gli storici della musica americana l’hanno da tempo archiviato con il nome di “Folk Revival”. Fu l’esplosione e la diffusione rapida della musica tradizionale che investì il mondo musicale al principio degli anni sessanta. Joan Baez fu solo la punta di un iceberg di ben più vaste dimensioni. Di Folk Musica, al di fuori dei circoli specializzati, si era parlato molto poco negli Stati Uniti nel corso degli anni cinquanta. Ballate politiche, canti di lavoro, canzoni del repertorio popolare nei suoi vari generi, erano rimaste appannaggio di misconosciuti artisti che il difficile clima politico di quel decennio aveva ulteriormente ostacolato. Il grande Woody Guthrie, leggenda vivente di quella musica, dominava ancora la scena nel suo ritiro del New Jersey. Bob Dylan, Joan Baez sono il simbolo di questa musica americana che aveva in Woody Guthrie l’interprete di punta. Memorabile le ballate di quest’ultimo che andarono a costruire la colonna sonora del film “Questa terra è la mia terra”, del 1976, diretto a Hal Ashby.

IL MITO DI ELVIS PRESLEY

Molti miti contribuirono ad accendere di entusiasmo i giovani americani e non solo, tra tanti, quello di Elvis Presley, il cantante venuto dal profondo Sud degli Stati Uniti, che divenne ben presto l’idolo delle nuove generazioni. La musica, dagli spazi angusti delle festicciole del sabato pomeriggio, si trasferisce negli stadi, nelle piazze, nei giardini e diventa mezzo per stare insieme, stare vicini, lottare e incontrarsi.

 

I PARADISI ARTIFICIALI

Uno dei fenomeni che sconvolse ben presto la condizione giovanile fu l’uso di sostanze psichedeliche. Non mancavano anche teorie a difesa della droga. Per Timothy Leary l’uso delle droghe psichedeliche porta ad un rapporto più umano e soddisfacente con l’universo e con gli altri, favorisce una più intima unità con il prossimo e con la natura. La droga è insomma uno dei mezzi per liberare la mente dalle tenebre, per costruirsi un argine di difesa dall’invadente consumismo. Mai altra dottrina ha portato tanti gravi sconvolgimenti nel tessuto sociale. Solitudine, senso d’impotenza nel risolvere il proprio fondamentale bisogno di felicità, morte e distruzione sono alla base di ogni storia di ragazzo drogato. Si mutano modi di pensare e tradizionali modelli di comportamento; si modifica il modo di concepire la famiglia, la sessualità e l’amore. Si cominciano a mettere in discussione valori portanti della vecchia cultura quali la verginità, l’indissolubilità del matrimonio. Si formano la Prime Comuni, più coppie che si mettono insieme, pensando di uscire in questo modo dall’isolamento e di liberarsi dalla noia del legame coniugale. I Giovani cominciano a sentirsi un gruppo sociale omogeneo, con caratteristiche unificanti comuni, una classe che li fa sentire diversi dal resto della società, dai “matusa”, da quello che è definito genericamente il mondo degli adulti. Questa diversità, soprattutto negli USA, si esprime inizialmente nella forma della banda, del piccolo gruppo che proclama la sua completa estraneità alle regole e ai comportamenti della morale corrente. Poi assume un rilievo relativamente di massa con i movimenti beat, provos (provocatori) olandese, che in Italia si configurano in linea generale come fenomeni di élite e di minoranze urbane. Il loro protagonista è il teenager (adolescente). Le doti più tipiche della nuova figura giovanile sono l’ironia, la dissacrazione, il dileggio dell’autoritarismo, e del conformismo dominanti. Per il teenager, i capelli lunghi, la sporcizia, l’abbigliamento, la musica pop, le fughe da casa, la filosofia orientale, la droga, l’ispirazione ecologica, l’alimentazione alternativa, sono tutti modi di opporsi alle ipocrisie e alla tartuferia dei padri, alla repressione sessuale, familiare e scolastica.

 

MODE GIOVANILI

Nel corso degli anni sessanta s’infrangono vecchi tabù, non ultimo si arriva a contestare persino il ruolo della ragione. “Dissociarsi, accendersi, sintonizzarsi” divengono le parole slogan di un’intera generazione di giovani americani ed europei. La scolarizzazione di massa, anche se ai suoi inizi, porta ben presto migliaia di giovani a procrastinare nel tempo l’ingresso nell’età adulta. Invece che sposarsi, avere dei figli, svolgere un lavoro, si ritrovano invece a non avere responsabilità pratiche, a dipendere economicamente dalla famiglia e professionalmente dalle autorità scolastiche e universitarie. Negli anni novanta si conierà il termine “Adolescenti giovani adulti”. Si va creando così, nelle società più industrializzate, un nuovo stadio di vita, che prima non esisteva poiché si passava direttamente dalla fanciullezza all’età adulta, in quanto i ragazzi, fin da giovanissimi erano avviati al lavoro dei campi ed alla pastorizia. Nel nuovo stadio della vita, modelli e regole vengono dai coetanei, non più dagli adulti. I giovani diventano in questo modo, un problema; con la scolarizzazione di massa si dilata notevolmente la fase adolescenziale. La nuova generazione fa della militanza, dell’impegno sociale e politico la sua scelta di vita e che informa a questa fede tutti i momenti dell’esistenza: perfino i gusti, i comportamenti, l’uso del tempo libero, i modi di vestire, dai jeans all’immancabile eskimo. L’eskimo è un giaccone con cappuccio bordato di pelo, di fattura semplice, che porta il nome degli abitanti del circolo polare artico. Un modello di eskimo, con interno in fodera di pelo sintetico (staccabile, in modo da adattarsi anche a periodi climatici meno rigidi), divenne famoso grazie alle rivolte studentesche del 1968, in cui veniva usato come simbolo di proletariato, poiché di prezzo accessibile alla fasce meno abbienti. Inizialmente in vendita in negozi di articoli ex militari e simili, ben presto trovò spazio nelle botteghe specializzate nelle vendite di jeans, bancarelle di mercato e grandi magazzini, fino a diventare un indumento di largo uso. Negli anni a venire, l’eskimo diventò un segno di riconoscimento della controcultura in cui si riconoscevano i militanti e i simpatizzanti della sinistra, assieme alla kefiah palestinese annodata al collo, introdotta successivamente nell’uso. L’eskimo era un giaccone impermeabile in cotone di semplice fattura, lungo fino alle ginocchia o mezza coscia, dotato di cappuccio e larghe tasche, chiuso con chiusura a lampo; ai polsi una maglia elastica ne garantiva la tenuta termica. La sua colorazione più comune era verde militare, ma erano presenti anche varianti blu scuro e beige. Tale indumento divenne una icona così caratteristica e simbolica di una classe sociale e dell’ideologia politica degli anni settanta, che Francesco Guccini gli ha intitolato la sua canzone Eskimo

 

Raimondo Giustozzi

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