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H. De Balzac e il romanzo borghese. Eugenie Grandet: La storia di una donna che sta nel mondo e non gli appartiene.

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Eugenie Grandet: La storia di una donna che sta nel mondo e non gli appartiene.

 

Chiavi di lettura del romanzo

  • Trama del romanzo.
  • Incipit del romanzo.
  • La casa di papà Grandet.
  • Nanon, Madame Grandet, Eugenie .
  • Eugenie e Charles: amore romantico e calcolo borghese.

 

Trama

Eugenie Grandet è il tredicesimo romanzo di H. De Balzac, pubblicato nel dicembre del 1833. La storia di Eugénie è ambientata a Saumur, piccolo paesino della campagna francese, nel dipartimento del Maine – Loira e attraversato dal fiume omonimo. Il padre di Eugénie, che in città è conosciuto come papà Grandet, è un vecchio vignaiuolo arricchito grazie all’eredità paterna fatta fruttare tramite giusti investimenti finanziari, un fiuto infallibile per gli affari, e la sua proverbiale avarizia oltre che all’attaccamento all’oro che “sembrava aver comunicato il suo colore al suo viso”. Nonostante la sua ricchezza, quindi, il padrone di casa fa di tutto per nasconderla, non parlarne e, soprattutto, non spenderla; sua moglie, sua figlia Eugénie e la serva Nanon, scelta per la sua robustezza e possanza fisica, sono quindi costrette a vivere in una casa spoglia e povera.

La vita scorre in maniera monotona per moglie e figlia, eccetto le civettuole visite serali delle famiglie des Grassins e Cruchot, che ambiscono all’eredità del vecchio bottaio tramite la mano di sua figlia. La monotonia s’interrompe a casa Grandet quando una sera giunge un elegante e raffinato giovanotto parigino: Charles, cugino di Eugénie. Come avrà subito modo di scoprire papà Grandèt, Charles era stato spedito presso lo zio da suo padre, padrone di un’azienda parigina che stava fallendo e che in seguito si toglierà la vita per la disperazione. Papà Grandet, più preoccupato per i soldi che dovrà investire per salvare l’onore del fratello che per suo nipote, acconsente a ospitarlo per pochi giorni in casa sua.

Le donne di casa, al contrario, sono affascinate dal giovane parigino, specialmente Eugénie per la quale “il cugino suscitò nel suo cuore le stesse emozioni sottilmente voluttuose che suscitano in un giovanotto le fantastiche figure femminili disegnate da Westall nei keepsakes inglesi, incise dai Finden con tale abilità che si ha paura, soffiando sulla velina, di fare volare via quelle celestiali apparizioni ”. Il rapporto tra Eugénie e suo cugino diventa sempre più stretto e intimo, specialmente dopo che Charles ha appreso la notizia della morte di suo padre. Eugénie dedica le migliori attenzioni al cugino, anche al costo di disubbidire economicamente a suo padre, che non tollera assolutamente spese extra. Eugénie è dunque innamorata perdutamente del cugino, ma di un amore lieve, etereo e assolutamente religioso. La storia però non è destinata a durare perché papà Grandet decide di spedire il nipote a cercar fortuna nelle Indie; l’amore per il cugino spinge Eugénie a donargli tutto il suo oro, regalatole dal padre, mentre il cugino affida in pegno a Eugénie un cofanetto con il ritratto della madre, che diventa una sorta di feticcio amoroso per la ragazza. Dopo essersi giurati amore eterno, Charles parte con la promessa di tornare da lei non appena guadagnato il denaro per farlo.

Intanto papà Grandet, con il pretesto di salvare l’onore della famiglia, rileva i debiti di suo fratello e, grazie al lavoro a Parigi del fidato De Grassins, riesce a soddisfare i creditori di suo fratello, guadagnando un’immensa fortuna. Quando il padre, però, si accorge che la figlia ha regalato tutto il suo oro al cugino, va su tutte le furie, la maledice e la chiude in camera a pane e acqua. La signora Grandet, profondamente sconvolta per le reazioni di suo marito, si ammala gravemente, pur continuando a pregare il marito di perdonare la figlia. Alla fine il perdono arriva, ma solo dopo la scoperta, da parte dell’avido Grandet, che la figlia è ereditaria di metà delle proprietà di sua moglie, e che quindi risulta molto più conveniente trattarla bene in modo poi da convincerla a rinunciare ad essa. Così accade, ma nonostante la riappacificazione, la signora Grandet muore ed Eugénie acconsente a rinunciare alla sua eredità.

Dopo qualche anno anche papa Grandet muore, solo nelle sue stanze colme di ricchezze, ed Eugénie rimane da sola ad amministrare l’immensa fortuna paterna, compito che conduce egregiamente. Intanto la serva Nanon, grazie a una regalia di Eugénie, si sposa e diventa madame Cornoiller, restando l’unico affetto di Eugénie. L’ultimo dispiacere della sua vita le arriva quando riceve l’unica lettera da Charles in tutti questi anni in cui era stato lontano: egli le scrive di essere una persona nuova, di essersi arricchito, ma soprattutto di aver conosciuto il mondo e le leggi che lo regolano. Le dice di rinunciare alla promessa fatta pochi anni prima e offre alla cugina solo la restituzione del prestito ricevuto alla partenza. Charles intendeva sposare la figlia del duca D’Aubrion, famiglia nobile ma decaduta a causa di rovesci finanziari, in modo da assumere una posizione importante nella politica francese, e ambire ad arrivare vicino alla cerchia del re. Eugénie reagisce a questo dolore con molta compostezza: paga i creditori di suo zio, restituisce il cofanetto d’oro al cugino, gli augura buona fortuna, e acconsente a sposare il “presidente” Cruchot. E così Eugénie trascorre tristemente alcuni anni assieme a un marito non amato e senza figli in un piccolo paesino di provincia. In seguito anche questo muore, affidandole la sua eredità, ma lasciando la protagonista nuovamente sola.

 

INCIPIT DEL ROMANZO

 

“In alcune città di provincia si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quella dei chiostri più tetri, delle lande più desolate, delle rovine più tristi: in queste case forse si trovano riuniti e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono così tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge dal parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale malinconia esiste anche in una casa di Saumur, in cima alla via montagnosa che mena al castello per la parte alta della città… La malinconica casa dove accadde ciò che questa storia racconta era appunto una di queste dimore, sopravvivenze venerabili di un secolo in cui le cose e la gente avevano quella semplicità che il costume francese va via via perdendo” (Eugenie Grandet, pag. 3, 6, Oscar Mondadori, 2005).

Il signor Grandet, chiamato da alcuni vecchi, il cui numero diminuiva sensibilmente, papà Grandet, era nel 1789 un mastro bottaio che oltre al fatto suo sapeva leggere, scrivere e far di conto. Quando la nuova Repubblica Francese mise in vendita nel circondario di Saumur i beni del clero, il bottaio, allora quarantenne, aveva da poco sposato la figlia di un ricco mercante di legnami. Egli con il suo e con la dote mise insieme duemila luigi d’oro: munito di questi, andò al distretto dove con duecento doppi luigi del suocero offerti al feroce repubblicano che sorvegliava la vendita dei domini nazionali, ebbe per un pezzo di pane, legalmente, se non legittimamente, le più belle vigne del territorio, una vecchia abbazia e qualche cascina. Gli abitanti di Saumur erano poco rivoluzionari e papà Grandet passò per uomo ardimentoso, un patriota repubblicano che diffondeva nuove idee: mentre il bottaio si occupava pacificamente delle sue vigne. Papà Grandet trova il modo di andare d’accordo sempre con tutti i potenti del momento, rivoluzionario con i contestatari, reazionario con quelli che vengono dopo, Bonapartista quando la stella di Napoleone Bonaparte giunge al suo culmine. Nel 1806 ottiene la nomina nella Legione d’Onore.

“Aveva allora 57 anni e sua moglie circa 36: una figlia unica, frutto dei loro legittimi amori, aveva l’età di sedici anni. Il sig. Grandet, che la Provvidenza volle senza dubbio consolare della sua disgrazia amministrativa, ereditò successivamente durante quest’anno dalla signora La Gaudinière, nata La Bertellière, madre della signora Grandet: poi dal vecchio sig. La Bertellière, padre della defunta, e infine da madama Gentillet, sua ava materna: tre successioni la cui importanza rimase nascosta a tutti” (pag. 8).

Due sole persone a Saumur erano in grado di valutare approssimativamente l’ammontare della disponibilità liquida in denaro posseduta da papà Grandet: “Una era Cruchot, il notaio che si occupava dei prestiti ad interesse che faceva Grandet; l’altra des Grassins, il più ricco banchiere di Saumur, alle cui operazioni lucrose il vignaiuolo partecipava segretamente quando voleva” (pag. 9). Tutti a Saumur credevano che le ricchezze di papà Grandet fossero illimitate tanto che anche a Parigi se qualcuno accennava ai Rothschild o a Laffitte, si sentiva domandare se erano ricchi come Grandet. I Rothschild, ricchi ebrei di Francoforte, aprirono nel 1822 una filiale parigina della banca di famiglia che, con la Monarchia di luglio (1830), ottenne il monopolio di fatto dei prestiti allo Stato; il banchiere liberale Jacques Laffitte, a capo della Banca di Francia sotto Napoleone, deputato d’opposizione fra il 1816 e il 1830, sotto Luigi Filippo fu presidente del Consiglio e ministro delle Finanze, passò nuovamente all’opposizione, morì in rovina nel 1844.

Papà Grandet aveva vigne, boschi, terreni che gli davano tutto, ma era di un’avarizia proverbiale. Aveva anche un leggero difetto: quando doveva sostenere una conversazione lunga, balbettava, ma anche questo faceva parte del suo carattere. Ogni volta che doveva concludere un qualsiasi affare, aveva sempre in bocca “quattro frasi che avevano la nettezza di formule algebriche; gli servivano di norma ad affrontare e risolvere tutti i problemi della vita e del commercio: “Non so, non posso, non voglio, vedremo” (pag. 12). Quando, dopo un’abile conversazione, il suo interlocutore che credeva di tenerlo ormai in pugno, finiva per rivelare quello che aveva in mente, rispondeva. “Non posso decidere senza consultare mia moglie”. Non era affatto vero. La moglie, che egli aveva ridotto ad un idiotismo completo, a una vera schiavitù, era negli affari la sua difesa più comoda. Grandet non andava a visitar nessuno, né voleva ricevere, né invitare a pranzo: non faceva rumore e sembrava economizzare tutto, anche i movimenti. Non sottraeva una mollica agli altri per un costante rispetto della proprietà. Ciò non ostante, malgrado la dolcezza della voce, malgrado il modo circospetto, il linguaggio e le abitudini del bottaio trasparivano, specialmente quando era in casa, dove aveva minor ritegno di finzioni. Come aspetto, Grandet era un uomo grosso e basso, alto cinque piedi, con polpacci di dodici pollici, rotule nodose e spalle larghe. Il suo viso era tondo, rossastro e lentigginoso, dal mento diritto, la bocca serrata e i denti bianchi. I suoi occhi avevano l’espressione calma e divoratrice che il popolo attribuisce al basilisco. La sua fronte solcata di rughe trasversali non mancava di protuberanze significative. I suoi capelli giallastri e grigiastri avevano del bianco e dell’oro. Il suo naso aveva una gobba venata che, non senza ragione, il volgo diceva piena di malizia. Tale figura esprimeva una finezza pericolosa, una probità senza convinzione, e l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i suoi pensieri nella gioia dell’avarizia, e convinto che il solo essere che valesse qualche cosa fosse sua figlia Eugenia, unica ereditiera. D’altra parte gli atti e i modi, tutto in lui denotava quella fiducia in sé di chi ha l’abitudine d’essere riuscito in tutte le sue imprese. E così, quantunque in apparenza di costumi facili e pieni di blandizia, il signor Grandet aveva un carattere di bronzo. Chi lo vedeva oggi lo avrebbe visto con la stessa foggia di vestire del 1791: si stringeva con cinghie di cuoio le grosse scarpe e portava in ogni stagione calze di lana, calzoni corti di panno grosso marrone con bottoni d’argento, un panciotto di velluto a righe gialle e scure con doppia fila di bottoni, un largo soprabito marrone, una cravatta nera e un cappello da quacchero. I guanti, solidi e ruvidi come quelli dei gendarmi, gli duravano venti mesi, e per conservarli puliti, li adagiava sempre sul medesimo bordo del cappello, con un gesto metodico: Saumur altro non sapeva di questo personaggio” (Pag. 12, 13). Data la proverbiale avarizia di papà Grandet, è facile immaginare quale fosse la sua abitazione.

LA CASA DI PAPA’ GRANDET

 

È facile comprendere ora quale fosse la casa del signor Grandet, una casa scialba, fredda, silenziosa, posta nella parte alta della città e protetta dai bastioni in rovina. I due pilastri e l’arco, in mezzo a cui s’apriva il vano della porta, erano come il resto del fabbricato, costruiti col tufo, pietra bianca che si trova sulle sponde della Loira ed è così friabile da non superare mai in media i due secoli di durata. I buchi ineguali e numerosi, che le intemperie avevano sparso bizzarramente, davano all’arco e alle colonne del portone l’apparenza delle pietre scanalate dell’architettura francese e qualche somiglianza anche con l’ingresso di una prigione. Sull’arco dominava un lungo bassorilievo di pietra dura scolpita, rappresentante le quattro stagioni in figure già logore e annerite, e sopra il bassorilievo sporgeva un plinto tutto coronato di piante spontanee; parietarie gialle, rampicanti, convolvoli, musco ed un piccolo ciliegio già abbastanza alto. La porta di quercia massiccia, bruna, ardita, con larghe fenditure da ogni parte, debole in apparenza, era solidamente munita da un sistema di chiavarde, disposte con simmetria. Un’inferriata quadra, piccola, dai ferri stretti e rossi di ruggine, spiccava nel centro e serviva di motivo a un martello attaccato mediante un anello che poggiava sulla testa di un grosso chiodo. Quel martello di forma oblunga o dello stesso genere di quelli che i nostri antichi chiamavano picchiotto somigliava a un grosso punto esclamativo e, solo esaminandolo con attenzione, un antiquario avrebbe potuto scoprirvi qualche traccia della figura umoristica che un tempo rappresentava e che il lungo uso aveva consumata. Dall’angusto graticcio, attraverso cui si riconoscevano gli amici nei tempi di guerra civile, si offriva allo sguardo dei curiosi, in fondo a una volta scura e verdastra, qualche scalino slabbrato che dava accesso a un giardino chiuso da mura grandi, umide e piene di arbusti malaticci. Erano le mura del bastione su cui si aprivano i giardini delle prossime case. Al pianterreno la stanza principale era una specie di sala attigua all’uscio di strada. Pochi conoscevano l’importanza d’una sala nelle cittaduzze dell’Angiò, della Turenna e del Berry, dove la sala fa da anticamera, salotto, studio, spogliatoio e sala da pranzo; il teatro della vita domestica, il focolare comune. Là il barbiere dei dintorni veniva due volte l’anno a tagliare i capelli al signor Grandet, là entravano i fittavoli, il curato, il sottoprefetto e il garzone del mugnaio. Quella camera con due finestre sulla via aveva il pavimento di legno, e tutt’intorno la decoravano dall’alto in basso assiti chiusi in modanature antiche; il soffitto era di travi a tinte grigie, e gli interstizi erano ripieni di borra bianca che sempre più ingialliva. Una vecchia lastra di rame incrostata d’arabeschi, ornava la cappa del caminetto in pietra bianca male scolpita, e, al disopra, in vetro verdastro, con gli angoli smussati per lasciarne scorgere lo spessore, rifletteva un filo di luce lungo uno specchio gotico in acciaio damascato. I due candelieri di rame indorato posti ai due canti del camino servivano a un doppio uso: togliendo le rose portacandele e il cui ramo principale s’incassava in un piedistallo di marmo azzurrastro con ornamenti di rame vecchio, questo poteva adoperarsi come candeliere nei giorni ordinari. Le seggiole di forma antica avevano tappezzerie con le favole di La Fontaine; ma bisognava conoscerle assai bene per distinguerne i soggetti, tanto era difficile scorgere qualcosa in quei colori scialbi e in quelle figure più volte rattoppate. Agli angoli erano quattro cantoniere, specie di credenze con sudici scaffaletti. Una vecchia tavola da gioco intarsiata, che serviva da scacchiera, si trovava nel vano tra le due finestre, con sopra un barometro ovale, listato di nero e a strisce di legno dorato, su cui le mosche avevano silenziosamente reso un problema l’esistenza della doratura. Nella parete di fronte al caminetto due ritratti a pastello si diceva che rappresentassero l’avo della signora Grandet, il vecchio signore de La Bertellière, in divisa di luogotenente delle guardie francesi, e la defunta signora Gentillet in costume di pastorella; alle finestre pendevano tende in gros di Tours rosso con cordoni di seta a ghiande di chiesa. Questa ricca decorazione, che stonava con le abitudini di Grandet, era compresa nell’acquisto della casa con lo specchio, la mensola, le tappezzerie e le cantoniere in legno di rosa. Presso la finestra attigua alla porta era una sedia di paglia su di una predella, perché la signora potesse vedere chi passava. Ma un tavolinetto da lavoro in amarasco naturale occupava il vano, e accanto v’era la poltroncina di Eugenia. Da quindici anni madre e figlia consumavano lì la loro vita in un lavoro continuo dall’aprile al novembre; nel primo giorno di questo mese potevano portare il loro quartiere d’inverno presso il caminetto. Quel giorno soltanto Grandet permetteva che si cominciasse ad accendere il fuoco nella stanza, e lo faceva spegnere il trentuno marzo senza tener conto dei primi freddi della primavera, né di quelli dell’autunno; uno scaldapiedi pieno di brace prese in cucina e serbate con destrezza dalla grossa Nanon (la domestica) aiutava le due donne a passare con minor disagio le mattinate e le sere piú fresche dell’aprile e dell’ottobre. Esse avevano cura di tutta la biancheria di casa, e compivano con tanta scrupolosità questo lavoro da operaie, che, se Eugenia voleva ricamare qualche collaretto per la madre, bisognava che rubasse un paio d’ore al sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce; da un pezzo l’avaro aveva adottato il sistema di consegnar lui stesso a Eugenia e alla domestica una candela, allo stesso modo come distribuiva la mattina il pane e quanto serviva per il consumo della giornata. Nanon era forse l’unica creatura umana capace di accettare il dispotismo del suo padrone… La grande Nanon, così chiamata per la sua statura, che era di un metro e ottantatré, apparteneva a Grandet da trentacinque anni. Benché avesse un salario di soli sessanta franchi, passava per una delle serve più ricche di Saumur” (pag. 17, 18, 19).

 

NANON, MADAME GRANDET, EUGENIE

 

La storia di Nanon (la domestica), prima che arrivasse in casa Grandet, è fatta di privazioni e povertà: “A ventidue anni la povera giovane non aveva potuto trovar padrone, tanto il suo aspetto era ripugnante, sebbene a torto. In verità la sua testa sarebbe stata da ammirarsi a un granatiere della guardia. Costretta a lasciare una fattoria incendiata, dov’ella custodiva le vacche, era venuta a Saumur e vi cercò servizio, forte di quel coraggio che non si rifiuta a nulla. Papà Grandet aveva allora intenzione di ammogliarsi, e pensava di metter su casa. Vide quella ragazza che tutti respingevano e, da esperto bottaio, e quindi buon giudice della forza materiale, indovinò subito l’utile che si poteva trarre da una femmina simile a un Ercole, piantata sulle gambe come una quercia sessantenne, con i fianchi robusti e le spalle quadre, con mani da carrettiere e una probità intatta come la sua virtù. Né i porri che ornavano quel volto marziale, né la tinta color caffè, né le braccia nervose ed i cenci della Nanon spaventarono il bottaio che si trovava tuttavia nell’età in cui palpita il cuore; egli vestì, calzò e nutrì la povera ragazza, assegnandole un salario e del lavoro senza troppo strapazzarla. Nel vedersi accolta a quel modo, la grossa Nanon pianse di gioia in segreto e si affezionò sinceramente al padrone, che usò con lei sempre un sistema feudale. Ella badava a tutto; cucinava, faceva il bucato, andava a sciacquare i panni nella Loira e li riportava sulle spalle; era in piedi di buon mattino, andava tardi a letto, preparava il desinare per gli operai al tempo delle raccolte, sorvegliava la vendita dei generi e difendeva come un cane fedele la fortuna del suo signore; insomma, fidando ciecamente in lui, obbediva a tutte le sue stramberie. Nel famoso anno 1811, in cui il raccolto costò stenti inauditi, dopo vent’anni di servizio, Grandet risolse di regalare il suo vecchio orologio a Nanon, e fu il solo dono che ella ricevesse da lui; poiché, sebbene fosse solito di darle anche le sue scarpe vecchie, che si adattavano benissimo ai piedi di lei, era impossibile addirittura considerarle come un regalo, tanto erano consunte dall’uso. La necessità rendeva così avara quella poveretta, che il bottaio aveva finito per amarla come si ama un cane, ed essa s’era lasciata mettere al collo un collare guarnito di punte che non la pungevano piú… Se Grandet tagliava il pane con troppa parsimonia, ella non si lamentava e prendeva parte allegramente ai profitti igienici che procurava quel sistema severo nella casa, dove mai nessuno era ammalato. E poi la Nanon apparteneva alla famiglia; rideva quando rideva Grandet, era triste, aveva freddo, si scaldava, lavorava con lui. Che dolce compenso in quell’eguaglianza! Mai il padrone l’aveva rimproverata per i frutti che riusciva a mangiare sulla pianta stessa. – Va, prendi pure, Nannina, – le diceva il vecchio negli anni in cui i rami piegavano sotto il peso dei frutti, e i fittavoli eran costretti ad ingrassarne i maiali( pag. 20, 21). Nanon si era affezionata con il tempo al padrone, tanto che gli abitanti di Saumur si chiedevano che cosa la legasse così a un padrone dispotico e avaro. In casa era l’esempio dell’ordine e della pulizia: “La cucina, le cui finestre ad inferriata davano sul cortile, era sempre a posto, pulita, fredda, una vera cucina d’avaro, dove nulla deve andare a male. Non appena la fantesca aveva rigovernato i piatti, chiuso nella credenza quel che restava del pranzo e spento il fuoco, traversava il corridoio che comunicava con la sala, e veniva a filar la canapa vicino ai padroni. Una sola candela per sera bastava a tutta la famiglia. Nanon dormiva appunto in fondo al corridoio, in un bugigattolo triste e buio, e ci voleva la sua salute di ferro per resistere in quella specie di tana, da dove poteva udire il minimo rumore in mezzo al silenzio profondo che regnava notte e giorno nella casa. Come un cane da guardia doveva aver sempre un orecchio teso e riposarsi vegliando” (pag. 22).

 

Madame Grandet. Balzac non dice come si chiamasse, gli basta dire che era la moglie di papà Grandet: “La signora Grandet era asciutta e magra, gialla come una mela cotogna goffa e tarda; una di quelle donne che sembrano fatte solo per subire delle tirannie. Aveva ossa grosse, naso grosso, fronte ed occhi bovini e, a prima vista, dava l’idea di quei frutti stopposi che non hanno piú succo, né sapore. I suoi denti erano neri e radi, la bocca increspata, il mento aguzzo e ricurvo; ma d’altra parte era una donna eccellente, una vera La Bertellière. L’abate Cruchot sapeva trovare l’occasione di dirle che ella non era poi capitata male, e lei gli credeva. Una dolcezza angelica, una rassegnazione d’insetto tormentato dai bambini, una pietà rara, una calma inalterabile, un cuore ottimo la facevano compiangere e rispettare da tutti. Il marito non le dava mai piú di sei lire alla volta per le sue spese minute. Benché ridicola in apparenza, quella donna, che, tra la dote e le eredità successive, aveva portato a papà Grandet piú di trecentomila franchi, si era sempre sentita profondamente umiliata entro di sé per l’ilotismo a cui la si condannava, e, non sapendosi per innata dolcezza ribellare, si era limitata a non chiedere mai un soldo e a non fare obiezione per gli atti che mastro Cruchot le presentava da firmare. Questa fierezza sciocca e segreta, questa nobiltà d’animo disprezzata e ferita da Grandet, regolava la condotta della povera creatura. Ella portava tutti i giorni un abito di levantina verdastra che le durava quasi un anno, un grande fazzoletto bianco, un cappello di paglia cucita e un grembiule di panno nero; e, poiché usciva poco di casa, le sue scarpe si logoravano di rado; insomma, non chiedeva nulla per sé. Da parte sua, il marito, preso a volta da qualche rimorso e ricordandosi che da un pezzo non le aveva dato le sei lire, metteva sempre la condizione di un’offerta per lei quando concludeva le vendite dei generi. I quattro o cinque luigi sborsati dall’Olandese o dal Belga che acquistava il mosto formavano la rendita annua piú importante per la signora Grandet; ma quando essa aveva ricevuto quel denaro, il vecchio bottaio considerava comune la borsa e le diceva: – Hai qualche soldo da prestarmi? – La povera donna, lieta di essere utile in qualche modo a un uomo che il confessore le indicava sempre per suo signore e padrone, gli restituiva durante l’inverno parecchi scudi di quella somma. Quando Grandet tirava fuori il pezzo da cento soldi stabilito per le piccole spese di filo, aghi e abbigliamento della figlia, non mancava mai, dopo aver riabbottonato la tasca, di chiedere alla moglie: – E tu non vuoi nulla? – Amico mio, – rispondeva la signora con un sentimento di dignità materna, – vedremo” (pag. 24, 25).

 

EUGENIE GRANDET. In casa Grandet, a metà novembre, tutti gli anni cadeva il compleanno di Eugenie. Era l’occasione perché I Cruchot, I des Grassins, interessati all’eredità di Eugenie, proponendole di sposare i propri rispettivi figli, venissero presto in casa Grandet con enormi mazzi di fiori. Il signor Grandet secondo le abitudini dei giorni festosi di Eugenia, era venuto a sorprenderla mentre era ancora a letto e le aveva offerto il suo paterno regalo, che da tredici anni consisteva in una bella moneta d’oro. La madre le donava ordinariamente una veste d’inverno o d’estate, e quei due abiti e le monete, che Eugenia riuniva al primo dell’anno e alla festa del padre, formavano per lei una piccola rendita di circa cento scudi, che Grandet si compiaceva di veder crescere. Era infatti come far passare il suo denaro da una cassa all’altra e, per così dire, infondere il sentimento dell’avarizia nella sua erede, cui chiedeva conto talvolta del piccolo tesoro, già aumentato dai Bertellière, dicendole: – Sarà il tuo regalo di nozze… Durante il pranzo, il padre, tutto lieto di vedere la sua Eugenia piú bella in un abito nuovo, aveva esclamato  – Poiché è la festa della mia ragazza, accendiamo un po’ di fuoco: sarà di buon augurio – La signorina avrà marito entro l’anno, certo – osservò la grossa Nannina, portando via gli avanzi di un’oca, il fagiano dei bottai – Ma io non vedo partito conveniente per lei a Saumur – rispose la signora Grandet, volgendo al marito uno sguardo timido che diceva chiaro in quale stato di servitù coniugale fosse vissuta sempre la povera donna. L’ex-sindaco (papà Grandet era stato anche sindaco di Saumur) contemplò un istante la figlia, e gridò gaiamente: – Eugenia compie ventitré anni oggi; e bisognerà occuparsi di lei. – Madre e figlia si scambiarono in silenzio un’occhiata d’intelligenza”(pag. 24). Il notaio Cruchot arriva per primo, assieme alla moglie e al figlio, alla festa di compleanno ed è pieno di smancerie all’indirizzo di Eugenie, poco dopo arriva all’appuntamento la famiglia Des Grassins.   “La signora des Grassins era una di quelle donnette vivaci, paffute, bianche e rosee che, in grazia del regime claustrale delle provincie e delle abitudini di una vita virtuosa, si conservano ancora giovani a quarant’anni. Son come le ultime rose d’autunno, che danno piacere a vederle, ma i cui petali mostrano qualcosa di freddo e il cui profumo è facile a svanire. Vestiva molto bene perché si forniva d’abiti a Parigi e dava quindi il tono della moda alla città di Saumur; offriva anche ricevimenti. Suo marito, ex-quartiermastro della guardia imperiale, pensionato in seguito a una grave ferita ricevuta ad Austerlitz, aveva nei tratti, nonostante il rispetto per Grandet, la franchezza dei militari” (pag. 29). Assieme ai genitori c’è anche Adolphe, il figlio che i Grassins vorrebbero bene come futuro marito di Eugenie. E’ lui che si fa avanti per offrire un regaluccio ad Eugenie. Adolphe è “Un giovanottone biondo, pallido e delicato, di modi distinti, timido in apparenza, ma in realtà reduce allora allora da Parigi, dove, col pretesto di studiar legge, aveva sciupato otto o diecimila franchi, si fece avanti, baciò la ragazza sulle due guance, e le offerse un astuccio da lavoro con tutti gli oggetti in rosso; roba dozzinale, quantunque lo scudo, su cui erano incisi abbastanza bene in gotico un E ed un G, cercasse darle una certa pretesa d’eleganza. Aprendolo, Eugenia provò una di quelle gioie insperate che fanno diventar rosse, trasalire e tremare le fanciulle. Volse gli occhi al padre come per chiedergli se poteva accettare, e il signor Grandet disse un «Prendi, figlia mia» con l’accento che avrebbe reso famoso un attore. I tre Cruchot rimasero stupefatti nel vedere lo sguardo lieto e affettuoso che gettò ad Adolfo des Grassins l’ereditiera, cui sembrava incredibile il possesso di tanta magnificenza. Il padre di Adolfo offrì a Grandet una presa di tabacco, ne fiutò una anche lui, scosse qualche resto caduto sul nastro della Legion d’onore che portava alla bottoniera del soprabito blu, e fissò gli avversari con l’aria di chi vuol dire: – Ed ora paratemi questo colpo” (pag. 29, 30).

Le due famiglie giocano di fioretto, mettendo ognuna le proprie ambizioni, ma nessuno fa caso a loro men che mai Eugenie che accetta solo di giocare a tombola. Ma un avvenimento arriva a sconvolgere l’esistenza della piccola comunità di Saumur: l’arrivo da Parigi di Charles, figlio di un fratello di papà Grandet. Il giovane non lo sa, ma il padre, prima di dichiarare fallimento e uccidersi per la vergogna, lo manda da papà Grandet perché possa provvedere al giovane in qualche modo. Il nuovo arrivato saluta con modi fini e garbati tutti gli invitati che continuano a giocare a tombola, solo “Eugenie lanciava al cugino sguardi furtivi, nei quali alla moglie del banchiere era facile scorgere un crescendo di stupore o di curiosità” (pag. 33). “Il signor Charles Grandet, un bel giovane di ventidue anni, formava allora un contrasto singolare con i buoni provinciali, fra i quali i suoi modi aristocratici suscitavano una specie di rivoluzione, e che tutti studiavano per burlarsi di lui. A ventidue anni, infatti, i giovani sono ancora troppo vicini all’infanzia per sfuggire alle fanciullaggini e forse anche su cento di loro ve ne sarebbero stati novantanove che avrebbero fatto come Charles Grandet. Alcuni giorni prima suo padre gli aveva detto di andarsene per qualche mese da suo zio a Saumur; forse il signor Grandet di Parigi pensava a Eugenia, ed egli, che capitava in provincia per la prima volta, volle apparirvi con tutta la superiorità d’un giovane alla moda, e pensò di mettere in subbuglio il dipartimento con il suo lusso, di farvi chiasso e introdurvi la vita parigina. Insomma, per dirla in una parola, egli intendeva di impiegare a Saumur maggior tempo ancora che a Parigi nella cura delle unghie, e voleva affettarvi quell’eccessiva ricercatezza nell’abbigliamento, che talvolta un elegante trascura con una negligenza, non priva di grazia. Portò dunque il piú bell’abito da caccia, il piú bel fucile, e il coltello piú fine entro la miglior guaina. Portò la piú svariata collezione di panciotti grigi, bianchi, neri, color scarabeo a riflessi d’oro a pagliucole, col bavero ripiegato, a bottoniera d’oro. Portò tutte le varietà di colletti e di cravatte in uso a quei giorni, due abiti di Buisson e la sua biancheria piú fina. Portò una graziosa toletta d’oro, dono di sua madre, e infine tanti nonnulla da damerino, tra cui un piccolo scrittoio bellissimo, avuto dalla piú amabile delle donne almeno per lui, da una gran dama che egli chiamava Annetta e che faceva ora col marito un noioso viaggio in Iscozia, vittima di certi sospetti ai quali pel momento aveva dovuto sacrificare la propria passione. Vi era insomma un carico completo di futilità parigine, dallo scudiscio che inizia un duello, alle splendide pistole cesellate che lo terminano. Suo padre gli aveva detto di viaggiare solo e modestamente; egli, perciò, se n’era venuto in coupé riservato con la diligenza, lieto di non guastare così una bella carrozza da viaggio da lui commessa per andare incontro alla sua Annetta, alla gran dama che… ecc., e che egli doveva raggiungere nel giugno prossimo alle acque di Baden. Charles contava di trovare molta gente da suo zio, di andare a caccia nei boschi e vivere la vita di campagna; non sapeva ch’egli fosse a Saumur, dove aveva chiesto di lui soltanto per farsi insegnare la via di Froidfond, e quando gli dissero che era in città, suppose che abitasse in un gran palazzo. Per presentarsi bene in casa dello zio, tanto a Saumur che a Froidfond, egli si era vestito da viaggio nel modo piú elegante, piú ricercato, piú adorabile, per usare la parola che in quei giorni riassumeva tutte le speciali perfezioni di una cosa e di un uomo. A Tours un barbiere gli aveva inanellato i bei capelli castani; egli aveva cambiato biancheria e s’era messa una cravatta di seta nera con un colletto tondo, che incorniciava bene il suo viso bianco e sorridente. Un soprabito da viaggio mezzo sbottonato lo stringeva alla vita e lasciava vedere un panciotto di cachemire aperto, sopra un altro bianco. L’orologio, abbandonato con negligenza in una tasca, era tenuto da una corta catena d’oro ferma a un occhiello; i calzoni grigi erano abbottonati ai fianchi e ricami in seta nera ne orlavano le cuciture” (pag. 37, 37). Terminata la festa, gli invitati se ne ritornano nelle proprie case. Nanon e madame Grandet si danno da fare per preparare la camera dell’ospite. Eugenie è decisamente interessata al nuovo arrivato che porta con sé modi e raffinatezze a lei sconosciuti, tanto da credere di vedere nel cugino una creatura scesa da una sfera celeste. “Se fosse stata interrogata da un abile confessore, gli avrebbe probabilmente confessato che non pensava né a sua madre né a Nanon, e ch’era in preda a un desiderio acuto di ispezionare la camera del cugino per occuparsi di lui…” (pag. 40).  Papà Grandet non ammette che le donne, mosse a compassione verso il nuovo arrivato, riscaldino la stanza dell’ospite, mettendo addirittura lo scaldino nel letto per togliere l’umidità o preparino per lui all’indomani qualcosa di speciale. Scaltro com’è, pensa solo a prendere il tempo necessario per togliersi dai piedi Charles.

 

EUGENIE E CHARLES: AMORE ROMANTICO E CALCOLO BORGHESE

 

Eugenie intanto, per la prima volta in vita sua sognava l’amore: “Mattiniera come tutte le ragazze di provincia, ella si levò di buon’ora, recitò la sua preghiera e prese a vestirsi, cosa che cominciava ad avere importanza per lei. Si pettinò i capelli castagni, ne avvolse le grosse trecce al disopra della nuca con minutissima cura, cercando che nessun capello sfuggisse dalla massa, e diede risalto in tal modo al timido candore del viso con una giusta armonia fra la semplicità degli accessori e la purezza delle linee. Mentre si lavava piú volte le mani nell’acqua fresca che le induriva la pelle arrossendola, si guardò le belle braccia rotonde, volle cercar la causa per cui il cugino aveva le mani così morbide e bianche, le unghie tanto bene affilate. Si mise calze nuove, le scarpe piú eleganti e, pungendola per la prima volta il desiderio di comparir graziosa, comprese d’un tratto quanta gioia possa aspettarsi da un abito ben fatto, che renda piú attraente. Terminata la toletta, udí suonare l’orologio della parrocchia, e si stupì di contare soltanto le sette. Per timore di non avere il tempo necessario per vestirsi bene, s’era levata troppo presto, ma, ignorando l’arte di accomodare dieci volte un ricciolo e di studiarne l’effetto, Eugenia incrociò semplicemente le braccia, sedette alla finestra, e si mise a contemplare il cortile, il giardino stretto e le alte terrazze che lo dominavano; una triste veduta nell’insieme, ma non priva delle misteriose bellezze proprie dei luoghi solitari o della natura incolta” (pag. 55, 56). Eugenie ha un cruccio: quello di non essere abbastanza bella per piacere al cugino, intanto il padre controlla Nanon che non adoperi burro o farina per fare focacce o altro, o consumare caffè o troppo zucchero; per quanto riguarda poi il pane si mangia quello che è avanzato la sera precedente. “Nessuno deve mettergli a sacco la casa per il nipote”. Intanto a Saumur tutti parlano del futuro genero di papà Grandet nel giovane venuto da Parigi. Anche Cruchot padre parla chiaro. Papà Grandet all’idea di dover firmare presso il notaio Cruchot il contratto di matrimonio tra Eugenie e Charles, risponde, tartagliando, com’ è il suo solito quando deve sostenere una conversazione lunga ed impegnativa: “Sentite, vecchio a…amico, sarò franco e vi dirò quel che vo…volete sapere. Preferirei, ve…vedete, gettare mia figlia nella Loira più…piuttosto che da…darla a suo cugino. Po…potete dirlo a tutti. Ma no, la…lasciate che la gente chiacchieri” (pag. 64,65). “Quella risposta fu per la giovanetta un colpo di fulmine. Le lontane speranze che cominciavano a spuntarle in cuore, crebbero d’un tratto, presero forma e caddero come un mazzo di fiori appassiti. Ieri si era attaccata a Carlo con tutti i vincoli di felicità che uniscono le anime, e oggi il dolore veniva a rafforzarli; poiché è nell’indole nobile della donna commuoversi meglio al rude aspetto della miseria che agli splendori della fortuna. Come mai il sentimento paterno aveva potuto estinguersi nell’anima di Grandet? Che delitto aveva commesso Carlo? Mistero! Già il suo amore nascente brancolava nell’ignoto. Tornò tutta tremante, e, quando giunse nella vecchia strada oscura già così lieta per lei, le sembrò triste, e vi respirò per la prima volta quella malinconia che tempi e cose vi avevano impresso. L’amore le aveva già insegnato le sue astuzie piú fini, e a qualche passo da casa ella precedette il padre, aspettandolo presso l’uscio dopo aver picchiato” (pag.64, 65).

I giorni passano. Charles conosce la triste verità: suo padre si è ucciso, lasciandolo solo e senza soldi e con tanti creditori. Papà Grandet glielo comunica in modo brusco, abituato com’è a trattare ben altri affari. Eugenie moltiplica le sue attenzioni verso il cugino, ma un bel giorno, entrata nella camera del cugino, “Gli occhi gli caddero su due lettere aperte. Le parole con cui una cominciava: Mia cara Annette…, le diedero il capogiro. Le venne il batticuore e parve che i piedi le si inchiodassero sul pavimento. La sua cara Annette! Dunque ama, è amato! Non c’è più speranza! Cosa le scrive? Questi pensieri le trapassarono la testa e il cuore. Le sembrava di leggere quelle parole dappertutto, persino sul pavimento, come in lettere di fuoco” (pag. 109). Eugenie legge tutta la lettera che Charles, in preda alla disperazione, ha scritto a questa donna lontana. Ma si commuove, quando legge che Charles ormai è ridotto alla miseria: “Povero Charles, ho fatto bene a leggere. Ho un po’ di denaro e glielo darò, pensò Eugenie. Si asciugò le lacrime e riprese a leggere” (pag. 111). Eugenie trova sempre il modo di stare con Charles, ovviamente all’insaputa di papà Grandet, ma spalleggiata dalla madre e da Nanon. Hanno un angolo del giardino che è il muto testimone dei loro discorsi. Anche il giovane parigino inizia a trovare bella la cugina e nell’amore un nuovo orizzonte che non aveva mai conosciuto prima: “Lo scambio di poche parole con la cugina accanto al pozzo, nel cortile muto e tetro, o le lunghe soste insieme nel giardinetto fino al tramonto, seduti su un banco ricoperto di musco e affaccendati a dirsi mille inezie, o raccolti nella calma monastica gravante all’intorno, rivelavano al giovane la santità dell’amore, poiché la sua gran dama, la bella Annetta, gliene aveva fatto conoscere solo le tempeste. Alla fiamma birichina, vanitosa e brillante di Parigi sottentrava ora in lui l’affetto puro e schietto; le abitudini di quella casa non gli sembravano piú ridicole come una volta. Fin dall’alba egli scendeva a parlare per alcuni minuti con Eugenia prima che il padre venisse a consegnar le provviste per il giorno, fuggendo lesto in giardino al suono dei passi di Grandet giù per la scala, e nella colpa lieve di quel colloquio mattinale, ignoto alla mamma e tollerato da Nanon, che fingeva di non accorgersene, sentirono entrambi il profumo del piacere proibito. Poi nel pomeriggio, quando lo zio si recava in campagna, egli sedeva tra la signora Grandet e la figlia, aiutandole a dipanare il filo e provando nuove dolcezze nel vederle al lavoro e nell’ascoltare il loro chiacchiericcio. Quella vita semplice, quasi monastica, che gli rivelava anime così nobili e solitarie gli giunse al cuore; aveva creduto quei costumi impossibili in Francia, avendoli ammessi soltanto in Germania, o tutt’al piú, fiabescamente, nei romanzi di Augusto Lafontaine. Ben presto egli scorse in Eugenia la personificazione della Margherita di Goethe, tranne il fallo, e a poco a poco le sue parole e i suoi sguardi ammaliarono la povera fanciulla, che si abbandonò fiduciosa e lieta all’onda dell’amore. Ella s’attaccava alla felicità improvvisa come il nuotatore afferra un ramo di salice per uscir dal fiume e posare sulla riva. Non di rado il pensiero del prossimo distacco piombava triste nella gioia delle ore fugaci, ogni piccolo incidente lo ricordava. Cosí, tre giorni prima della partenza, il giovane andò con lo zio al tribunale per sottoscrivere la rinunzia alla eredità paterna, e passò da mastro Cruchot per far redigere una procura a des Grassins ed un’altra all’amico incaricato della vendita dei mobili; poi si occupò del passaporto per l’estero e, quando infine ebbe da Parigi semplici abiti da lutto, vendette a un sarto di Saumur quanto di inutile aveva nel guardaroba; il che fu specialmente approvato da papà Grandet” (pag. 125,126).

Charles parte per le Indie, per Eugénie è un colpo terribile, anche se ormai non può farci nulla, così ha deciso suo papà Grandet. Eugénie regala a Charles tutti i suoi risparmi e questo contraccambia, donandole un prezioso cofanetto che viene “collocato nel solo cassetto del forziere, che potesse chiudersi a chiave, e dov’era la borsa vuota. Quando Eugenia si mise la chiave in seno, non ebbe il coraggio di proibire a Charles di deporre un bacio su quella custodia. – Di qui non uscirà, amico mio. – Ebbene, amor mio, vi sarà sempre anche il mio cuore. – Ah, Carlo, non sta bene, – ella osservò con lieve accento di rimprovero. – Non siamo forse sposi! – disse lui. – Ho la tua parola e tu accetta la mia. – Entrambi ripeterono due volte: – Tuo per sempre! – E mai piú schietta promessa fu scambiata sulla terra, poiché il candore della vergine aveva santificato in quell’istante l’affetto di Charles” (pag.131). I giorni passano inesorabili in casa Grandet. Papà Grandet viene a conoscenza della follia della figlia che ha regalato a Charles tutti i suoi risparmi, per questo la chiude in camera sua e la lascia a pane ed acqua. Morta la moglie nell’ottobre del 1822, su consiglio del notaio Cruchot, papà Grandet convince la figlia a firmare una dichiarazione con la quale la ragazza rinuncia all’eredità della madre: “Bisognerebbe firmare quest’atto con il quale rinunciate all’eredità di vostra madre e lasciate a vostro padre l’usufrutto di tutti i beni indivisi fra voi. Egli ve ne garantisce la nuda proprietà” (pag. 166). Eugénie firma. Il papà si impegna a passarle una rendita di cento franchi al mese che non le dà mai, in cambio le propone di prendersi un terzo dei gioielli che si era fatti dare dal nipote prima che partisse: “Ecco, piccina, le disse in tono ironico, ti andrebbe bene questi al posto dei tuoi milleduecento franchi? A tanto ammontava quello che papà Grandet non le aveva mai dato dalla morte della madre. Davvero, padre mio, me li date? Te ne darò altrettanti l’anno prossimo; glieli gettò nel grembiule. Così in poco tempo avrai tutti i suoi ciondoli. E si fregò le mani, contento di poter speculare sui sentimenti della figlia” (pag. 167). Ma anche per papà Grandet, ormai ottantaduenne, arriva il progressivo decadimento fisico, anche se rimane avaro come lo è sempre stato: “All’idea di rimaner fra breve sola nel mondo, Eugenia sentì piú forte l’ultimo vincolo di affetto che la legava al padre, e fu sublime di abnegazione e di cure verso di lui, già mezzo rimbambito, ma sempre invasato dal demone dell’avarizia. Fin dal mattino si faceva trascinare sulla sedia presso il caminetto della sua camera di fronte alla porta dello studio, certo pieno d’oro, e vi restava immobile, fissando con ansia alternativamente quelli che lo visitavano e il robusto uscio foderato di ferro. Voleva essere informato delle cause del menomo rumore e, con grande meraviglia del notaio, riusciva a percepire gli sbadigli del cane giù nel cortile. Da quella stupidità apparente si destava nei giorni e nelle ore in cui si dovevano riscuotere i fitti, chiudere i conti con i campagnoli e rilasciare le ricevute. Allora faceva spingere il seggiolone a rotelle fin presso l’uscio dello studio, che la figliuola apriva, e rimaneva lí ad assistere finché ella avesse collocato i sacchetti del denaro gli uni sugli altri e tirato il chiavistello; poi riprendeva tacito il solito posto, con la preziosa chiave in una tasca del panciotto, ove di quando in quando la toccava. Il notaio, suo vecchio amico, sapeva bene che, se Charles Grandet non tornava, la ricca erede avrebbe sposato il suo nipote, e però non lesinava cure e servigi. Veniva ogni giorno a prendere gli ordini dell’infermo, si recava per suo incarico a Froidfond, sulle terre, sui prati, sulle vigne, vendeva i raccolti, ne ritirava oro e argento che si univa in segreto a quello già accumulato. Alla fine giunsero i giorni estremi in cui la forte fibra del vignaiolo si trovò alle prese con la dissoluzione; volle rimaner seduto accanto al fuoco, innanzi alla porta dello studio. Invano si cercava di avvolgerlo nelle coperte; respingeva tutto dicendo alla domestica: – Chiudi, chiudi là, che non mi rubino. – Gli ultimi lampi di vita parevano concentrati negli occhi, e appena poteva aprirli era un rapido volgerli angosciosi verso la stanza che chiudeva i suoi tesori, mentre con voce tremante d’un panico interno, ripeteva alla figliuola: – Vi sono? Vi sono? – Sì, babbo. – Bada all’oro! Mettimi dell’oro davanti! – Eugenia gli disponeva sul tavolino dei luigi, e per ore intere egli li fissava, simile a un bambino che cominci a distinguere i primi oggetti; un sorriso triste gli sfuggiva. – Come mi riscalda! – esclamava talvolta col viso illuminato da un’aria di beatitudine. Quando comparve il curato della parrocchia per amministrargli i sacramenti, gli occhi àtoni fino allora si rianimarono alla vista della croce, dei candelieri e della pila d’argento. Non appena il sacerdote gli avvicinò alle labbra il crocefisso d’argento dorato, tentò un orribile gesto per afferrarlo, e fu l’ultimo suo sforzo. Non riuscendo piú a vedere Eugenia, che pure gli stava inginocchiata dinanzi e gli bagnava di lagrime la mano gelida, la chiamò. – Beneditemi, babbo! – disse ella. – Abbi cura di tutto e me ne darai conto laggiù! – rispose il padre, dimostrando con l’ultima sua parola che il cristianesimo è la religione degli avari” (pag. 169, 170).

Nanon intanto, in “meno di un mese passò dalla condizione di ragazza a quella di donna, sposando Antoine Cornoiller, che fu nominato sorvegliante generale dei terreni e delle proprietà di Eugénie Grandet. Madame Cornoiller aveva un gran vantaggio sulle sue coetanee: a cinquantanove anni ne dimostrava non più di quaranta” (pag. 171). Eugénie rimane sola nella grande casa ed aspetta invano il ritorno di Charles, che rientrato in Francia le invia una lettera: “Mia cara cugina, sono sicuro che vi sarà grato di conoscere il buon esito delle mie imprese, e tengo a dichiararvi che mi avete portato fortuna. Ho seguito i consigli dello zio, la cui morte e quella della zia ho appreso da des Grassins, ed eccomi ricco di nuovo. La morte dei genitori è cosa naturale ed è naturale che noi succediamo loro, perché so per prova come nulla al tempo resista. Sì, mia cara cugina, sventuratamente per me è passato il tempo delle illusioni. Che volete? Viaggiando per vari paesi ho molto riflettuto sulla vita, e da fanciullo che ero nel partire son diventato uomo al ritorno; oggi penso a tante cose cui prima non pensavo. Voi, cugina, siete libera ed io pure, e nulla parrebbe impedire che si realizzassero i nostri piccoli disegni; ma la lealtà m’impone di esporvi lo stato preciso delle cose mie. Non ho dimenticato i miei impegni, e nelle lunghe peregrinazioni ho avuto sempre in mente il piccolo banco di legno… Eugenia fu in piedi di scatto, come se si fosse trovata sopra carboni accesi, e andò a sedere su un gradino del cortile. …il piccolo banco di legno ove ci siam giurati amore eterno, il corridoio, la sala grigia, la mia camera in soffitta e la notte in cui mi facilitaste l’avvenire colla delicata vostra offerta. Sì, a questi ricordi ho attinto spesso il coraggio, ripetendomi che nell’ora convenuta il vostro pensiero a me si rivolgeva come il mio a voi. Vi è mai capitato di contemplare le nuvole alle nove? Sì, è vero? Non voglio perciò tradire un’amicizia sacra e tanto meno ingannarvi. Si tratta ora per me d’un legame che soddisfa a tutte le idee che mi son formato sul matrimonio, e faccio astrazione dall’amore, che nel matrimonio è una chimera. Ho imparato per esperienza che bisogna piegarsi alle leggi sociali e riunire, nel prender moglie, tutte le possibili convenienze. Ora, esiste già fra noi una differenza di età, che forse avrebbe maggior peso sull’avvenire vostro che sul mio, e tralascio di accennare all’educazione e alle abitudini vostre che non si confanno colla vita che si conduce a Parigi, né con i miei disegni ulteriori. Ho intenzione di metter su casa in grande e ricevere molta gente; mentre se mal non ricordo a voi piace una dolce tranquillità… Sarò ancora più franco, scegliendovi arbitra della mia posizione e dandovi pieno diritto di conoscerla e giudicarla. Possiedo oggi ottantamila franchi di rendita, e ciò mi permette di contrarre matrimonio con l’erede della famiglia d’Aubrion, una giovane di diciannove anni che mi porta in dote il nome, il titolo, il posto di gentiluomo di camera onorario di Sua Maestà e un grado sociale assai elevato. Vi confesso, cugina mia, che non nutro il benché minimo affetto per la signorina d’Aubrion; ma sposandola io assicuro ai miei figli una posizione sociale i cui vantaggi saranno un giorno immensi. Le idee monarchiche si ridestano su larga base, e fra pochi anni mio figlio, marchese d’Aubrion, con un maggiorasco di quarantamila lire di rendita potrà aspirare alle piú alte cariche dello Stato. È nostro dovere sacrificarci per i figli. Vedete, cugina, com’io vi espongo tutto con la massima schiettezza. Può darsi, d’altra parte, che voi abbiate dimenticato certe fanciullaggini dopo sette anni di lontananza; ma a me rimangono vive in mente la bontà vostra e le mie promesse; ricordo ogni cosa, perfino le date piú insignificanti a cui un altro meno onesto e scrupoloso non penserebbe affatto. Dicendovi che contraggo un matrimonio d’interesse senza dimenticare l’amore giovanile, non mi abbandono forse alla vostra volontà? Non è come rendervi padrona della mia sorte, e dichiararvi che se desiderate la mia rinunzia a qualsiasi ambizione sociale, saprò anche contentarmi della felicità semplice e pura, di cui mi deste prove sì commoventi?”( pag. 182,183,184).

Rimasta sola, Eugénie valuta anche la possibilità di chiudersi in convento, ma viene sconsigliata dal parroco del paese, che parente dei Cruchot, spalleggiava per il matrimonio di Eugénie con il presidente de Bonfons, legato ai Cruchot. Eugénie si arrende, lo sposa per pura convenienza. “Il presidente de Bonfons, che aveva soppresso il patrimonio Cruchot, non giunse a vedere avverati i suoi sogni ambiziosi, quello di venire in possesso di tutta la ricchezza di Eugénie. Egli morì una settimana dopo la sua elezione a deputato di Saumur” (pag. 193,194). Eugénie, “Forte di quel particolare intuito che il solitario acquista ed affina con la meditazione continua e col modo squisito di considerare le cose che si svolgono nel proprio ambiente; avvezza dalla sventura e dall’ultima esperienza a indovinar tutto, Eugenia sapeva benissimo come il presidente desiderasse la morte di lei per essere in possesso delle immense sue ricchezze, cui s’erano aggiunti i patrimoni di suo zio notaio e di suo zio abate, che il Signore aveva voluto chiamare a sé. E la Provvidenza pensò a vendicarla dei disegni e dell’apatia infame di uno sposo che rispettava, quale precipua garanzia, la passione disperata di lei. Mettere al mondo un bambino non era forse come troncar le speranze dell’egoismo, le gioie dell’ambizione carezzate da quell’uomo? Dio largì quindi cumuli d’oro alla mesta reclusa, alla quale dell’oro nulla importava, e che tendeva al cielo, pia, buona, instancabile soccorritrice dei miseri, in segreto. La signora de Bonfons rimase vedova a trentasei anni ricca di ottocentomila lire di rendita, bella ancora ma come lo è una donna sulla quarantina. Nel viso bianco e placido, nella voce mite e soave, nelle semplici maniere, mostrava la nobile dignità del dolore, la purezza di chi non ha macchiato l’anima a contatto del mondo. Malgrado la enorme rendita, ella visse come già aveva vissuto la povera Eugenia Grandet, facendo accendere il fuoco in camera all’epoca stessa in cui una volta lo permetteva suo padre e curando che fosse spento pure nei medesimi giorni. Vestiva come un giorno sua madre, e la casa di Saumur, priva di sole e di calore, immersa in una triste ombra continua, poteva considerarsi l’immagine della sua vita. Accumulava sempre le rendite, ma per usarne in pie istituzioni caritatevoli, in un ospizio per i vecchi, nelle scuole cristiane per i fanciulli e in una ricca biblioteca pubblica. Anche le chiese di Saumur dovettero a lei tante bellezze; quindi un religioso rispetto circondava la signora de Bonfons, che per scherzo chiamavano ancora signorina. I calcoli dell’interesse umano tuttavia giungevano a pesare fin sul nobile cuore aperto ai piú dolci sentimenti, e il denaro comunicava le tinte sue scialbe a quella vita celeste, insinuando la diffidenza dell’affetto a chi d’affetto era assetata. – Tu sola mi vuoi bene sinceramente – ella diceva a Nanon” (pag. 195). Quella di Eugénie, conclude H. De Balzac è “la storia di una donna che sta nel mondo e non gli appartiene, fatta per essere sposa e madre magnifica e rimasta senza figli e senza famiglia. A Saumur, in molti parlano di un suo nuovo matrimonio con il marchese di Froidfond, ma nessuno ha abbastanza intelligenza per capire la corruzione del mondo” (pag. 196).

 

Raimondo Giustozzi

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