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Letteratura. Il sergente nella neve, Mario Rigoni Stern

Mario_Rigoni_Stern

Introduzione

Il romanzo è il racconto autobiografico scritto da Mario Rigoni Stern nel 1953. Si tratta della sua esperienza personale vissuta durante la ritirata in Russia nel gennaio del 1943. All’epoca, l’autore era sergente maggiore dei reparti mitraglieri che, chiusi in una sacca nei pressi di un villaggio sulle rive del Don, cercano disperatamente di aprirsi un varco, per sfuggire all’accerchiamento dell’Armata Sovietica. Per l’Armata Italiana in Russia (ARMIR) fu l’inizio della fine. Suggerisco la lettura del romanzo a tutti quelli che hanno visto in Mussolini, anche in tempi recenti, la persona innocua che mandava oppositori e fiancheggiatori in vacanza per aggredire l’Albania, la Francia, la Grecia, la Jugoslavia, la Russia. E’ molto grave dimenticare il passato che può sempre ritornare, soprattutto quando domina il pensiero unico: soldi, donne, passerelle e prepotenza.

Biografia di Mario Rigoni Stern

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1 novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) è stato uno scrittore italiano, autore del romanzo in oggetto “Il sergente nella neve” (1953) ma anche di altri libri famosi: Storia di Tönle (1978), Le stagioni di Giacomo (1995), Il bosco degli urogalli (1962), Ritorno sul Don (1973), L’anno della vittoria (1985), Sentieri sotto la neve (1998), Arboreto selvatico (1991), Uomini boschi e api (1980), Quota Albania (1971), I racconti di guerra (2006), Amore di confine (1986), Il libro degli animali (1990), Stagioni (2006), Inverni lontani (1999), L’ultima partita a carte (2002), Racconti di caccia, Tra due guerre e altre storie (2000), Aspettando l’alba e altri racconti (2004), Trilogia dell’Altipiano, Il coraggio di dire no (conversazioni e interviste 1963 – 2007), Le vite dell’Altipiano, L’altipiano delle meraviglie (2004), Quel Natale nella steppa (2006), Compagno Orsetto (1992), L’Altipiano un posto per gli uomini (2005), Storia di Mario: Mario Rigoni Stern e il suo mondo (2008). Primo Levi definì Mario Rigoni Stern uno dei più grandi scrittori italiani. Durante la seconda guerra mondiale Mario Rigoni Stern fu inquadrato con il grado di sergente nel 4° Corpo d’Armata Alpino, divisione alpina “Tridentina”. Partecipò alla campagna di Francia, dei Balcani e di Russia. Per tutte le notizie relative alla sua biografia, si consiglia di visitare il sito http://www.iluoghidirigonistern.it/biografia/.

Trama del romanzo

Il caposaldo

Il libro è diviso in due parti, il caposaldo e la sacca. Nella prima, l’autore descrive l’odissea dei propri soldati che avanzano nella neve. Hanno ai piedi degli stracci tenuti insieme da fili di ferro, la testa avvolta in una coperta. Una frase, recitata quasi come in un intercalare è quella dell’alpino Giuanin: “Sergentmagiù ghe rivarem a baita?”. Sergente maggiore, arriveremo alla baita? Lo chiede anche al tenente Sarpi. “Quando rivarem a baita sciur tenente? – Nel quarantotto. Giuanin, nel quarantotto -. Giuanin strizzava l’occhio, ritirava mesto la testa fra le spalle e si allontanava borbottando. Il tenente rideva, lo chiamava e gli dava una Popolare (sigaretta)” (Mario Rigoni Stern, il sergente nella neve, pag. 28, Einaudi editore, Milano, 2003).

Il caposaldo dei soldati italiani è nei pressi di un villaggio russo: “Il nostro caposaldo era in un villaggio di pescatori in riva al Don nel paese dei cosacchi. Le postazioni e le trincee erano scavate nella scarpata che precipitava sul fiume gelato. Tanto a destra che a sinistra la scarpata declinava sino a diventare un lido coperto di erbe secche e di canneti che spuntavano ispidi tra la neve. Al di là di un lido, a destra, il caposaldo del Morbegno; al di là dell’altro, quello del tenente Cenci. Tra noi e Cenci, in una casa diroccata, la squadra del sergente Garrone con una pesante. Di fronte a noi, a meno d cinquanta metri, sull’altra riva del fiume, il caposaldo dei russi” (pag.15). L’autore continua nella descrizione dei luoghi: “Dove eravamo noi doveva essere stato un bel paese. Ora, invece, delle case rimanevano in piedi soltanto i camini di mattoni. La chiesa era metà; e nell’abside erano il comando di compagnia, un osservatorio e una postazione per la pesante (mitragliatrice). Scavando i camminamenti negli orti delle case che non c’erano più, uscivano fuori dalla terra e dalla neve patate, cavoli, carote, zucche. Qualche volta era roba buona e si faceva la minestra” (pag. 16).

In questo microcosmo, infestato da topi cacciati da “gatti grossi e scontrosi che vagavano fra le macerie delle case” (pag. 16) si aggirano come automi i soldati italiani. Chizzarri è l’attendente del tenente Sarpi. “Si stava bene nei nostri bunker. Quando chiamavano al telefono e chiedevano: – Chi parla? – Chizzarri, l’attendente del tenente, rispondeva: – Campanelli! – Era questo il nome di convenienza del nostro caposaldo e quello di un alpino di Brescia che era morto in settembre. Dall’altra parte del filo rispondevano: – Qui Valstagna: parla Beppo -, Valstagna è un paese sul fiume Brenta lontano dal mio dieci minuti di volo d’aquila mentre qui indicava il comando di compagnia. Beppo, il nostro capitano nativo di Valstagna” (pag. 17). Tourn è il piemontese che, in “una notte di luna esce insieme a Mario Rigoni Stern a cercare qualcosa fra le case più discoste”. Stern trova una pentola di ciliegie secche e Tourn due sacchi di segala e due sedie. Stern ricorda nel romanzo uno ad uno tra i compagni d’armi, tra questi il bresciano Lombardi: “Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando lo guardavo in viso, non mi sentivo di fissarlo a lungo e quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore. Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse delle cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole dei mitra sfiorarono l’orlo della trincea. Io allora, abbassai il capo e guardai verso la feritoia. Lombardi, invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muoveva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossire per la vergogna. Una sera, poi, durante l’attacco dei russi, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era morto con una pallottola in fronte mentre, fuori della trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore imbracciato. Ricordai allora com’era sempre stato taciturno e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza. Pareva che la morte fosse già in lui” (pag. 19). Il “Duce”, un alpino, piccolo, sempre attivo, con la barba secca e rada è il porta arma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintossi. Quest’ultimo era forse il migliore di tutti soldati guidati da Stern: “Sembrava piccolo perché era largo di spalle e aveva un po’ di pancia. Sorrideva sempre ed aveva due occhi piccoli e acuti. Trasandato nel vestire, portava il fucile con la disinvoltura e la familiarità del cacciatore. Calmo e flemmatico, non lo vidi mai irritato e non lo sentii mai bestemmiare. Ed era sempre presente, pacifico con il suo inseparabile fucile, nel momento del bisogno” (pag. 36).

Nel libro, Mario Rigoni Sterne si attarda nel fare dei propri soldati quasi una fotografia, tanto li sente vicini nelle fatiche quotidiane, immersi nel freddo, in preda ad una tristezza indicibile, senza sapere se arriveranno a rompere l’accerchiamento. “L’altro caporale della squadra era Gennaro. Chissà di che paese era. Meridionale di certi. Maestro o ragioniere o qualcosa di simile, frequentò un corso ufficiali. Ma non lo avevano fatto idoneo e così faceva il caporale. Parlava poco, era timido con gli alpini, e questi, se qualche volta, lo canzonavano, provavano per lui rispetto ed affetto. Non aveva certamente un cuor di leone ma la sua personalità, senza farsi notare, si comunicava a chiunque gli vivesse vicino” (pag.”36). Nell’impari lotta contro i soldati russi muoiono ufficiali e soldati semplici. Muore il tenente Sarpi: “Vedendo il rancio speciale mi ricordai che era capodanno e che nella notte era morto il tenente Sarpi. Uscii fuori dalla tana. Il sole mi fece vedere tutto bianco, poi andando piano piano per i camminamenti mi portai nella postazione più avanzata sotto i reticolati. Da lì guardai le peste del battaglione russo che aveva attraversato il fiume a cento metri da noi. Tutto era silenzio. Il sole batteva sulla neve, il tenente Sarpi era morto nella notte con una raffica al petto. Ora maturano gli aranci nel suo giardino, ma lui è morto nel camminamento buio. La sua vecchia riceverà una lettera con gli auguri. Stamattina i suoi alpini lo porteranno giù con la barella verso gli imboscati e lo poseranno nel cimitero, lui siciliano, assieme a bresciani e bergamaschi” (pag. 27). Rileggano queste pagine coloro che hanno pensato o pensano di dividere l’Italia in buoni, tutti da una parte, nella Padania, i cattivi, tutti dall’altra parte, dal Po in giù. Ricordino anche che nella liberazione dell’Italia dal Nazi – Fascismo, i partigiani della Brigata Maiella, guidati dal leggendario Ettore Troilo, non si fermarono alla liberazione dell’Abruzzo, loro regione d’origine ma proseguirono fino nel Veneto, tanto da meritarsi applausi a scena aperta da quanti li incontravano lungo le strade venete tappezzate dalle scritte: “Siete duri come le pietre delle vostre montagne”.

Anche Marangoni è morto- continua Stern– un alpino come tanti. Un ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto.: – E’ la morosa, – diceva. E ora anche lui è morto. Una mattina, smontato all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giù nella trincea con un foro nella tempia. Morì poco dopo nella sua tana fra i compagni e non mi sentii il cuore di andare a vederlo. Tante volte si era usciti all’alba, anch’io parecchie volte, e nessuno sparava. Anche i russi non sparavano mai. Perché ci fu quel colpo quella mattina? E perché morì così Marangoni?”(pag. 29). L’arrivo di tre soldati di fanteria meridionali della divisione Vicenza, “uno di loro riusciva a tenerci allegri tutti, con le sue trovate, come quella di suonare tarantelle o la marcia degli alpini, battendo due legnetti contro i denti”, porta allegria tra gli alpini.

Nel caposaldo sul fiume Don, i mitraglieri si difendono dal fuoco dei cecchini russi, da brevi incursioni nemiche e da aspri combattimenti, risolti in genere a colpi di mortaio. Ogni recluta riceve e spedisce periodicamente posta da parenti, mamme, mogli e fidanzate e nel periodo di Natale anche biglietti di auguri, cartoline, stecche di sigarette e bottiglie di cognac. Quando le armi tacciono, i soldati rimangono nei loro giacigli di paglia. Il pane e il rancio erano come sempre gelati. Quando gruppi di soldati russi attaccavano ai due lati il caposaldo nel tentativo di un ulteriore accerchiamento: “Rimanevo poco ora nella tana; ero sempre nelle trincee sulla scarpata del fiume con le bombe e il moschetto. Pensavo a tante cose, rivivevo infinite cose e mi è caro il ricordo di quelle ore. C’era la guerra, proprio la guerra più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente le cose che ricordavo e che erano più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose” (pag. 40). Alcuni soldati russi tentano di prendere d’assalto il caposaldo, dopo essere riusciti ad occupare la scarpata del fiume. Gli alpini li fermano a colpi di mortaio e con la pesante. Poco dopo tutto tace; tra le trincee italiane e russe scende un silenzio di tomba. Sentono un soldato russo che rantolava e chiamava la mamma: “Dalla voce sembrava un ragazzo. Si muoveva un poco sulla neve e piangeva. – proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma. La luna correva fra le nubi; non c’erano più gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mamma! Mamma! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre più lentamente, sulla neve”( pag. 41). Mario Rigoni Stern grida ai suoi di non sparare più in quanto i soldati russi, usciti allo scoperto, andavano a recuperare i propri feriti e le salme dei soldati morti. Ma l’offensiva russa riprende impetuosa. Giunge l’ordine di abbandonare il caposaldo ma in modo ordinato. Ogni squadra deve coprire alle spalle quella che esce per prima. Tutto avviene secondo i piani. I russi, del tutto ignari che gli alpini si stanno ritirando, seguitano ad attaccare il caposaldo. La squadra di Mario Rigoni è l’ultima ad abbandonarlo. Quando arriva l’ordine di lasciarlo, il sergente maggiore rimane di colpo stordito. Prima di abbandonare il fortino, scarica alcuni caricatori di un mitragliatore e lancia delle granate in segno di disperazione: “Ero solo nella trincea e guardavo nella notte buia. Non pensavo a nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella tana di Pintossi a prendere lo zaino. Vi erano delle bombe a mano e le gettai nella stufa. Levai ad altre bombe le due sicurezze e le posai sul fondo della trincea. Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevicare. Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte nera sentivo solo i miei passi nel camminamento buio. Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di natale” (pag. 55).  Termina qui la prima parte del romanzo.

La sacca

La colonna in ritirata si riversa nelle gelide steppe russe, nella speranza di tenere lontana l’Armata Rossa. Durante il tragitto, Rigoni incontra il cugino Adriano. I due si riconoscono nonostante il buio della notte: “Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e un pezzo di formaggio di un paio di chili. – L’ho presa in magazzino questa roba, – disse, – mangia -. Con la baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne u pezzo e restituirgli l’atro. Ma dopo essermi levato i guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il cervello e le guardavo come cose mie e mi venne da piangere per queste povere mani che non volevano più essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l’altra, sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non le ossa; erano come pezzi di corteccia d’un albero, come suole di scarpe, finché me le sentii come se tanti aghi le perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ricordarmi il mio corpo” ( pag. 61). Rigoni, abnegante e altruista, offre spesso il proprio supporto ai compagni durante una camminata nella neve, aiutandoli ad attraversare il tratto senza sprofondare. Giungono quindi in un villaggio, nelle isbe, e riposano cercando di riscaldarsi e di prendere sonno. Ma non c’è tempo per riposarsi. Bisogna marciare sempre verso Ovest per raggiungere altri paesi e altre isbe. Assaltano un villaggio e con l’ausilio dei panzer tedeschi riescono in breve ad occuparlo. Lasciato il villaggio e ripresa la dura sodaglia della steppa, i militari vengono sorpresi da una nuova battaglia, che contrappone (T-34) russi a Tiger tedeschi che con le loro cannonate illuminano il cupo cielo invernale. Sgominati i russi, gli alpini raggiungono un grosso fienile. Questo si apre improvvisamente e dal suo interno escono decine di prigionieri italiani. Erano stati catturati dai russi che ora sono in fuga. Se nella prima parte del romanzo, tranne qualche sporadico combattimento contro i soldati russi, domina quasi la stasi, nella seconda parte è un incalzare di avvenimenti che si susseguono a ritmo vertiginoso. Conquistato un villaggio, c’è da conquistarne un altro per rompere l’accerchiamento. Le munizioni scarseggiano. Le armi non servono più perché sono congelate. Nelle isbe è un pullulare di soldati tedeschi, italiani, ungheresi, rumeni. Il battaglione Vestone, quello di Rigoni cerca in tutti i modi di restare unito. Ci sono ancora Antonelli, Tourn, Cenci e Pendoli oltre all’immancabile sergente maggiore che corre in ogni dove per rincuorare. Mancano le razioni di cibo. Si avanza nella notte tra la neve, cercando subito qualche isba, una volta raggiunto un nuovo villaggio. “Ci sono due pagnotte per ciascuno, dure, gelate, e vecchie; e dalle slitte esce anche una forma di reggiano e anche quello è gelato. Per spaccarlo, il tenente Cenci deve prendere un’accetta e poi l’aiuto io con la baionetta  a fare le razioni per i plotoni” (pag. 76).

In sostituzione del tenente rimasto ferito, è assegnato al plotone di Rigoni un nuovo ufficiale, dal temperamento rigido e intransigente. “Il tenente entra nell’isba più vicina. Sono povere isbe, più povere delle solite, piccole e fredde anche a guardarle. Ma il tenente esce subito impugnando la pistola. Mi grida di correre da lui. Vado ed entro con una bomba in mano. Vi sono due donne e dei bambini e vuole che li leghi. Penso che il tenente sia proprio perdendo la ragione. Le donne e i bambini hanno capito e mi guardano con occhi terrorizzati. Piangendo si rivolgono a me parlando in russo. Che voce avevano le donne e i bambini! Sembrava il dolore di tutta l’umanità e la speranza. E la rivolta contro tutto il male. Prendo per un braccio il tenente ed usciamo. Il tenente, sempre impugnando la pistola, entra in un’altra isba. Lo seguo” (pag. 91). Qui è un’altra scena raccapricciante: “Trovo dei soldati sbandati della divisione Vicenza. Stanno rannicchiati sotto il tavolo, disarmati, semiassiderati e pieni di paura. Su un letto di ferro c’è un vecchio. Il tenente mi grida: – E’ un partigiano, ammazzalo! – Il povero vecchio mi guarda sospirando e tremendo tutto da far ballare il letto. – Legal, se non vuoi ammazzarlo, – mi grida il tenente. Antonelli è entrato nell’isba e ha visto tutto. Il tenente mi indica in un angolo un pezzo di corda. E’ proprio pazzo. Mi chino lentamente a prendere la corda; Antonelli leva le coperte al vecchio e mi avvicino. Il vecchio! Il vecchio è un povero paralitico e getto via la corda e dico al tenente: – Che partigiano, partigiano. E’ un paralitico! – Il tenente esce dall’isba, si vede che ha ancora un briciolo di ragione. Sotto il tavolo vi sono sempre quei poveri diavoli della Vicenza pieni di paura e io li invito a venire con noi. – Non m’affido; non m’affido, – dicono. E rimangono. Esco con Antonelli e lasciamo in pace quella povera gente” (pag. 91). Rigoni, insoddisfatto del nuovo tenente, chiede al capitano che venga trasferito in un altro plotone ma senza successo. La marcia prosegue lunga ed estenuante. La sera, è possibile scorgere all’orizzonte tanti villaggi in fiamme, anche molto distanti l’uno dall’altro, mentre l’aria è attraversata continuamente da rumori di spari. Si vedono inoltre scheletri di case e di granai anneriti dagli incendi e sempre più corpi abbandonati al gelo invernale.

Si arriva al 26 gennaio 1943 nei sobborghi di Nikolajewka, città entrata nella storia della tragica ritirata dell’ARMIR. Il Vestone, il Valchiese, l’Edolo, il Tirano vanno all’attacco. Al di là della ferrovia c’è un treno pronto per gli italiani. Se riescono a raggiungere la ferrovia, saranno fuori dalla sacca. Rigoni combatte contro i russi giorno e notte con Antonelli che spara con la mitraglietta. Dopo l’ennesima marcia estenuante, i soldati di Rigoni giungono in un villaggio. In preda alla fame, Rigoni Stern entra col fucile dentro un’isba. Qui succede quello che è impossibile che possa accadere in guerra. Invece è tutto vero: “Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Rendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mnié khocetsia iestj ( Datemi da mangiare),  – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata, – Spasiba (Grazie), – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pausasta, (Prego) – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano d’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me ad aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo d miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini”(pag. 119, 120). Ma la battaglia del 26 gennaio 1943 riprende implacabile. Rigoni perde in quel giorno proprio i migliori amici. Il Vestone, il suo battaglione rimane decimato. Anche Rino, il cugino, rimane ferito. Muore Raul, il suo primo amico della vita militare. Anche Giuanin muore: “Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giù al paese e sparavo. E’ morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto. “Buon Natale, ragazzi, e pace”. E’ morto per andare a prendere un ferito mentre sparavano. E anche il capitano è morto. Aveva il petto passato da parte a parte. E anche il generale Martinat è morto quel giorno. E anche il sergente Minelli. Nemmeno Moreschi è ritornato. E neanche Pintossi, il vecchio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky”(pag. 125, 126).

Mario Rigoni Stern è ferito ad un piede. Ha una piaga dolorosa che gli rende il cammino difficile tanto che si vede costretto a usare un bastone a mo’ di gruccia. “Camminai ancora un altro giorno con il passo del vecchio viandante appoggiandomi al bastone. Per delle ore mi sorprendevo a ripetere: adesso e nell’ora della nostra morte, e questo pensiero mi ritmava il passo” (pag. 131). Raggiunge in ogni caso la colonna in marcia. Tra i soldati rincontra Romeo, un compagno già conosciuto al corso dei rocciatori. Dopo lunghe marce riesce, ad ogni modo, insieme ai suoi compagni ancora vivi (Tourn, Bodei, Antonelli e Tardivel) ad uscire dalla sacca e a raggiungere finalmente un caposaldo tedesco, dove si lava, si medica e dorme per due interi giorni. Procedendo nel cammino verso casa, approda in Bielorussia, nei dintorni di Gomel, dove il cammino viene agevolato dall’arrivo della primavera: “Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera. Si camminava da tanti giorni; era il nostro destino camminare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi attraverso i quali si passava c’erano delle pozzanghere. Il sole scaldava e sentii cantare una calandra (insetto senza ali, con il capo dotato di rostro). Una calandrella che cantava primavera. Desiderai l’erba verde, sdraiarmi sull’erba verde e sentire il vento tra i rami degli abeti. E l’acqua tra i sassi” (pag. 137).

Raimondo Giustozzi

 

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