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Per non dimenticare. Testimonianza di Nedo Fiano sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.

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Molti anni fa, ritornato nelle Marche, tra i sogni  nel cassetto, ne avevo uno in particolare: portare Nedo Fiano a Civitanova Marche. Il sogno si realizzò nella mattinata del 26 febbraio 2000 al cine teatro Conti di San Marone. Civitanova Marche salutava Nedo Fiano e con tutta la città lo salutavano le Scuole Medie “E. Mestica”, “A. Caro”, “L. Pirandello”, il Liceo socio psicopedagogico “Stella Maris”, il Liceo Scientifico “L. Da Vinci”, L’Istituto Tecnico Commerciale “F. Corridoni”. Non solo Civitanova Marche, ma tutta la regione salutava Nedo Fiano. Venerdì 25 Febbraio del 2000 si recò a Recanati presso le Scuole Medie “Calcagni” e “Patrizi”, il 15 Gennaio dello stesso anno ad Ancona presso il Liceo Classico “Rinaldi” nell’ambito di un’iniziativa promossa dal Comune della città dorica, dalla Comunità ebraica di Ancona, dall’ADEI e dall’Amicizia Ebraico Cristiana. Nedo Fiano, uno dei pochi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, l’unico superstite della propria famiglia che comprendeva undici persone, tra le quali un bambino di appena due anni, figlio del fratello, è diventato negli anni ambasciatore nel mondo dei crimini nazisti, memoria vivente di ciò che appartiene a tutti. L’avevo conosciuto nel maggio del 1994, a Giussano, in provincia di Milano, cittadina nella quale ho abitato dal 1977 al 1996. Mi colpì la sua testimonianza unica, forte e appassionante, resa davanti ad un pubblico di quattrocento persone. Un’alunna del Liceo Scientifico registrò tutta la testimonianza resa da Nedo Fiano al cine teatro “Conti” di Civitanova Marche. Sbobinata l’audiocassetta, ho costruito l’articolo riportato qui di seguito. Ho scandito la testimonianza in piccoli paragrafi per renderne più agevole la lettura.

 

L’infausto autunno del trentotto.

Ringrazio per lo striscione e gli applausi. La mia è una storia triste e dura. Sono ebreo, come lo erano Gesù Cristo, suo papà, la mamma, i dodici apostoli. Gesù era più bravo di me perché parlava e scriveva in Ebraico, io no. Eppure c’è stato un tempo in cui essere ebreo, significava essere criminale, indegno di vivere con gli altri. La mia storia comincia da molto lontano. Nel 1938 ero un ragazzo come voi, sorridevo alla vita. Un bel momento, gli ebrei italiani sono stati dichiarati, cittadini di serie B, in un paese ricco di una storia meravigliosa. Agli ebrei furono tolti tutti i diritti civili, di insegnare e di andare a scuola. Non potevano possedere la radio a casa, né avere il telefono, andare in villeggiatura, in montagna, al mare, viene tolta loro la licenza di andare a pesca, a caccia, un insieme di leggi che col tempo trasformò i 38.000 Ebrei che a quel tempo esistevano in Italia, in cittadini emarginati. Difficile è spiegare che cosa sia l’emarginazione, perché i diritti civili appartengono a quei beni che noi percepiamo di avere solo quando li perdiamo e gli ebrei con un colpo solo li persero tutti. Un diritto civile perso mi colpì profondamente, quello di non poter più frequentare la scuola alla quale ero iscritto. Venni cacciato, persi tutti i miei amici di classe. In quell’autunno infausto del 1938, nella mia famiglia cambiarono molte cose. Mio padre venne cacciato dall’impiego che aveva presso l’Ufficio delle Imposte, mia madre dovette chiudere la pensione. Un capitolo estremamente importante perché per la prima volta sentii un baratro davanti a me. Non riuscivo a capire cosa sarebbe accaduto di me, senza poter frequentare la scuola e i miei professori; per fortuna venne allestita, dalla comunità ebraica di Firenze, una piccolissima scuola con cinque, sei, sette alunni per classe, dove era d’obbligo studiare ferocemente. I professori, venivano, per la maggior parte dall’Università, dalla quale erano stati espulsi; c’era anche una gara tra alunni e insegnanti a chi si dedicava di più alla nostra scuola; in qualche maniera venne posto un rimedio alla tragedia.

L’arresto: dal carcere di Firenze a Fossoli.

Ma la storia galoppa: ’40, ’41, ’42, ’43 ed arriviamo all’8 settembre. L’8 settembre 1943, a seguito dell’armistizio con gli eserciti anglo americani, firmato dall’Italia a Cassibile, il paese veniva invaso dall’ex alleato tedesco. I nazisti iniziarono la caccia agli ebrei, caccia che in Germania era iniziata fin dall’ascesa al potere del Nazismo. Il problema quindi non era più quello di perdere la scuola, il lavoro, i diritti civili. Il problema era di salvare la vita, perché se ci avessero preso, come avvenne in seguito, saremmo stati portati a morire in terre lontane. Ricordo una sera indefinita del mese di novembre del ’43, andavamo disperatamente in cerca di una casa, dove nasconderci perché avevamo saputo che eravamo ricercati. Io, mamma, papà, mio fratello, sua moglie con il bambino di un anno e mezzo, mettemmo in una piccola valigetta le cose essenziali e lasciammo la nostra bella casa, dove ero nato e nella quale avevo trascorso la fanciullezza e parte della mia adolescenza. Bussammo alle porte di tanti amici e conoscenti. Ricevemmo molti rifiuti, ma trovammo anche un amico indimenticabile che diede l’assenso ad ospitarci. Rimanemmo da lui due o tre mesi, poi venni arrestato io, in seguito mia nonna, mio fratello con il bambino, sua moglie e prima ancora erano stati arrestati i miei zii con i loro figli. Di undici persone che componevano il mio nucleo familiare, solo io sopravvissuto.

Saltando violentemente la storia ed i fatti per come si sono svolti e tenendo conto che non abbiamo a disposizione tutto il tempo che vogliamo, comincerò a parlarvi della parte più drammatica della storia. Quando venni arrestato, venni rinchiuso alle “Murate“, il carcere di Firenze. Qui ebbi un’esperienza per certi versi drammatica, ma anche positiva perché conobbi nel carcere quella solidarietà che non avevo trovato da cittadino libero. Venni trasferito poi nel campo di Fossoli, vicino a Modena. Era il 5 Aprile del ’44. Qui mi raggiunsero poi mamma e papà. Ci abbracciammo fortemente perché non sapevamo più niente gli uni degli altri, da più di un mese e mezzo; anche mamma e papà non si vedevano più per lo stesso arco di tempo, perché l’una era stata tradotta in un carcere femminile, l’altro in un carcere maschile. Ricordo che mamma mi regalò due vasetti di marmellata, il più bel dono della mia vita. La prigionia nel campo di Fossoli durò poco, perché fummo portati poi alla stazione di Carpi, un comune della Provincia di Modena e caricati sui vagoni bestiame allestiti per noi. La parola “bestiame” fa pensare subito alla destinazione d’uso dei carri: animali, cavalli soprattutto, venti per carro secondo le stime, sessanta invece le persone ammassate nel nostro carro.

 Nedo Fiano il coraggio di vivere copertina

 

Da Fossoli all’inferno di Auschwitz.

Dalla stazione il convoglio si mosse lentamente, senza che nessuno sapesse nulla circa la nostra nuova destinazione. Sessanta persone sono sessanta caratteri, sessanta culture. Durante i sette giorni e le sette notti, tanto durò il viaggio, episodi di ottimismo, di gioia e di disperazione si alternavano ogni volta che ognuno prendesse la parola e diceva qualcosa. C’era il dramma di non sapere che cosa ci sarebbe accaduto, c’era anche la convinzione che ci aspettava qualcosa di brutto. Tutto questo esplodeva in certi momenti, quando una parola faceva da battistrada ad altre parole. Alcuni sostenevano che la nostra fine sarebbe stata tragica, altri invece pensavano che se pur faticoso, il viaggio ci avrebbe portato in qualche fabbrica tedesca, dove avremo dovuto lavorare per il Reich; sette giorni e sette notti durò il viaggio. Cercavamo di guardare attraverso le griglie laterali che servivano per il cambio dell’aria, dove eravamo diretti ed interpretare i posti attraverso i quali stavamo passando. I cartelli delle stazioni, anche per ragioni di sicurezza dettate dalla guerra in corso, non erano per niente chiari. Non sapevamo se eravamo in Austria o in Cecoslovacchia. Parliamo dei bisogni. Quelli fisiologici non risparmiano nessuno. Per consentire una certa privacy, avevamo steso ai due angoli del vagone, delle coperte. Era il mese di maggio, particolarmente caldo. La sete era il nostro tormento principale. Alle fermate nelle stazioni non si poteva avvicinare nessuno. Ad un certo punto il convoglio entrò in una stazione. Ci accorgemmo dopo che eravamo arrivati a Monaco di Baviera. Credevamo che quella era la nostra tappa finale. Furono aperti i portelloni del vagone e vedemmo venire verso di noi inappuntabili crocerossine della Croce Rossa Tedesca, con colletti inamidati, vestite di bianco. Distribuirono cibi caldi ed acqua, gesto che ci inoculò una forte dose di ottimismo, solo che non riuscivamo a capire il perché di tutta questa cura nei nostri confronti. Comprendemmo dopo che era tutta propaganda. Il Nazismo voleva far capire al mondo che aveva un atteggiamento positivo verso gli Ebrei. Il convoglio riprese il suo cammino. Passavamo attraverso campagne ridenti e paesaggi meravigliosi; vedevamo la vita attorno a noi. A notte fonda entrammo nel campo di Auschwitz- Birkenau. La stazione era proprio interna al campo. C’era un grande silenzio e una prospettiva all’infinito di piccole lampadine, di colore rosso, segno che tutto il campo era attraversato nei reticolati dalla corrente elettrica. Più lontano, sempre in prospettiva, vedevamo delle alte ciminiere, dalle quali uscivano delle fiamme molto alte e del fumo. Questo al momento fu interpretato da noi come un segno positivo e di tranquillità perché pensavamo di essere arrivati ad un distretto industriale dove avremo potuto lavorare, come ci aveva detto Titho, un boemo, il comandante del campo di concentramento di Fossoli. La notte passò in bianco. Ognuno aveva una sua idea. Alle prime luci dell’alba furono aperte le porte con grande fragore e vedemmo un enorme dispiegamento di forze: SS con i cani al guinzaglio, dobermann e pastori tedeschi. Eravamo come impietriti. “Scendere, scendere alla svelta e lasciate qua tutti i bagagli”. Alcuni di loro infierivano sui vagoni con i loro bastoni, perché non indugiassimo a scendere. Così la gente si rovesciò di sotto, senza misurare la difficoltà del salto, un metro e mezzo, che per le persone avanti negli anni, costituiva una prova con qualche difficoltà. Dirvi che cosa era diventata per qualche minuto la banchina della stazione, è difficile. Le persone si erano rovesciate gridando, piangendo. C’era isteria e terrore.

Il saluto della mamma: “Nedo, Nedo, abbracciami. Non ci rivedremo mai più.

I soldati non avevano nessuna indulgenza; attraverso i loro sguardi capimmo quello che ci aspettava. Vedemmo anche aggirarsi, tra le SS, alcuni uomini vestiti con delle buffe uniformi a strisce. Erano i prigionieri del campo. Ad un certo punto, sentimmo gridare: “Le donne a destra, gli uomini a sinistra”. Le famiglie si smembrarono, le mogli lasciarono i mariti, i bambini, le madri. C’erano pianti, grida. Mia madre, mi tirò a sé, prendendomi per la giacca e mi disse: “Nedo, Nedo, abbracciami, non ci rivedremo mai più”. Mamma era disperata, aveva degli occhi che non erano più i suoi, erano quelli di una persona ferita, distrutta dalla paura, dal dolore. L’abbracciai. Il suo volto era inondato di lacrime, come se fosse uscita da una doccia. Sentii che il mio volto scivolava sul suo. La strinsi forte, lei mi strinse, poi venni preso per la giacca e riportato nella fila degli uomini. Era il 23 maggio 1944. Non rividi più la mamma. Lei si allontanò assieme ad altre donne. Dall’altra parte, la fila degli uomini passò davanti ad alcuni ufficiali nazisti per superare la prima selezione. Due medici guardavano negli occhi e decidevano sull’istante chi doveva andare a morire subito, chi dopo due mesi, tale era la vita media nel campo. Mamma andò dalla parte di quelli destinati a morire subito. Papà era miracolosamente dignitoso, vestito in maniera quasi inappuntabile. Era un signore di cinquantaquattro anni e quando arrivò davanti agli ufficiali nazisti, falsificò la propria età, dicendo di avere quarantaquattro anni. Si salvò. All’inizio venne con me nel campo di lavoro. Al momento ho bisogno di alcune riflessioni, perché cerco di stabilire cosa devo dirvi, cosa no, cosa devo dirvi prima e cosa dopo. Vi dirò come hanno ucciso la mamma, non com’è morta, perché in quest’ultimo caso uno può pensare che nel campo si morisse per cause naturali. Mamma invece, prima venne gasata, poi bruciata, cremata. Uomini e donne destinati ai forni crematori, vennero scortati, beffeggiati, dai soldati del terzo Reich, da questi eroi che si permettevano di portare alla morte gente senza colpa, senza peccati, fino al crematorio N° 2 di Birkenau.

Le infernali camere della morte.

Dopo una certa attesa, dipendeva dal lavoro, pensate a questo termine usato per indicare l’assassinio di massa, poi vennero fatti entrare in una sala che poteva contenere dalle 1000 alle 1200 persone. In questa sala, invitarono tutti a spogliarsi, per una doccia ristoratrice, dicevano, dopo le fatiche del viaggio, intimando ad appendere gli abiti ai ganci infissi alle pareti, di annodare le scarpe con i lacci, in modo che non ci fosse nessuna confusione al termine della doccia. Spogliarsi davanti agli altri è un insulto e un attacco violento e feroce alla dignità della persona umana. Dopo secoli di civiltà abbiamo imparato a vestirci e lasciare scoperti solo le nostre mani ed il volto. Solo gli animali non si vestono. Ad Auschwitz, le persone erano considerate come animali. Dopo un’intuibile resistenza, vennero convinti a spogliarsi, costretti poi a passare in una seconda sala che era della stessa capienza della prima. Questa sala aveva al soffitto delle docce, promesse dai soldati, da questa marmaglia che soldati non erano, ma solo dei semplici criminali. Vennero ammassati, costretti a premersi gli uni contro gli altri. Chiuse le porte a tenuta stagna, spente le luci. La gente incominciava a gridare. Sono cose che si sono apprese dopo. Le luci si accendevano e si spegnevano. Difficile immaginare cosa poteva accadere in queste sale di morte: scene di violenza raccapricciante, altre d’infinita dolcezza, le mamme che stringevano a sé i bambini che piangevano. Poi vennero introdotti dei cristalli di Ziklon B, un micidiale preparato che a contatto con la temperatura ambiente che si era alzata, evaporava e produceva un gas velenoso. Erano granuli di silicio impregnati di acido cianidrico, che a ventisette gradi centigradi vaporizzava e davano la morte in 5 minuti. Mi sono spesso domandato cosa abbia pensato la mamma nell’agonia della morte, se ha pensato a me, a mio fratello Enzo, a suo marito. Conoscendo l’animo di mia madre, credo che avrà pensato ai suoi figli prima di tutto, poi c’è un vuoto che non riesco a riempire con le parole, riesco solo a riempirlo con il sentimento e la partecipazione. Così morì la mia mamma, così morirono centinaia di migliaia di altre mamme. Solo ad Auschwitz morirono 2.500.000 ebrei, senza contare quelli degli altri campi e quelli eliminati dai corpi speciali nelle retrovie del fronte russo. C’è a Gerusalemme, nel museo dell’olocausto, un reparto destinato ai bambini ebrei uccisi dai nazisti: un milione e cinquecentomila i bambini. In una sala, dalla volta punteggiata di stelle, una voce annuncia il nome di tutti questi bambini. L’uomo si sente come trascinato in uno spazio sidereo, in un mondo senza confini. Il milione e mezzo di bambini pesa nella coscienza di questi vigliacchi, secondo i quali non è accaduto nulla. Mio nipotino aveva diciotto mesi. Era un grande nemico del terzo Reich, aveva cospirato, sabotato e ucciso dei nazisti a diciotto mesi.

Auschwitz – Birkenau: l’inferno.

Il campo di Auschwitz – Birkenau non era un campo, era un inferno. Io vi parlerò proprio di quello inferno e poiché io l’ho vissuto, non avrebbe senso se io non ve lo raccontassi, se non cercassi di trasmetterlo, perché possiate rendervi conto in quale abisso, può cadere l’umanità quando è posseduta da un’idea crudele, infame ed ingiusta. Ad Auschwitz c’era una guarnigione di 5000 soldati per 150.000 prigionieri viventi. Il posto era un triangolo di tre campi: Auschwitz 1, Auschwitz – Birkenau ed il distretto minerario. Era un triangolo di morte per annientare, ridurre in cenere quanti erano lì. Sapere di dover morire è una delle condanne più feroci che si può dare ad una persona. Tutti quelli che erano là, sapevano che sarebbero morti, passati attraverso il camino. Il campo era pervaso da un fetore provocato dalla cremazione dei corpi, bruciati anche in numero di 10.000 al giorno, nei mesi di luglio- agosto del ’44, quando venne portata al macello la maggior parte della comunità ebraica ungherese.

Il fetore provocava vomito che dava debolezza; con il tempo ci si assuefaceva e la natura è provvida anche in questo caso, per un buon mese comunque è stato un tormento. Auschwitz poi era un luogo studiato, concepito, programmato non solo per uccidere nella maniera più terribile, ma per far soffrire ogni momento, ogni ora di sopravvivenza. Il prigioniero che riusciva a sopravvivere era sottoposto in ogni momento, alle torture più incredibili.

Nelle toilette del campo non c’era ovviamente la carta igienica. Dovevamo pulirci con le mani. Cercate di immaginare, al mattino cosa voleva dire pulirsi con le mani, invece di ridere (qualche alunno sta ridendo), pensate che afflizione. Nel campo non avevamo più un nome, ma un numero: A 5405; non eravamo più uomini, eravamo dei pezzi; quando un caposquadra o un capo si presentava davanti ad un nazista, diceva: “Centoventicinque pezzi”. Non eravamo più uomini ma pezzi, numeri, vestiti con stracci di cotone, estate e inverno, a 28 gradi sotto lo 0. Si trattava di rendere impossibile la vita e quasi si arrivava a desiderare la morte.

 

L’appello.

C’era un momento nella vita di Auschwitz, il mattino, anche questo momento era studiato per ammazzare, per uccidere. Era l’appello. Si può pensare che servisse per contare le persone, no serviva per massacrare. Alle quattro di mattina dovevamo rovesciarci dalle cuccette a castello, dovevamo correre come tanti disperati sotto la fontanella per rinfrescarsi le mani. Ad Auschwitz non c’erano né cucchiai, né coltelli, né forchette. Dovevamo mettere la testa dentro la ciotola e mangiare come degli animali, perché tutto era rivolto a trasformare l’uomo in una bestia; correndo, dopo aver bevuto un liquido caldo, indefinibile, andavamo nella piazza d’appello che veniva urlato in modo animalesco. Se un uomo, dopo sessanta anni riesce a riprodurlo, come nel mio caso, questo vuol dire che lo stesso è stato posseduto da quell’urlo, fatto alle 4,15 della mattina. Notate: il prigioniero doveva alzarsi alle 4, lavorare dalle 12 alle 14 ore al giorno, non poteva entrare nella propria baracca prima delle 8 di sera, doveva fare i conti con il freddo, con la pioggia, con la stanchezza. In condizioni normali, oggi, qui a Civitanova Marche, un uomo che faccia un lavoro leggermente pesante, ha bisogno di 4.800 calorie al giorno. Le calorie per i prigionieri del campo oscillavano dalle 1000 alle 1200. Ma questo è un esercizio meramente numerico. Il prigioniero ad Auschwitz distruggeva le riserve che sono sempre nel corpo di ognuno di noi, finiva risucchiato da questo progressivo attacco, si riduceva a pelle e ossa e nelle selezioni veniva scartato per essere mandato a morire.

La morte di papà.

Questo successe a mio padre. In una selezione venne messo da parte assieme ad altri, destinato al forno crematorio. Non so se riesco a trasmettere questo messaggio di uno che sa di dover morire, di uno che sa che di lì a quattro ore, sarà solo qualche manciata di cenere. Morire è duro ma sapere di dover morire nella maniera più crudele, è qualche cosa d’inimmaginabile; quando vi ho detto dell’inferno di Auschwitz, vi parlavo di qualcosa che ha un riferimento generico a tutto questo, nemmeno Dante ha pensato a qualcosa del genere. Nella sua raffigurazione dell’Inferno ha sempre lasciato un denominatore di umanità, pur nelle forme drammaticamente negative, ma ad Auschwitz non c’era più nulla di umano. Quelli che venivano messi da parte avevano già la morte nei loro occhi. Alcuni si schiaffeggiavano per prendere colore, altri si bucavano per colorarsi il volto di sangue nell’illusione di presentarsi alle selezioni in condizioni fisiche accettabili. Dovevano presentarsi a mezzo busto, ma c’era poco da nascondere. Papà! Quando vi ho parlato della mamma e del papà portati nelle infernali camere di morte, non vi ho detto come andavano le cose. Quando sono stati rinchiusi in quelle infernali camere, cosa è successo dopo che il gas ha portato la morte. E’ molto importante vedere quest’aspetto della distruzione. Dalle spie che c’erano alle porte d’ingresso, gli addetti alle SS vedevano quando tutti i prigionieri erano morti asfissiati; ad un segnale venivano aperti gli sfiatatoi laterali, aperte le porte ed entravano gli uomini del “Sonder commando”, della squadra speciale. Entravano con le maschere perché c’era ancora del gas sospeso nell’aria. Dovevano prendere uno per uno tutti i cadaveri. La sala era piena di urine, di sangue e di feci. So che non vi racconto cose piacevoli, ma i fatti sono andati così e bisogna conoscerli. Pensate ai 2.500.000 uomini e donne uccisi ad Auschwitz e che sono passati per questa tortura. Gli addetti della squadra speciale dovevano prendere i cadaveri uno per uno se donne tagliavano loro i capelli, a tutti veniva aperta la bocca, strappati i denti se erano d’oro e riposti in una cassa; a tutti venivano fatte anche delle ispezioni corporee, anali e vaginali per vedere se qualcuno aveva nascosto gioielli e valori. I cadaveri venivano messi su alcune lettighe e se c’erano degli arti che si erano rattrappiti durante l’agonia, con dei bastoni venivano stesi completamente e a due a due, uno con la testa rivolta accanto ai piedi dell’altro e viceversa, caricati sugli ascensori e portati ai forni crematori dove c’era sempre una lunga fila d’attesa perché occorreva un tempo tecnico per distruggere le salme. Venivano infilati dentro, dove si sviluppava una temperatura di 200°/ 250° C ed in venti minuti, il corpo veniva ridotto in cenere. Sotto al forno crematorio c’era una griglia per la raccolta delle ceneri. Dei camion arrivavano giornalmente a prelevare i cassoni ed il contenuto veniva rovesciato nella Vistola e sembra che i pesci ne fossero molto avidi. Mia mamma è finita nella Vistola. E’ molto triste parlare di queste cose, meglio parlare del Manzoni, del Leopardi Quando ne parlo ho la sensazione di essere cattivo, a credete è una sofferenza che vi farà  bene. Vi aiuterà a capire quello che è accaduto e perché e v’insegnerà a difendere la libertà con tutte le vostre forze e ad essere solidali con gli altri. Nella nostra casa a Firenze, per le scale, la gente aveva tolto il saluto alla mamma ed al papà ed erano amici che per dieci anni avevano condiviso giornate belle ed anche tristi Capite la cattiveria degli uomini? Perché scendendo le scale, si toglie il saluto ad una signora che era vostra amica che era dolce, laboriosa, generosa? Nessuna legge aveva detto che bisognava togliere il saluto agli Ebrei. Perché dare con tanta generosità e cattiveria, donare quantità di odio, di discriminazione, solo per il gusto di fare del male? Ad Auschwitz tutto era predisposto a fare del male.

 

Le punizioni corporali.

L’appello! C’erano dei sorveglianti che si aggiravano tra di noi, per guardare se per caso qualcuno, dopo alcune ore d’attesa, aveva sporcato la propria uniforme. Sapete che le persone un po’ avanti negli anni se stanno per tanto tempo in piedi, nell’assoluta immobilità e guardare un punto all’infinito, non riescono a reggere. Se una persona deve stare in questa posizione per un’ora, non succede nulla. In alcuni casi, l’appello poteva durate per tre, 4 ore, in altri per un’intera giornata. Vedevano se qualcuno aveva bagnato il proprio pantalone perché aveva dovuto orinare in piedi. A questi gli tiravano su la giacca, gli prendevano il numero ed alla sera, ritornando dal lavoro, avrebbe avuto una dose di venticinque bastonate sui glutei o sui polpastrelli della mano. Per i successivi 4 o 5 giorni, ammesso che riusciva ancora a camminare, per il prigioniero era la morte. C’era qualcosa di più perverso in questa punizione: calarsi i pantaloni e contare in tedesco i colpi che riceveva e chi sbagliava nel conto, doveva ricominciare daccapo. Al sesto- settimo colpo iniziava la crisi. La doppia dose di bastonate significava una morte atroce. Di ritorno da lavoro, c’era il momento dell’impiccagione. Era qualcosa di terribile. Venivano impiccati i prigionieri che avevano tentato la fuga e riacciuffati. Tutti gli altri venivano fatti allineare per cinque, togliersi il berretto. L’ufficiale leggeva sul foglio il motivo per il quale i prigionieri erano stati condannati a morte. Li facevano salire su uno sgabello che ad un certo punto veniva tolto. Il prigioniero cadeva con tutto il peso del proprio corpo. Lì avveniva la trasformazione del volto, prima rosso, giallo, verde, blu, la lingua veniva fuori enorme. La morte era resa più spaventosa perché pubblica. Tutto doveva avere un ammaestramento: “Devi vedere cosa ti aspetta se tenti la fuga!” Quando i prigionieri venivano riacciuffati ed introdotti nel campo, avevano attorno al collo una ghirlanda con una scritta “Hurrà, siamo di nuovo qua!” Pensate! Cosa erano stati capaci di studiare per noi per trasformarci in animali pavidi, incapaci di reagire! L’orchestra doveva suonare quando le SS entravano al passo nel campo. Un giorno ero assieme a tutti i miei compagni. Eravamo schierati sull’attenti. Arrivò il drappello. Fermarono il carro, all’altezza della prima fila, proprio davanti a me. Vidi una cosa allucinante. In questo carrello c’era il corpo di un uomo coperto fino all’altezza del collo, la testa posta accanto. Dal carretto sgocciolava il sangue che si stava avvicinando a me in un rigagnolo. Ero letteralmente terrorizzato che mi finisse sotto agli zoccoli. Stavo in piedi, poi il sangue trovò un altro viottoletto, dove dirigersi. Quando un prigioniero fuggiva, se non veniva trovato, veniva ucciso il capo della sua squadra. In alcuni casi andavano a prendere il capo della baracca dove dormiva e veniva ucciso anche lui. Malgrado questo, le fughe c’erano, ad opera di Polacchi e Russi che contavano su una certa solidarietà nella popolazione. Nella baracca erano appesi diversi cartelli che dicevano: “Un pidocchio, la tua morte”. Era un messaggio che all’inizio non riuscivamo a capire, col tempo ci rendemmo conto che era proprio così. Dovevamo, ogni quindici giorni, allinearci per cinque tra una baracca e l’altra, spogliarci, far vedere il dorso nudo e la giacca. Un ispettore controllava e se trovava un pidocchio, vedeva il numero al braccio e la solita dose di venticinque bastonate non le scampava nessuno. Noi, quando camminavamo per il campo, se incontravamo una SS dovevamo immediatamente irrigidirci e metterci sull’attenti. Non avevamo il diritto di rivolgerci ad un SS perché quel signore era un dio in terra. Naturalmente, se qualcuno non ottemperava a quest’ordine, chiamavano un capo che si trovava a passare di lì ed un carico di venticinque bastonate, non glielo toglieva nessuno.

Meditate che questo è stato

Voglio leggervi molto brevemente quello che è stato scritto da un grande poeta, che leggo sempre ai ragazzi delle scuole: “Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/  Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ senza capelli e senza nome/  senza più forza di ricordare/ vuoti gli occhi e freddo il grembo/ come una rana d’inverno. / Meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore/ Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi, / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfasci la casa, / La malattia v’impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”. (Primo Levi)

Il grande Primo Levi dice che è difficile per gente come voi che andrà a mangiare tra un’ora, capire cosa è la fame, la tortura e la sofferenza. Io non sono venuto qui per arricchire la vostra cultura, ma per scaldare i vostri cuori. Desideravo tenervi informati di un delitto di Stato, di un crimine terribile che si è potuto realizzare perché ai tempi in cui è avvenuto, non c’è stata solidarietà. Quando Hitler affermava che gli handicappati ed i deboli dovevano essere eliminati, trovò l’opposizione del clero protestante. Non sarebbero morte sei milioni di persone se ci fosse stata la solidarietà della popolazione. La solidarietà sulle scale di casa mia non costava niente, eppure non venne data e quando vennero ad arrestare la mamma ed il papà non ci fu nessuno che avesse protestato, nessuno che avesse gridato: “Assassini, ma cosa state facendo?”

La solidarietà mancata.

Martin Niemoeller, sommergibilista nella prima guerra mondiale, sacerdote nella seconda, così scriveva: “Prima essi attaccarono l’opposizione, ma io non ero all’opposizione, così non li difesi.

Poi essi attaccarono gli Ebrei, ma io non era un Ebreo, così non li difesi.

Poi essi attaccarono gli studenti militanti, ma io non Ero uno studente militante, così non li difesi.

Poi essi attaccarono i sindacati, ma io non ero un Attivista sindacale, così non li difesi.

Poi essi attaccarono gli insegnanti e gli intellettuali, ma io non ero uno di loro, così non li difesi.

E quando essi attaccarono me, non era rimasto Più nessuno a difendermi.

(M. Niemoeller)

La solidarietà è utile per chi la dà, perché c’è sempre un ritorno e non accade mai nella vita che non si abbia bisogno della solidarietà, anche quella spicciola, come solidarizzare con le persone che soffrono. Negli anni del Nazismo solo poche persone l’hanno data: Perlasca e Vallemberg a Budapest, Scindelr’ s a Cracovia. C’è la tendenza a vedere solo i nostri problemi e non quelli degli altri. Ricordate che saranno sempre le minoranze ad essere perseguitate. E’ successo alle porte di casa nostra, in Jugoslavia. E’ molto grave che nella vita si pensi solo ai fatti propri e di quest’atteggiamento non si misurano mai le conseguenze quasi sempre drammatiche. Cosa dire a voi, giovani e ragazzi rispetto a tutto quello che vi ho raccontato sulla Shoà, sulle impiccagioni, sui forni crematori, sulla sofferenza e le morti violente?

Nella Democrazia queste cose non succedono perché c’è un’opinione pubblica che si può opporre ad una legge ingiusta.

La Democrazia c’è quando c’è una stampa, una radio ed una televisione libera.

Da che parte stare? Quello che noi oggi viviamo è il prodotto di ieri e così sarà per il domani. Non c’è alternativa. Non si può costruire nessun futuro senza conoscere il passato che va letto e studiato. A conclusione di questo mio intervento, vorrei che prendiate coscienza di una cosa: la vita è solo in piccola parte un gioco divertente, ma è anche un avvicendarsi di situazioni di fronte alle quali dobbiamo fare delle scelte. Quello che è accaduto col Fascismo e col Nazismo non dovrà mai più ripetersi. Voi dovrete essere i protagonisti capaci di opporsi alle persecuzioni delle minoranze. Nel campo di Auschwitz sono stati condannati a morte i Testimoni di Geova solo perché appartenevano ad un’altra fede religiosa. Auschwitz non ci sarà più se ci saranno la solidarietà e la coscienza di essere tutti uguali senza distinzioni di sorta, né per il colore della pelle, né per il credo politico o religioso. Anche a nome di mia madre, vi dico di amare le vostre madri, i vostri genitori, amate la vita e gli altri. Grazie.

 

Altre notizie su Nedo Fiano

 

La casa editrice San Paolo ha pubblicato nel 2015 il libro di Nedo Fiano: A5405 il coraggio di vivere. E’ un’autobiografia nella quale Fiano ripercorre la propria infanzia, adolescenza e la prima giovinezza, trascorse in modo libero e spensierato a Firenze, sua città natale. Belle le pagine dedicate al papà, impiegato nelle Poste e alla mamma che gestiva una linda e frequentata pensione vicino a Santa Croce. I guai incominciano nel 1938 con la promulgazione delle leggi razziali e proseguono con l’arresto nel 1944. Viene condotto prima nel carcere fiorentino delle Murate e poi nel campo di Fossoli, vicino a Modena. Da qui, un giorno di primavera, insieme a quasi mille detenuti, viene deportato ad Auschwitz, dove dieci componenti della propria famiglia saranno sterminati. Nedo, l’undicesimo componente si salva perché conosce il tedesco, ma soprattutto perché crede nel coraggio di vivere. Malato, mal curato, viene liberato l’11 aprile 1945. Da Firenze, Fiano si sposta a Milano, dove vive tuttora. Matteo Renzi, che firma la Prefazione al volume, definisce questo libro “un colpo al cuore perché Fiano non racconta di numeri, ma di persone con nome e cognome, di amici conosciuti oltre il filo spinato che cadono nella neve, di una madre abbracciata prima dell’addio finale, di un padre che si trasforma sotto i suoi occhi e cede… Anche se è un libro che parla di morte, Fiano lo riempie di vita, di colori, di profumi”.

Nedo Fiano, nato a Firenze nel 1925, dopo la liberazione ritorna nella propria città natale. Qui incontra di nuovo Rina Lattes, sua compagna conosciuta ai tempi della scuola ebraica. I due si sposano nel 1949 e dal 1956 vanno a vivere a Milano. Dal matrimonio nascono tre figli: Enzo (1950), Andrea (1955) e Emanuele (1963). La moglie, signora Rina Lattes, lo accompagnò a Civitanova Marche nel febbraio del 2000. Emanuele Fiano è deputato della Repubblica Italiana. Ha ricoperto diversi incarichi nel corso dell’ultima legislatura; nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge contro l’apologia del Fascismo. Enzo, il figlio più grande di Nedo Fiano, ha lo stesso nome del fratello, morto ad Auschwitz. Nel film “La vita è bella” la casacca di Roberto Benigni ha il numero A5405, lo stesso numero che Nedo Fiano portava da internato ad Auschwitz. Fu anche consulente storico nel film di Benigni per quanto riguarda i costumi. Nel 2008 la città di Milano gli ha conferito l’ “Ambrogino d’oro” e nel 2011 la città di Firenze il “Fiorino d’oro”. Per l’editrice Monti ha pubblicato anche i romanzi storici: Il passato ritorna (premio Bancarellino 2010) e Berlino- Auschwitz… Berlino.

 

Raimondo Giustozzi

1 commento a Per non dimenticare. Testimonianza di Nedo Fiano sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz.

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