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Dialoghi in corso. Inutile la manifestazione di Macerata? Risponde la scrittrice Dacia Maraini

Fonte. Internet

Fonte. Internet

Intervista di

Nicola Mirenzi Giornalista e blogger

Aveva sette anni quando finì rinchiusa in una campo di concentramento in Giappone: “Mio padre e mia madre si erano rifiutati di aderire alla repubblica di Salò e, per punirli, il governo alleato dell’Italia fascista internò l’intera famiglia”. È dal legno storto del novecento che viene fuori Dacia Maraini, la scrittrice italiana vivente più tradotta al mondo, cresciuta nella società letteraria animata da Moravia (di cui fu compagna), Pasolini, più lateralmente da Elsa Morante, negli anni in cui l’avanguardia arrembante del Gruppo ’63 si scagliava contro di loro, considerandoli custodi del potere culturale da abbattere. Erano passioni, furori, cecità, tragedie, miserie, splendori. Poi, improvviso, il novecento è morto. Forse troppo presto, forse non abbastanza, forse non del tutto, dato che certe ombre, nate allora, non finiscono ancora di proiettarsi: “Non credo al ritorno del fascismo come regime politico istituito, ma è innegabile che dei rigurgiti di fascismo ci siano. Fino a pochi anni fa, nessuno osava inneggiare al duce. Oggi, in migliaia, sentono di poterlo fare liberamente. È evidente che qualcosa nel tessuto della nostra democrazia si è rotto”.

Dopo che un uomo a Macerata ha impugnato una pistola e sparato a tutti i neri che incontrava per strada, numerose condanne sono state seguite dai “ma”, dai “però”, dai “tuttavia”, congiunzioni con le quali si è cominciata a declinare una giustificazione, a volte sottile, altre volte esplicita: “È inaccettabile che discorsi del genere si possano tranquillamente fare, oggi, in Italia. Bisognava dire pubblicamente, in maniera pacifica, ma irremovibile: “No”, no al fascismo, ma, sopratutto, no al razzismo. Il partito democratico ha sbagliato a non aderire subito. Hanno sbagliato le istituzioni. Il momento richiede si diano dei segnali forti”.

C’è anche qualcosa da capire?

“Che il livello di aggressività, dell’insulto, dello sfogo, della rabbia, dell’odio, del rancore, è troppo alto. Nel linguaggio pubblico, un argine è caduto. Occorre ripristinarlo”.

Com’è successo?

“Qualche mese fa, alcuni bambini, tra cui uno di nove anni, sono entrati nella mia casa di Pescasseroli e hanno distrutto tutto. Quando sono entrata, ho trovato due televisori spaccati a martellate, i libri rovesciati per terra, olio e vino sparsi sul pavimento di legno, i lampadari fracassati, i piatti gettati fuori dalla finestra. Non avevano rubato niente, l’avevano fatto per gusto del vandalismo. Ho scoperto, dopo, che l’avevano fatto anche in altre case. Mi è venuto naturale domandarmi: ‘Cosa sta succedendo al nostro paese?'”

Cosa si è risposta?

“Sono più brava a fare le domande che a dare un responso. Ma ho azzardato questa ipotesi: che la grande macchina della violenza messa in moto dal terrorismo islamico, inconsapevolmente, abbia influenzato l’immaginazione dei ragazzi e il loro desiderio di esercitare una violenza gratuita, irrazionale, fine a se stessa”.

Anche Luca Traini, l’uomo che ha sparato a Macerata, ha subito questa forza simbolica?

“Certo, Traini ha sparato proprio con la crudeltà e la mancanza totale di responsabilità che hanno mostrato i terroristi islamici”.

Ha un’influenza anche nella politica?

“La politica è vittima di una mancanza completa di ideali. Si ascoltano moltissime promesse, ma nessuno propone una visione dell’avvenire, un progetto a lunga scadenza. Finito il comunismo, il socialismo, il liberalismo, insomma le grandi promesse di cambiamento del mondo, è rimasta solo una lotta per la conquista del potere. La cosa più triste che ci sia”.

L’ideale della democrazia diretta non è abbastanza?

“La democrazia diretta è impossibile da realizzare in una società di massa. In una piccola comunità, dove tutti si conoscono e le persone vengono giudicate per i loro comportamenti, si può fare. Ma in un mondo così popoloso, così disarticolato, così complesso e contraddittorio, l’idea di rinunciare alla delega e alla competenza è inimmaginabile”.

Allora, se non è un’ideale, come lo definirebbe?

“Populismo”.

Non è una formula troppo generica?

“No, perché si basa sul fantasma di un rapporto diretto tra decisione e popolo. Un rapporto fanatico, astratto, che non può esistere, giacché il popolo come entità unica non c’è, come non ci sono più le classi sociali. E guardi che perfino un grande ideale come il comunismo è degenerato proprio con il populismo: in nome del popolo, si è costruita una burocrazia ferrea e una polizia che controllava tutto e tutti e ogni cosa è finita nella dittatura mostruosa di Stalin”.

Internet ha cambiato le cose?

“Internet ha dato a tutti la possibilità di intervenire, allargando – sopratutto in un primo momento – lo spazio democrazia. Tuttavia, questa libertà è stata interpretata anche come una licenza di insultare l’altro, aggredendolo, avvilendolo, mentendo, manipolando. Circostanza che ha dimostrato che, quando le persone sono messe in condizione di esprimere liberamente la propria opinione, non sempre lo fanno per il bene della collettività. Più facilmente, lo utilizzano per sfogare le proprie frustrazioni. E questo lo considero un regresso. Al quale si può rimediare solo stabilendo delle nuove regole, più ferme”.

È pericoloso eliminare le mediazioni?

“Può provocare dei disastri. Anche per prendere la decisione più semplice, c’è bisogno di una competenza, di un sapere specifico: non basta essere un individuo innocente, pescato a caso dalla massa”.

Lei come si è formata dal punto di vista letterario?

“Mia nonna era una scrittrice inglese polacca (a breve uscirà una biografia su di lei in Inghilterra), mio padre era un antropologo e ha sempre scritto: sono cresciuta in mezzo ai libri e a quindici anni avevo già letto tutto Proust e Balzac. Ma ho amato molto anche gli scrittori di lingua inglese: Faulkner, Hemingway, sopratutto Conrad, di cui ho tradotto un romanzo breve, ‘Il compagno segreto'”.

Nel campo di concentramento c’erano libri?

“No, erano mio padre e mia madre che me li raccontavano”.

Ne ricorda qualcuno?

“Pinocchio, che fu il mio primo vero incontro con la letteratura italiana. Raccontava di Geppetto e del suo pezzo di legno e noi ci dimenticavamo per un po’ di quello che avevamo intorno. Negli anni, l’ho riletto varie volte: è un libro straordinario, colmo di significati simbolici”.

Il più importante?

“Quello della bugia che trasforma il corpo, entrandoti dentro, modificandoti. Ecco perché non va detto il falso: non per una proibizione moralistica, ma perché, facendolo, lasciamo che la falsità penetri in noi”.

La verità, invece, cosa può fare?

“Può cambiare la realtà”.

Mi può fare un esempio?

“Quando nel caso Weinstein decine di donne hanno cominciato a raccontare il sistema di abusi a cui erano sottoposte, il sistema ha iniziato a crollare”.

Riguardava solo il cinema?

“No, purtroppo succede in tutti i campi: quando un uomo si sente in diritto di considerare la donna un oggetto con il quale soddisfare i propri desideri a prescindere dalla volontà di lei, significa che c’è dietro una cultura che ritiene il suo gesto legittimo”.

Il tempismo delle denunce è sospetto?

“Una donna sola che denuncia una prepotenza o un ricatto sessuale, non viene creduta, oppure viene immediatamente ostracizzata e messa da parte. Lo raccontano tutte le ragazze che hanno provato a ribellarsi. Soprattutto se l’uomo è potente come lo era Weinstein. Se, invece, si levano varie voci, il coro delle denunce crea verità, fa impressione, e anche gli uomini potentissimi possono essere messi al muro”.

Qualcuna ha approfittato del clima?

“Se ci sono state delle donne che hanno detto delle bugie, dipingendosi come vittime, anche se non lo erano, è giusto che siano condannate. Ciò non toglie che denunciare sia stata la scelta giusta”.

C’è qualcosa che continua a fare scandalo oggi?

“La violenza fa giustamente scandalo. Però, troppo spesso, viene accettata come normale. L’unico tabù rimasto è la pedofilia”.

È giusto ubbidire al divieto?

“Certo”.

A cosa è giusto disubbidire, invece?

“Alle convenzioni, quando sono ingiuste e ipocrite”.

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