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Cultura. “Madame Bovary”, di G. Flaubert Amore romantico e matrimonio borghese. L’amore dentro e fuori il matrimonio: l’adulterio.

Gustave Flaubert - Internet

“Madame Bovary”, di G. Flaubert

Trama: Un ufficiale sanitario, Charles Bovary, dopo aver studiato medicina durante la giovinezza, sposa una donna più grande di lui, che però muore prematuramente. Rimasto vedovo, si risposa con una bella ragazza di campagna, Emma Rouault, impregnata di desideri di lusso e romanticherie, vagheggiamenti che le provengono dalla lettura di romanzi. Charles viene da famiglia benestante ed è un uomo perbene, ma anche noioso e maldestro. Emma crede che la nascita di un maschio “curerà” il loro matrimonio. Quando rimane incinta, e alla fine partorisce una figlia, si convince che la propria vita sia finita. Charles decide che per Emma ci vuole un cambio di scena, e si trasferisce dal villaggio di Tostes (oggi Tôtes) a un altro villaggio altrettanto deprimente, Yonville (tradizionalmente identificato con la cittadina di Ry). Emma accetta il corteggiamento di una delle prime persone che incontra, un giovane studente di giurisprudenza, Léon Dupuis, che sembra condividere con lei il gusto per le “cose più belle della vita”. Quando Léon se ne va per motivi di studio a Parigi, Emma intraprende una relazione con un ricco proprietario terriero, Rodolphe Boulanger. Confusa dai suoi fantasiosi vagheggiamenti romantici, Emma escogita un piano per fuggire con lui. Rodolphe, anche amandola, non è pronto ad abbandonare tutto per una delle sue amanti. Rompe quindi l’accordo la sera precedente a quella dell’architettata fuga, mediante una lettera sul fondo di un cesto di albicocche. Lo shock è tale che Emma si ammala gravemente e per qualche tempo si rifugia nella religione. Una sera, a Rouen, Emma e Charles assistono all’opera, ed Emma incontra di nuovo Léon. I due iniziano una relazione: Emma si reca in città ogni settimana per incontrarlo, mentre Charles crede che lei prenda lezioni di pianoforte. Al contempo, Emma sta spendendo esorbitanti somme di denaro. I suoi debiti intanto raggiungono valori esplosivi e la gente inizia a sospettare l’adulterio. Dopo che i suoi amanti le hanno rifiutato il denaro per pagare il debito, Emma ingoia dell’arsenico e muore, in modo penoso e lento. Il leale Charles è sconvolto, tanto più che ritrova le lettere che Rodolphe le scriveva. Dopo poco tempo muore a sua volta e la figlia della coppia rimane orfana.

Chiavi di lettura del romanzo:

 

  • Personaggi
  • L’educazione di Charles Bovary e le aspettative per il suo futuro.
  • Amore romantico e matrimonio borghese.
  • Charles, Emma e la suocera.
  • La “Rondine”, la carrozza che lega il piccolo paese di Yonville a Rouen.

 

Madame Bovary, a volte tradotto in italiano con il titolo La signora Bovary, del 1856 è il primo romanzo di Gustave Flaubert. Appena pubblicato, fu messo sotto inchiesta per “oltraggio alla morale”. Dopo l’assoluzione, il 7 febbraio 1857, divenne un bestseller, sotto forma di libro nell’aprile del medesimo anno. È oggi considerato uno dei primi esempi di romanzo realista. Una delle prime edizioni fu illustrata dal pittore Charles Léandre. Flaubert si ispirò alle vicende realmente accadute di una giovane donna di provincia, Delphine Delamare, del cui suicidio si parlò in un giornale locale nel 1848.

 

Personaggi: Emma Bovary. Emma è la protagonista del romanzo. Sogna di consacrarsi all’agio, alla passione e all’alta società. Proprio il contrasto fra questi ideali romantici, maturati attraverso le letture dell’adolescenza, e la realtà asfissiante del suo paese, costituisce il filo conduttore di buona parte del romanzo, il fattore che indurrà Emma a due relazioni extra-coniugali nonché a contrarre quella mole insormontabile di debiti che alla fine causerà il suicidio della donna. Emma è una donna sognatrice i cui desideri non possono essere soddisfatti da un uomo semplice come Charles.Flaubert tratta la protagonista in modo ambivalente. Ridicolizza le sue tendenze romantiche e le disapprova non solo come impraticabili, ma alla fine anche pericolose. Allo stesso tempo, tuttavia, Flaubert non sembra mai porre alcun biasimo su Emma di per sé, quanto invece sui romanzi tardo romantici, stucchevoli, che hanno avuto un influsso negativo sulle sue fantasie, così come su tante donne borghesi contemporanee di Flaubert. Emma stessa, inconsapevole di ciò, si chiede con sgomento perché sia incapace, di essere felice della propria vita. Inoltre, nonostante la visione critica di Emma, Flaubert è altrettanto critico nei ritratti dei borghesi di provincia che circondano Emma opprimendola.

Charles Bovary.Il marito di Emma, Charles Bovary, è un uomo molto semplice e ordinario. È un ufficiale sanitario per professione, ma anche in ciò, come in ogni altro campo, non è molto abile. In effetti, non è abbastanza qualificato da essere uno specialista, ma è piuttosto un officier de santé, cioè un “ufficiale di sanità“. Quando viene convinto a tentare una difficoltosa operazionechirurgica sul piede storto di un paziente, il risultato è disastroso, ed il malcapitato dovrà farsi amputare la gamba da un medico migliore. Questo suo fallimento non farà che aumentare il disprezzo che Emma nutre nei suoi confronti.Charles adora sua moglie e la trova innocente, malgrado l’ovvia dimostrazione del contrario. Non sospetta in alcun modo le sue relazioni e le concede il pieno controllo dei propri averi, in tal modo si procura la bancarotta con le proprie mani. A dispetto della completa devozione di Charles ad Emma, quest’ultima lo detesta, giudicandolo il perfetto esempio di tutto ciò che è noioso e comune. Quando Charles scopre gli inganni di Emma – dopo la morte di quest’ultima – ne è completamente devastato e muore di lì a poco. È interessante notare come la morte della moglie coincida, nel romanzo, con un’improvvisa rivalutazione della figura di Charles stesso che, da persona priva di spessore, si trasformerà nell’unico personaggio veramente positivo e meritevole di compassione di tutta la storia.

Monsieur Homais. Monsieur Homais è il farmacista della cittadina. Si ritiene un brillante, moderno uomo di mondo, benché non abbia mai oltrepassato Rouen, e cerca sempre occasioni per dire il suo punto di vista. Disprezza la borghesia, pur appartenendovi e il clero, e per questo motivo si trova sempre in contrasto con il prete del paese. Fervente sostenitore di ideali positivisti e del progresso, si dà un gran da fare per promuovere se stesso (è tanto geloso quanto fiero delle sue “alchimie”) e scrive di continuo articoli scientifici per la gazzetta del capoluogo; non manca mai di intavolare discussioni su qualsiasi argomento, specialmente la sera all’osteria-albergo di Yonville. È egocentrico, ma ciò non gli impedisce di considerarsi sempre e comunque un “uomo qualunque” di classe sociale media. Il suo desiderio di ottenere la Legion d’onore si fa ossessivo, ma alla fine vi riesce. L’arsenico che assume Emma proviene proprio dalla sua farmacia: il signor Homais fornisce dunque prova di non conservare con la dovuta attenzione il potente veleno. Rappresenta l’uomo borghese di provincia, limitato e cieco di fronte ai propri difetti.

Monsieur LheureuxUn mercante scaltro e manipolatore che convince continuamente Emma a comprare beni a credito e contrarrei presso di lui. Lheureux raggira Emma magistralmente e alla fine la spinge così in fondo nel baratro dei debiti da determinare la sua rovina finanziaria ed il conseguente suicidio.

Abate Bournisien. Nel romanzo borghese della seconda metà dell’Ottocento, la figura del prete è associata a quella del farmacista, del medico, dell’avvocato, del notaio, dell’esattore. Ha un suo posto specifico nella scala sociale, ruolo consacrato dalle convenzioni che vengono da lontano. Nel romanzo“Madame Bovary”, di Gustave Flaubert, l’abate Bournisien frequenta quotidianamente la casa di Charles Bovary, si intrattiene con lui e con il farmacista Homais, amico di famiglia. Beve sidro a volontà e partecipa a discussioni vacue, intavolate provocatoriamente dal farmacista, alle quali dà di volta in volta risposte vaghe su questioni di lana caprina, fondate sul vuoto e riempite dal nulla. E’ un brav’uomo ma nulla più. Non sa capire quale sia il dramma esistenziale che Emma Bovary sta vivendo. Quando lei va a trovarlo in parrocchia per confidarsi con lui sulle relazioni extraconiugali o comunque sulle proprie difficoltà, lui non ha altro da dirle che deve preparare i bambini al catechismo e non può perdere tempo con lei.

L’educazione di Charles Bovary e le aspettative per il suo futuro.

Il romanzo “Madame Bovary” non è aperto dalla protagonista Emma, ma da Charles, suo futuro marito, così come il romanzo non sarà chiuso da Emma ma da quanti l’hanno conosciuta in vita ed a lei sopravvivranno. I primi due capitoli contengono due grandi sequenze narrative: la prima corrisponde all’entrata in scena di Charles nel collegio di Rouen, sequenza dominata dal punto di vista dei suoi compagni di classe, la seconda sequenza corrisponde alla “Storia di Charles”, dalla presentazione dei suoi genitori al suo primo matrimonio, dominata dal punto di vista del narratore. “Eravamo in aula di studio, ed entrò il rettore, dietro gli venivano un nuovo ancora in panni borghesi e un bidello che trascinava un banco. Quelli che dormivano si svegliarono, ci tirammo su tutti, con l’aria di esser stati sorpresi nel fervore dell’attività. Il rettore fece segno che ci rimettessimo a sedere; poi si rivolse al prefetto: “Signor Roger”, gli disse a mezza voce, “vi affido questo allievo, entra in quinta. Se il suo profitto e la sua condotta saranno buoni, lo passeremo tra i grandi come vorrebbe la sua età. Se ne restava nell’angolo, dietro la porta, lo si vedeva appena, il nuovo: un ragazzo di campagna, avrà avuto un quindici anni, era sicuramente più alto di tutti noi. Aveva i capelli tagliati netti a frangia sulla fronte come un chierico di paese, un’espressione mite e piuttosto impacciata. Sebbene non fosse poi largo di spalle, la giacca di panno verde con i bottoni neri doveva stringerlo abbastanza al giro delle maniche; attraverso l’apertura dei paramani si mettevano in mostra certi polsi rossi per l’abitudine di stare scoperti. Le sue gambe, avviluppate in calze turchine, venivano fuori da pantaloni giallastri molto tesi dalle bretelle. Ai piedi portava scarponi chiodati e mal lucidati. Cominciammo a ripetere le lezioni. Ascoltava, tutt’orecchi, come se fosse in chiesa, alla predica, non s’azzardava neppure a incrociare le cosce o ad appoggiarsi sul gomito….  «In piedi» disse il professore. Lui si alzò, il berretto cadde. Tutta la classe rise. Lui si chinò a raccattare il copricapo. Con il gomito, un vicino glielo ributtò giù. Lui tornò a raccattarlo. «E allora liberati dell’elmo» disse il professore che era uomo di spirito. La fragorosa risata dell’intera classe sconcertò il povero ragazzo: non sapeva più se dovesse tenere il berretto in mano, lasciarlo per terra o metterselo in testa. Così si sedette di nuovo e di nuovo posò il copricapo sui ginocchi.  «In piedi» disse il professore «il tuo nome?» Balbettò qualcosa di incomprensibile.  «Ripeti» Lo stesso balbettio di sillabe si fece udire, e fu sopraffatto dagli schiamazzi della classe.  «Più forte!» gridò l’insegnante, «più forte!».  Allora, con estrema decisione, il nuovo spalancò una bocca smisurata e a pieni polmoni, quasi invocasse qualcuno, lanciò una parola del genere: «Charbovari!» Fu tutto un grande strepito, salì in crescendo, con acuti scoppi di voci (si urlava, si abbaiava, si trepestava, si ripeteva perdutamente:  «Charbovari! Charbovari!» poi si frantumò in note isolate, placandosi a stento, per riprendere a un tratto in una fila di banchi, ove scoppiettava ancora, come un petardo non spento, qualche risatina soffocata… Tornò la calma. Le teste si curvarono sui quaderni, e per due ore il nuovo mantenne una condotta esemplare, sebbene ogni tanto qualche pallottola di carta, lanciata in punta di penna, gli approdasse in faccia. Lui si passava una mano sulla parte colpita e restava immobile, a occhi bassi…  La sera, in aula di studio, tirò fuori dal banco le sue mezze maniche,  mise in ordine le sue proprietà, rigò scrupolosamente i suoi fogli, lo vedemmo lavorare coscienziosamente, cercando ogni parola sul dizionario, concentrato sino all’affanno. Senza dubbio fu grazie a tale ostentazione di buona volontà che evitò di essere condannato alla classe inferiore: infatti, anche se sapeva abbastanza le regole, era sprovvisto di qualsiasi eleganza di stile. Era stato iniziato al latino dal curato del suo paese; per fare economie i suoi genitori lo avevano mandato in collegio il più tardi possibile. Suo padre, Charles-Denis-Bartholomé Bovary, già aiuto chirurgo militare, compromesso verso il 1812 in certi imbrogli amministrativi al distretto e costretto a dar le dimissioni, aveva approfittato della propria bella presenza per arraffare al volo una dote di sessantamila franchi nella persona della figlia d’un merciaio pronta ad accendersi d’amore….Era effettivamente un uomo affascinante: naturalmente dotato di un portamento fiero, abituato a far risuonare forte gli speroni, fornito di favoriti tanto sviluppati da congiungersi ai mustacchi, ornato di anelli e drappeggiato di colori vivaci, aveva la severa apparenza di un guerriero ela volgare esuberanza di un commesso viaggiatore. Una volta sposato, visse per un due o tre anni alle spalle della moglie, mangiando bene, alzandosi tardi, fumando in grandi pipe di porcellana, rincasando la sera solo al termine dell’ultimo spettacolo, solo dopo aver vagato di caffè in caffè. Il suocero si tolse di mezzo, ma l’eredità fu misera: lui si indignò, si lanciò nell’industria, perse un poco di soldi in speculazioni sbagliate, alla fine si ritirò in campagna con il proposito di valorizzare la terra. Ma, dato che s’intendeva di colture come di cotonine, dato che preferiva cavalcare i suoi cavalli al farli lavorare, dato che si beveva il suo sidro in bottiglia invece di venderlo in barili, dato che si mangiava i più bei pennuti del suo cortile e usava il lardo dei suoi maiali per ungersi gli stivali da caccia, si rese conto ben presto che gli conveniva rinunciare una volta per tutte a ogni tipo d’impresa. … la moglie lo aveva amato pazzamente: per amore, appunto, aveva esagerato in servilismo, e questo aveva contribuito a staccarlo ancor più da lei. Allegra, espansiva, sentimentale da ragazza, era diventata con l’età (al modo del vino che esposto all’aria si inasprisce in aceto) difficile,  sgradevole, nervosa. Aveva tanto patito senza lamentarsi, quando le era toccato vederlo correre dietro tutte le gonnelle del circondario e rincasare la sera dal giro dei più sordidi luoghi, inebetito e maleodorante di sbornia! Poi l’orgoglio si era ribellato: allora lei si era ammutolita, aveva ingoiato la sua ira in un silenzioso stoicismo che avrebbe conservato sino alla morte. Era sempre in movimento, era sempre affaccendata: andava dagli avvocati, dal pretore, teneva dietro alla scadenza delle cambiali, estorceva dilazioni, e in casa stirava, cuciva, lavava, sorvegliava i dipendenti, badava ai conti, mentre, senza preoccuparsi minimamente di nulla, il suo signore, in preda  a un’eterna, torbida sonnolenza da cui si scuoteva solo per rivolgerle male parole, se ne restava a fumare presso il caminetto, sputando nella cenere…Quando ebbero un figlio, fu necessario metterlo a balia. Quando rientrò in casa, il marmocchio fu viziato come un principe. Sua madre lo rimpinzava di marmellate, suo padre lo lasciava scorrazzare scalzo, e, per fare un poco di filosofia, dichiarava che il bambino avrebbe potuto andarsene in giro tutto nudo come i cuccioli delle bestie. In disaccordo con la moglie, l’uomo possedeva un ideale virile dell’infanzia secondo il quale cercava di formare il figlio, convinto che una dura educazione, alla spartana, gli avrebbe garantito un fisico robusto. Non ammetteva, quindi, che il bambino avesse il letto riscaldato, gli insegnava a mandar giù gran bicchieri di rum e a lanciare insulti contro le processioni. Ma, di natura dolce, il piccolo non rispondeva molto agli sforzi paterni. E sua madre se lo trascinava sempre dietro, gli ritagliava pupazzi di carta, gli raccontava favole, si sfogava con lui in certi monologhi senza fine, zeppi di malinconiche ilarità e di leziose civetterie. Nell’isolamento della sua esistenza, la donna riversava su quel tenero capo tutte le sue vanità deluse, frustrate. Sognava alte cariche per lui e già se lo vedeva grande e grosso, bello, brillante, un’autorità del genio civile o della magistratura. Gli insegnò a leggere e lo spinse persino, servendosi del suo vecchio pianoforte, a imparare due o tre romanzette. Ma il signor Bovary, che non nutriva certo un debole per la cultura, reagiva a ogni iniziativa del genere, dicendo che non valeva la pena: avrebbero mai potuto disporre del denaro necessario per mantenere il figlio alle scuole statali, per acquistargli un qualche posto o un negozio? D’altra parte, insisteva l’uomo, con un minimo di faccia tosta uno sa sempre farsi strada a questo mondo. La donna si mordeva le labbra, e il bambino vagabondava per il villaggio. Seguiva i contadini nei campi, e a colpi di zolle dava la caccia ai corvi svolazzanti. Mangiava le more lungo i fossi, sorvegliava con un vincastro i tacchini, rastrellava il fieno tagliato, correva nelle macchie, nelle giornate di pioggia giocava alle piastrelle sotto i portici della chiesa, e, quando arrivavano le grandi feste, supplicava lo scaccino di lasciargli suonare le campane, per appendersi a corpo morto alla gran fune e sentirsi portar su, tutto in un volo. Così crebbe sano al pari di una quercia. Ebbe mani forti, un bel colorito. A dodici anni sua madre l’ebbe vinta, fu deciso di farlo studiare. L’incarico della sua istruzione fu affidato al curato. Ma le lezioni erano talmente brevi e talmente poco seguite che non potevano servire molto. Venivano impartite in sacrestia nei momenti in cui non c’era nulla di meglio da fare, in fretta e furia, tra un battesimo e un funerale. Oppure il curato mandava a chiamare il suo allievo, dopo l’Angelus, quando non doveva uscire. I due salivano nella camera del prete, vi si installavano: i moscerini e le farfalle notturne volteggiavano intorno alla candela. Faceva caldo lì dentro, il ragazzo s’addormentava e il brav’uomo, assopendosi a sua volta con le mani sul ventre, non tardava a russare, a bocca spalancata. Altri giorni, tornando dall’aver somministrato il viatico a qualche infermo del circondario, il curato vedeva Charles ruzzare per i campi; allora lo chiamava, gli faceva la predica per un quarto d’ora e approfittava della circostanza per risentirgli la coniugazione di qualche verbo sotto un albero. A interromperli sopravveniva la pioggia o un conoscente di passaggio. A ogni modo, il curato era sempre contento dell’allievo, anzi affermava che il giovanotto possedeva una gran memoria. Charles, insomma, non poteva fermarsi a quel punto. Sua madre sostenne tale opinione con la maggiore energia. Per pudore, o piuttosto per stanchezza, suo padre cedette senza resistere. Si aspettò l’anno successivo, comunque, Charles doveva fare la sua prima comunione. Passarono altri sei mesi; infine il ragazzo venne inviato al collegio di Rouen. Ve lo condusse suo padre in persona, verso gli ultimi d’ottobre, all’epoca della fiera di San Romano. Adesso nessuno di noi riuscirebbe a ricordarsene con un minimo d’esattezza. Era un ragazzo piuttosto tranquillo: giocava durante la ricreazione e si applicava durante lo studio, in classe stava attento, in dormitorio faceva tutto un sonno, in refettorio aveva sempre appetito. I suoi lo avevano raccomandato a un grossista in chincaglierie della rue Ganterie; costui lo portava a spasso una volta al mese, la domenica, quando la bottega era chiusa; lo lasciava andare in giro per il porto a guardare le navi e lo riportava in collegio alle sette, prima della cena. Ogni giovedì sera Charles scriveva una lunga lettera a sua madre, adoperando l’inchiostro rosso e tre ostie per sigillare; poi ripassava gli appunti di storia, oppure leggeva un vecchio volume dell’Anacarsi dimenticato nell’aula. Durante le passeggiate, parlava con il domestico, pure lui di campagna. A forza d’applicarsi, riuscì a mantenersi nei posti di rnezzo: una volta arrivò addirittura a meritare una menzione di primo grado in storia naturale. Ma, finita la terza, i suoi lo ritirarono dal collegio per fargli studiare medicina: erano convinti che ce l’avrebbe fatta da solo, a conseguire il diploma. Sua madre gli trovò una camera al quarto piano, all’Eau-de Robec, presso un conoscente che faceva il tintore. Trattò le condizioni per la pensione, cercò i mobili necessari, un tavolo e due sedie, fece trasportare dal villaggio un vecchio letto di ciliegio, e acquistò inoltre una stufetta di ghisa” (G. Flaubert, Madame Bovary, pag. 6- 10,  Principato, Milano 1994). Charles Bovary, dopo un primo esame andato male per avere il diploma di ufficiale sanitario, finalmente raggiunge il suo scopo. L’evento viene festeggiato. La madre, non contenta di aver portato suo figlio a questo traguardo gli trova anche il posto: a Tostes, dove c’era un vecchio ufficiale di cui la mamma di Charles aspettava solo la morte. Subentrato al vecchio ufficiale, la madre si occupa anche di trovargli una moglie e gliela trovò in una vedova “di un usciere di Dieppe, la donna aveva quarantacinque anni e milleduecento franchi di rendita. Sebbene fosse brutta, magra come un palo e foruncolosa come una primavera, la signora Heloise, vedova Dubuc aveva solo l’imbarazzo della scelta tra un partito e l’altro. Per coronare i suoi sogni, la signora Bovary fu costretta a soppiantare la concorrenza, se la cavò molto abilmente persino con gli intrighi di un salumaio sostenuto dai preti (pag. 11).

Charles Bovary conosce casualmente Emma quando è già sposato con Heloise. Il papà di Emma, il signor Rouault Bertaux, ricorre all’ufficiale sanitario per farsi mettere a posto una gamba rotta. Charles si reca più volte nella sua casa e questo provoca la gelosia di Heloise: I primi tempi in cui Charles frequentava i Bertaux, la moglie non mancava di chiedere informazioni sullo stato del paziente, aveva addirittura scelto per il signor Rouault una bella pagina bianca sul libro che teneva a partita doppia. Ma, quando apprese che c’era di mezzo anche una figlia, cercò di saperne di più, e seppe che la signorina Rouault, allevata in convento, presso le Orsoline, aveva ricevuto quella che viene definita una buona educazione, aveva studiato insomma danza, geografia, disegno, ricamo e persino un poco di pianoforte. Fu il colmo! «Ecco la spiegazione» si diceva «ecco perchè ha sempre la faccia così allegra quando va a farle visita, ecco perchè si mette il panciotto

nuovo a rischio di rovinarlo con la pioggia! Ah, questa donna! Questa donna!…» (pag. 17- 18- 19). Ma Heloise muore e questo affretta la decisione di Charles di sposarsi con Emma Bertaux.

Madame Bovary copertina del romanzo

AMORE ROMANTICO E MATRIMONIO BORGHESE

Emma Bertaux diventa la moglie di Charles Bovary, quando Charles rimane vedovo di Heloise. Rouault, papà di Emma, quando Charles le chiede la mano di sua figlia, non aspettava altro: “Non gli sarebbe, infatti, dispiaciuto che lo liberassero della figlia, la quale in casa non gli serviva a nulla”.Charles, una volta sposato per soddisfare tutti i capricci della nuova moglie, cerca di accontentarla in qualsiasi modo, e riesce a procurare alla nuova sposa un carrozzino d’occasione il quale, una volta che ebbe i fanali nuovi e parafanghi di cuoio imbottito, “sembrò quasi un tillbury”. Charles ama profondamente sua moglie: “Per lui l’universo non oltrepassava la sottana della moglie; si rimproverava di non amarla abbastanza; provava la voglia di rivederla; tornava indietro, in fretta, saliva le scale, con il cuore in tumulto. Emma era ancora in camera, cominciava appena a far toletta, le si avvicinava a passi felpati, la baciava sulla schiena, lei lanciava un grido”(pag. 31). Però, nonostante le premure del marito, sempre più innamorato e appiccicato a lei come un bimbo alle gonne della madre, la nuova Madame Bovary cominciava a pensare di essersi sbagliata, e cercava di capire quale significato avessero “le parole felicità, passione ed ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri”-  Ma quali libri, quali frequentazioni, quale vita insomma aveva condotto Emma fino ad allora?Fin dalla prima adolescenza aveva sognato grandi e tragiche storie d’amore, come Paolo e Virginia di Bernardin di Saint Pierre, ambientate in luoghi esotici, lontani dalla civiltà corrotta; in collegio, dove era entrata all’età di dodici anni, il Genio del cristianesimo di Renè de Chateaubriandt le aveva inculcato l’amore per le antiche rovine, e l’esaltazione per le malinconie romantiche, oltre a una sorta di religiosità fittizia, che le faceva protrarre le preghiere nell’ombra sacra e misteriosa del confessionale.

Nei romanzetti prestati da un’anziana zitella che veniva a cucire in convento,”non vi erano che amori, amanti, signore perseguitate che svenivano in padiglioni solitari…foreste oscure, tumulti del cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci…”: tutti gli ingredienti di un romanticismo d’accatto – non certamente il grande Romanticismo che avrebbe informato di sé le il pensiero e l’arte del secolo. Con i romanzi storici di Walter Scott, Emma sognò menestrelli e languide castellane innamorate. Nell’aula di musica, cantava di angioletti dalle ali d’oro – ma nei suoi sogni entravano anche sultani che tenevano tra le braccia sensuali baiadere (danzatrici),in primo piano rovine romane, e più in là cammelli accovacciati – il tutto inquadrato “in una foresta vergine ben ripulita”.

Anche la morte della madre fu romanticamente vissuta. Emma pianse molto nei primi giorni, si fece fare un quadro funebre con i capelli della defunta, chiese al padre di essere più tardi sepolta nella stessa tomba:Il brav’uomo la credette malata e la venne a trovare.Ma una noia dapprima appena avvertita, poi sempre più insistente cominciò a serpeggiare nella ragazza fino a dominarla: una noia che non si curò affatto di nascondere, con profondo stupore e delusione delle buone monache, le quali avevano creduto in una sua “vocazione”. Così Emma tornò a casa, in campagna, dove però non trovò né menestrelli né rovine romantiche – solo stalle e contadini in zoccoli: ben presto rimpianse il convento . In questo stato d’animo, l’ingresso di Charles nella sua vita fu accolto come un messaggio di felicità, e rivestito dei colori della passione, librata in alto come un uccello dalle piume rosa: ora però, a Tostes, divenuta signora Bovary, non riusciva a convincersi che quella calma in cui viveva fosse la felicità sognata (Ibidem pag. 32,33, 34, 35, 36, 37).

La “luna di miele” immaginata da Emma (passeggiate in riva al mare, respirare al tramonto il profumo dei limoni eguardare la notte, abbracciati, le stelle) si stava rivelando ben diversa dalla realtà: Charles “aveva una conversazione piatta come un marciapiede”, non sapeva nuotare, né andare a cavallo -non c’era da imparare nulla, da lui!Tuttavia Emma continuava a essere una brava padrona di casa- parlava perfino di comprare degli sciacquadita per il dessert, e faceva calzare al marito belle pantofole ricamate, per l’ammirazione dei vicini. La vecchia signora Bovary, quando veniva in visita, trovava la nuora “di un genere troppo di lusso per la loro condizione”, e sospirava che legna, zucchero e candele scorrevano via come in una gran casa. Ma Emma era assorta in ben altri pensieri: continuava a sognare paradisi inesplorati, ossia la città, coi suoi teatri, i suoi caffè, le sue luci, i suoi rumori allegri, e pensava con invidia alla vita brillante che certamente era toccata in sorte alle sue amiche di collegio:”Perché, mio Dio, mi sono sposata?”. Intanto si sfogava in lunghe passeggiate per i campi, in compagnia di una piccola levriera, Djali, che le era stata regalata da un guardiacaccia, e alla quale confidava le sue delusioni. Finalmente, alla fine di quel settembre 1852, accadde un fatto straordinario: la visitaal marchese d’Andevilliers,nel castello di Vaubyessard. Qui scopre un mondo che aveva sempre sognato e avvicina quello che tutti chiamavano il visconte con il quale balla fino all’alba. Ma anche in questa occasione, Emma è dissociata, pensa all’altrove, come in altre occasioni: “mentre volteggiava vide in giardino, dietro i vetri, contro le sbarre, facce di contadini che stavano immobili a guardare. Allora le vennero in mente la fattoria, papà Rouault in camiciotto turchino, lo stagno melmoso, e se stessa mentre col dito scremava le terrine di latte nella cascina, e dubitò di aver mai vissuto quella vita” (pag. 47).

Léon e Rodolphe sono i due amanti di Emma e rappresentano due ideali diversi di uomini.

Il signor Leon Dupuis, praticante presso il notaio di Yonville, abita nella stessa casa, dove è la farmacia di Homais. E’ cliente fisso della trattoria “Il Leone d’Oro” di Yonville, gestito dalla signora Lefranҫois. Emma, assieme a suo marito lo incontra per la prima volta proprio qui, appena arrivati a Yonville, loro nuova destinazione dopo Tostes. Ad attaccare discorso, nel corso della cena, è Charles: Non faccia altro che raccomandarle (ad Emma) un poco di moto, preferisce starsene tutto il giorno chiusa in camera a leggere.» «Oh, proprio come me» riattaccò Léon, «e cosa ci può esser di meglio che leggere un bel libro accanto al fuoco, la sera, mentre il vento batte alle imposte e la lampada splende?…» «Pare anche a voi, vero?» disse lei, fissandogli addosso i grandi occhi spalancati. «Non si pensa a nulla,» continuò lui, «e così passano le ore. Senza muoversi, si attraversano paesi mai visti eppure reali, e il nostro pensiero, intrecciandosi con la finzione, entra con piacere in ogni particolare, segue il filo d’ogni avventura. Ci si confonde con i personaggi, ci sentiamo noi stessi palpitare sotto i loro panni.» «Com’è vero! Dio, com’è vero!». Diceva lei. «E non vi è mai capitato» rincarava lui «d’incontrare in un libro un’idea vaga che già avevate avuto, qualche immagine oscura che pare tornare di lontano, insomma, quasi la più completa rivelazione del vostro sentimento più sottile?» «L’ho provato, anch’io, l’ho provato,» rispose lei. «È proprio per questo» disse lui, «che io amo soprattutto i poeti.Trovo i versi più dolci della prosa, mi fanno piangere tanto di più» «Però alla lunga annoiano» ribatté Emma, «io, adesso, ho una passione per le storie che si leggono tutte d’un fiato e fanno paura. Detesto i personaggi banali, i sentimenti moderati, ce ne sono già troppi nella vita di ogni giorno (pag. 75). Tra Emma e Leon, dopo questo primo incontro del tutto occasionale, hanno modo di incontrarsi più volte. Vede nel giovane un prolungamento dei suoi stessi desideri. Anche lui è un sognatore e fieramente ostile al piccolo ambiente di provincia, dove nessuno sa sognare. Nasce Berthe, la figlia di Charles e di Emma, ma la signora Bovary, dopo un primo tempo tutta intenta a vivere un ruolo del tutto nuovo, quello di mamma, frequenta ripetutamente Leon: “ Léon si torturava per trovare il modo di farle la dichiarazione; ed, eternamente esitando tra la paura di dispiacerle e la vergogna d’essere così pusillanime, piangeva di scoraggiamento e di desiderio. D’improvviso prendeva le più energiche decisioni; scriveva lettere che poi ovviamente stracciava; si fissava baldanzosamente delle scadenze che poi infallibilmente prorogava. Spesso si metteva per strada con la salda decisione di tutto osare; ma una simile risoluzione lo abbandonava appena si trovava in presenza di Emma, e, quando Charles, sopraggiungendo, lo invitava a salire sul suo boc per andare a visitare insieme qualche malato nei dintorni, lui accettava immediatamente, salutava la signora e se ne partiva. Non era forse in qualche modo qualcosa di lei suo marito?Quanto a Emma, lei non si chiese mai se lo amasse. L’amore, era la sua convinzione, doveva arrivare tutto d’un colpo, con grandi tuoni e lampi – uragano celeste che piomba sulla vita, la sconvolge, strappa le volontà come foglie morte, trascina l’intero cuore nell’abisso. Non sapeva che sulle terrazze delle case la pioggia forma larghe pozze quando le grondaie sono ostruite, e così restò tranquilla sinché non le toccò di scoprire d’improvviso una crepa nelmuro” (pag. 89). Leon lascia Yonville per andare a Parigi e poi a Rouen per terminare gli studi. “La signora Bovary s’era girata, teneva la faccia appoggiata a un vetro; Léon aveva il suo berretto in mano, e si colpiva la coscia a piccoli colpi. «Tra poco pioverà» disse Emma.«Ho il cappotto» disse lui. «Ah!» Lei tornò a girarsi, con il mento basso e la fronte in avanti. La luce scivolava sulla sua faccia come su un marmo sino all’arco delle sopracciglia; non si poteva indovinare cosa guardasse fuori, cosa pensasse dentro. «E allora: addio!» sospirò lui. Lei tirò su la testa, bruscamente. «Sì, addio… andate!» Avanzarono uno verso l’altro, lui le tese la mano, lei esitò un attimo. «All’inglese, dunque» disse poi, abbandonandogli la mano, e sforzandosi intanto di ridere. Léon la sentì tra le dita, gli pareva che la sostanza di tutto il suo essere si raccogliesse entro quel palmo umido. Poi schiuse la mano; i loro occhi s’incontrarono ancora, e lui scomparve. Quando fu sotto la loggia del mercato, si fermò, e, da dietro un palo, contemplò un’ultima volta la casa bianca con le sue quattro persiane verdi. Credette di intravedere un’ombra dietro la finestra della camera; ma la tenda, scorrendo come se nessuno la toccasse, distese lentamente le sue lunghe pieghe oblique, a un tratto le pieghe si spianarono, la tenda restò rigida, più ferma d’un muro di pietra. Léon si mise a correre. Scorse da lontano, sulla strada, la carrozza del principale” (pag. 103, 104). Emma rivedrà casualmente Leon a teatro. Dopo averlo incontrato, per frequentarlo più stabilmente a Rouen, finge di prendere lezioni di musica da una professoressa di Rouen. Parte, di giovedì, sempre con la carrozza “La Rondine” che guidata da Hivert è un po’ l’anello di congiunzione tra il paese di Yonville, provincia profonda e la città diRouen, piena di fabbriche e di vitalità operosa. Qui va, tutte le settimane, con Leon, all’albergo Boulogne: “Dopo i baci, un diluvio di parole. Si raccontavano le pene della settimana, i presentimenti, le ansie per le lettere; poi dimenticavano tutto; faccia contro faccia si guardavano con risa di voluttà, invocazioni di tenerezza. Il letto era grande, di mogano, a forma di navicella. Le tende di damasco rosso che scendevano dal soffitto, si raccoglievano troppo in basso, sopra il largo capezzale, e non c’era nulla di più bello della sua testa bruna e della sua pelle bianca su quello sfondo di porpora, quando con un gesto pudico lei serrava le braccia nude, nascondendo la faccia tra le mani… Lo chiamava bambino. Mi ami, bambino mio? E non stava mai a sentire la risposta nell’impeto delle labbra che cercavano la sua bocca” (pag. 222, 223).

Emma incontra Rodolphe, mentre affacciata alla finestra della propria casa a Yonville, lo sente chiedere di Charles suo marito: Emma stava alla finestra (vi si metteva spesso: la finestra in provincia rimpiazza il teatro e la passeggiata) e si divertiva a osservare la ressa degli zotici, quando scorse un signore in redingote di velluto verde. Portava guanti gialli sebbene calzasse grossi gambali, si dirigeva verso la casa del medico, seguito da un contadino che camminava a testa bassa, rannuvolato. «Posso vedere il dottore?» chiese a Justin (il garzone della farmacia) che sulla soglia chiacchierava con Félicité (la governante di casa Charles Bovary). Evidentemente lo aveva preso per il domestico, perchè aggiunse: «Ditegli che c’è il signor Rodolphe Boulanger de La Huchette. La Huchette, infatti, era una proprietà nei pressi di Yonville, un castello e due fattorie che lui aveva da poco acquistati e che dirigeva personalmente senza darsene troppo pensiero. Viveva da scapolo, si diceva che avesse almeno quindicimila franchi di rendita!” (pag. 111). La figura di Rodolphe è tratta dalla cronaca vera: fece scalpore, quando Flaubert stava scrivendo il romanzo, la storia di Louis Campion che si rovinò per il gioco e, le donne, tentò di rifarsi andando a cercare fortuna in America; tornato a Parigi, si uccise nel 1852 in un boulevard con un colpo di pistola. Rodolphe è un benestante Dongiovanni del luogo che seduce Emma aggiungendola alla sua lunga lista di conquiste. Superficialmente attratto da Emma, egli prova ben poco sentimento nei suoi confronti. Nulla al confronto di ciò che lei riversa su di lui.«Com’è carina, però!» si diceva lui, «veramente carina la moglie del medico! Bei denti, occhi neri, un piedino che è un incanto, una figura da parigina. Ma da dove vien fuori? Dove l’avrà trovata quel bue?».  Il signor Rodolphe Boulanger de la Huchette aveva trentaquattro anni; era di temperamento brutale e d’intelligenza fina, ne conosceva, di donne, se ne intendeva bene. Quella gli era proprio piaciuta, e quindi ci pensava; pensava anche al marito, ovviamente. «Un vero bue. Lei ne deve essere più che stanca. Ha le unghie sporche, la barba di tre giorni. Mentre lui trotterella dai suoi malati, lei cosa potrà fare oltre a rammendargli le calze? Si annoia, ne son sicuro! Vorrebbe abitare in città, ballar la polka tutte le sere! Povero donnino! Ha bisogno d’amore come una carpa ha bisogno d’acqua sul tavolo di cucina. Con due o tre paroline dolci, quella lì ti adorerebbe, altroché! Sarebbe tutta una dolcezza, tutto un incanto!… Già, e dopo? Come sbarazzarmene, dopo?» (111- 113). Rodolphe mette in atto tutti i suoi piani di seduzione ed Emma ci casca. Sull’orlo dell’abisso, ridotta in povertà, Emma ritorna da Rodolphe per cercare di avere da lui un prestito in denaro (tremila franchi) ed evitare il pignoramento di tutti i mobili di casa, ma Rodolphe non l’aiuta: Lei restò a guardarlo in silenzio per qualche attimo. «Non li hai!» Ripeté più volte: «Non li hai!… Avrei potuto risparmiarmi quest’ultima vergogna. Non mi hai mai amata tu! tu non vali più degli altri!» Si tradiva, si perdeva. Rodolphe l’interruppe, affermando che si trovava anche lui in difficoltà. «Ah! Ti compiango!» disse Emma. «Sì, ti compiango molto!…» E posò lo sguardo su una carabina damascata che luccicava nella panoplia: «Ma, quando uno è così povero, non butta via i soldi per un calcio di fucile! Non compra una pendola intarsiata!» continuò indicando un orologio di Boulle, «né fischietti dorati per le fruste!» e li toccò, «né ciondoli per la catena del taschino! Oh, non ti fai mancar nulla! Hai persino un porta liquori in camera: perchè ti vuoi bene, tu, vivi bene, tu, hai un castello, fattorie, boschi, cani e cavalli, tu, fai viaggi a Parigi, tu… oh! Quando non ci fosse altro, gridò, prendendo dal ripiano del caminetto i gemelli dei polsini. Se ne potrebbe tirar fuori del denaro! Oh! Non li voglio, tienteli! E scagliò lontano i gemelli, la cui catenina d’oro s’infranse, urtando contro la parete. «Ma io ti avrei dato tutto, io, avrei venduto tutto, avrei lavorato con le mie mani, avrei mendicato in strada, per un tuo sorriso, per un tuo sguardo, per sentirti dire: “Grazie!” E tu puoi restartene tranquillo nella tua poltrona, come se non mi avessi già fatto soffrire abbastanza! Lo sai che senza di te avrei potuto vivere felice! Chi ti costringeva a rovinarmi? Lo hai fatto per scommessa? Eppure dicevi di amarmi… Persino un attimo fa… Ah! Avresti agito meglio scacciandomi! Ho le mani ancora calde dei tuoi baci, eccolo lì il punto sul tappeto in cui mi giuravi in ginocchio eterno amore. Mi ci hai fatto credere: per due anni mi hai fatto vivere nel più soave e magnifico dei sogni!… Eh? Te li ricordi i nostri progetti di viaggio? Oh! La tua lettera, la tua lettera! Mi ha spezzato il cuore! E poi, quando torno da lui, lui che è ricco, felice, libero, per implorare un aiuto che non mi rifiuterebbe il primo venuto, quando lo supplico, quando gli ridono tutta la mia tenerezza, lui mi respinge, perchè accettarmi gli verrebbe a costare tremila franchi!» «Non li ho!» rispose Rodolphe, con quella perfetta calma che ricopre come uno scudo le collere rassegnate. Lei uscì. I muri le oscillavano intorno, il soffitto le franava addosso; ripercorse il viale, incespicando nei mucchi di foglie morte che il vento andava disperdendo. Alla fine arrivò al fossato davanti al cancello, si ruppe le unghie contro il catenaccio, nell’impazienza di aprire. Cento passi più in là, si dovette fermare, era senza fiato, stava per cadere. E allora si girò a guardare un’ultima volta l’impassibile castello, quel parco, quel giardino, quei tre cortili, le finestre, tutte le finestre della facciata. Restò smarrita nello stupore, aveva coscienza di sé unicamente dal battito delle arterie che le pareva sentir straripare come una musica assordante, a invadere la campagna. Sotto i suoi piedi, la terra era più molle di un’onda, i solchi si alzavano per infrangersi come immensi cavalloni neri. Tutto quel che stava nella sua testa, ricordi, idee, fuggivano in un sol colpo come i mille arabeschi di un fuoco d’artificio. Vide suo padre, il bugigattolo di Lheureux, la loro camera laggiù, un altro paesaggio. Ebbe paura d’impazzire, cercò di riprendersi, anche se in modo confuso, è vero: infatti, si era dimenticata proprio la causa di quelle sue orribili condizioni, ovvero la questione economica. Soffriva soltanto del suo amore, sentiva che l’anima l’abbandonava in quel ricordo, come i feriti, agonizzando, sentono che la vita se ne va nelle ferite sanguinanti. Cadeva la notte, in un volo di cornacchie. Le parve d’un tratto che globi color del fuoco esplodessero nell’aria come palle fulminanti, appiattendosi, girando, rigirando, sino a fondersi con la neve, tra i rami degli alberi. In mezzo a ogni globo, la faccia di Rodolphe. Si moltiplicavano, si avvicinavano, la penetravano globi e facce: tutto scomparve. Riconobbe le luci delle case che ammiccavano lontano nella bruma. Allora la sua situazione le si spalancò davanti come un abisso. Ansava da spezzarsi il petto. Poi, in uno slancio eroico che la rese quasi allegra, scese la collina, correndo, attraversò il ponticello delle vacche, il sentiero, il viale, il mercato e arrivò davanti alla porta del farmacista. Non c’era nessuno. Stava per entrare; ma, al tintinnio del campanello…”(ibidem, pag. 258, 259), Emma riesce ad entrare nella farmacia ed afferrare la busta del cianuro con il quale si avvelena e mette fine alla propria vita.

 

Charles, Emma, la suocera.

 

Emma, a parte alcuni momenti, odia Charles: “Odiava tutto in lui, adesso, la faccia e l’abito, quel che non diceva oltre a quel che diceva, l’intera persona, insomma il fatto stesso che esisteva. Si pentiva come di un crimine della virtù avuta in passato, quanto restava di quel candore crollava sotto i furiosi colpi dell’orgoglio. Si sfrenava ad assaporare ogni crudele ironia dell’adulterio trionfante. Il ricordo dell’amante le tornava con un vertiginoso potere di attrazione: travolta verso quell’immagine da un nuovo entusiasmo, anelava a gettare in quell’abisso tutta la sua anima. Charles era ormai così staccato dalla sua esistenza, assente per sempre, confutato e annullato, come se stesse per morire, come se agonizzasse sotto i suoi occhi. Un rumore di passi sul marciapiede. Charles andò a guardare; attraverso le imposte socchiuse, vide, là, dalla parte del mercato, in pieno sole, il dottor Canivet asciugarsi la fronte con quel fazzoletto. Homais gli andava dietro, portando uno scatolone rosso, si dirigevano verso la farmacia. Allora il suo scoraggiamento ebbe bisogno di tenerezza, Charles si girò verso la moglie, la pregò: «Dammi un bacio, cara!» «Lasciami stare!» protestò lei, avvampava di collera. «Ma cos’hai? Cos’hai, adesso?» ripeteva lui, stupefatto. «Calmati! Dominati! Eppure lo sai che ti amo… vieni qui, su!» «Basta!» gridò lei, la sua faccia era terribile. Scappando dalla sala, sbatté la porta con una tale violenza che il barometro si staccò dal muro, andò a pezzi per terra. Charles si lasciò cadere nella sua poltrona, era sconvolto, continuava a domandarsi cosa potesse mai avere la moglie, sospettava una malattia nervosa, gli occhi gli si riempivano di lacrime alla confusa sensazione dell’aleggiare intorno di qualcosa di funesto e incomprensibile. Quando Rodolphe arrivò in giardino quella sera, trovò l’amante in attesa in fondo alla scaletta. Si abbracciarono, ogni loro incomprensione si fuse come neve al sole di quel bacio” (pag. 157). La vecchia madre di Charles si reca spesso in casa del figlio per stare alcuni giorni con lui e con la nuora. Ma tra le due non corre affatto buon sangue: “La sera prima la vecchia Bovary, attraversando un corridoio aveva sorpreso costei in compagnia di un uomo, un uomo bruno, barbuto, sulla quarantina che, al rumore dei suoi passi, era scappato dalla cucina. Emma si mise a ridere; ma la suocera si arrabbiò e dichiarò che, se non si vuol mancare di rispetto alla morale, occorre cominciare a sorvegliare i costumi della servitù. «Ma a che mondo appartenete?» disse la nuora, e aveva uno sguardo talmente insolente che la vecchia Bovary le domandò se non stesse per caso difendendo la propria causa. «Fuori di qui» gridò la giovane donna, balzando in piedi. «Emma! Mamma!…» piagnucolava Charles per pacificarle. Portate dall’esasperazione erano uscite tutt’e due dalla stanza. Emma batteva il piedino, ripeteva: «Che modi! Che contadina!» Allora lui corse dalla madre, ma anche quella era fuori di sé, balbettava: «È una maleducata! Un’esaltata, o peggio ancora!» E voleva andarsene immediatamente, se l’altra non le avesse offerto le sue scuse. Charles tornò dalla moglie e la scongiurò di cedere; si mise persino in ginocchio; lei finì per rispondergli: «E va bene! Ci vado.» E tese la mano alla suocera con una dignità di marchesa, dicendole: «Scusatemi, signora.» Poi, risalita nella sua camera, si buttò bocconi sul letto e pianse come un bambino, la faccia affondata nel cuscino” (pag. 163). La vecchia Bovary, frequentando la casa si rende conto che la moglie porterà Charles alla rovina: «Non si poteva proprio fare a meno di un tappeto? Perchè avete rinnovato la stoffa delle poltrone? Ai miei tempi in casa si teneva ma sola poltrona, per le persone d’età, almeno si faceva così da mia madre, che era una donna come si deve, ve lo garantisco io. Non si può essere tutti ricchi a questo mondo! Nessun patrimonio resiste agli sperperi! Avrei vergogna a viver tra i comodi come voi! io che sono vecchia e avrei bisogno di cure… Ma guardate quanti fronzoli! Quante cianfrusaglie! Come? Della seta per fodere a due franchi il metro? Si trova della mussola da dieci soldi, e anche da otto, che serve benissimo lo stesso!» Sdraiata sul divano, Emma rispondeva con la maggior calma possibile: «Eh! Basta, signora, basta!…» L’altra continuava a farle la predica, diceva che sarebbero finiti all’ospizio. Del resto, la colpa era di Bovary. Per fortuna che ormai aveva promesso di annullare quella procura… «Come?» «Ah! Me l’ha giurato» , rincarò la brava donna. Emma aprì la finestra, chiamò Charles, e il poveraccio fu costretto a confessare la promessa estortagli dalla madre. Emma scomparve, tornò subito, tendendo solennemente un gran foglio di carta. «Vi ringrazio», disse la suocera. E buttò la procura nel fuoco. Emma cominciò a ridere, un riso stridulo, irregolare, continuo: un attacco di nervi. «Ah! Mio Dio!» gridò Charles. «Eh! Anche tu hai torto mamma! Vieni a farle delle scenate!» La madre si strinse nelle spalle, disse che era tutta una posa. Ma Charles le si ribellò per la prima volta, prese la difesa della moglie, la difese tanto che la vecchia Bovary decise di andarsene. Partì il giorno dopo, e sulla soglia, mentre lui cercava di trattenerla, sentenziò: «No, no! Le vuoi più bene che a me, e hai ragione, è nell’ordinenaturale delle cose. Del resto, peggio per te! Vedrai… State bene!… Non ritornerò tanto presto a farle delle scenate, come dici tu.»” (pag. 229, 230).

 

LA “RONDINE” LACARROZZA CHE LEGA IL PICCOLO PAESE DI YONVILLE A ROUEN

 

“Ma la padrona della locanda non gli prestava più ascolto: stava attenta a un rotolio lontano. Ormai si sentiva il rumore di una carrozza con i ferri allentati che battevano per terra, la Rondine si fermò finalmente davanti alla porta. Era uno scatolone giallo, portato da due grandi ruote che, salendo sino all’altezza del mantice, impedivano ai viaggiatori di vedere la strada e gli coprivano di polvere le spalle. I vetri dei miseri finestrini tremolavano nei loro telai, quando la vettura era chiusa, e serbavano schizzi di fango qua e là, in mezzo a uno strato di polvere ormai così vecchio che neppure i temporali riuscivano a lavarlo via interamente. Era tirata da tre cavalli, di cui uno di punta, e, quando faceva le discese, toccava sobbalzando il fondo della strada”.

“Dalle tettoie del mercato la neve proiettava nella camera un riflesso bianco, immobile; poi ci fu la pioggia, non smetteva mai di cadere. Ed Emma ogni giorno stava lì ad aspettare con una specie d’ansia il ripetersi immancabile di avvenimenti infimi, che, del resto, non avevano alcuna importanza per lei. Il più consistente era l’arrivo della Rondine la sera. Allora la locandiera si metteva a gridare, altre voci le rispondevano, mentre il fanale di Hippolyte che cercava i bagagli sul tetto della corriera diventava una stella nell’oscurità”.

“Fece dunque in fretta la valigia, pagò il conto, prese una carrozzella nel cortile, e, incitando il conducente, incoraggiandolo, informandosi in continuazione dell’ora e dei chilometri percorsi, riuscì a raggiungere la Rondine in prossimità delle prime case di Quincampoix. Appena fu seduta nel suo angolo, chiuse gli occhi, li riaprì soltanto alla fine della discesa, e da lontano riconobbe Félicité, di vedetta davanti alla casa del maniscalco”.

“La Rondine partiva al piccolo trotto, e, per un tre quarti d’ora, si fermava di fattoria in fattoria per caricar passeggeri che l’aspettavano in piedi sull’orlo della strada, davanti ai cancelli dei cortili. Quelli che avevano avvertito la sera prima si facevano aspettare; qualcuno addirittura era ancora a letto a casa sua; Hivert chiamava, si sgolava, bestemmiava, poi scendeva da cassetta e andava a battere gran colpi contro le porte. Il vento soffiava attraverso i finestrini rotti. A ogni modo i quattro sedili si riempivano, la vettura rotolava avanti, le file dei meli si susseguivano, e la strada, tra i due lunghi fossi colmi d’acqua giallastra, continuava a restringersi verso l’orizzonte. Emma la conosceva da un capo all’altro: sapeva che dopo quel prato c’era quel palo, poi un olmo, un fienile o la casupola d’un cantoniere. A volte chiudeva gli occhi, per farsi una sorpresa, ma non perdeva mai il senso esatto della distanza da percorrere. Finalmente le case di mattoni diventavano più frequenti, il terreno risuonava sotto le ruote, la Rondine scivolava tra giardini, e attraverso le cancellate si vedevano statue, pergolati di vite, tassi potati, un’altalena. Poi di colpo la città era negli occhi”.“I passeggeri della Rondine finivano per addormentarsi, alcuni a bocca aperta, altri a mento abbassato, appoggiati alla spalla del vicino, oppure con un braccio passato tra le corregge, oscillando tutti regolarmente al movimento della vettura, e il riflesso del fanale che dondolava fuori sulla groppa dei cavalli, penetrando all’interno attraverso le tendine di calicò color cioccolato, posava ombre sanguinose su tutta quella gente immobile. Emma, ebbra di tristezza, tremava sotto le vesti e si sentiva i piedi sempre più gelati: aveva la morte nel cuore”.

 

Una delle più belle sequenze descrittive del romanzo: “Si era al principio d’Aprile, quando sbocciano le primule, un vento tiepido scorre sulle aiole vangate, e i giardini, come le donne, paiono adornarsi per le grandi feste dell’estate. Attraverso i pali della pergola e tutt’intorno, il fiume sembra intento a disegnare giri e rigiri vagabondo sull’erba delle praterie. La nebbiolina della sera fluttuava tra i pioppi senza foglie, sfumando i loro contorni d’una tinta violetta, più pallida, più trasparente d’una garza sottile impigliata tra i rami. Lontano, mandrie in movimento si intravedevano, ma non se ne udivano lo scalpiccio né i muggiti. Solo la campana, nel silenzio, continuava a suonare, continuava a spandere nell’aria il suo quieto lamento”.

Adattamenti

Il romanzo Madame Bovary è stato adattato per il grande schermo parecchie volte, a partire dalla versione del 1933 di Jean Renoir. È stato anche l’argomento di una quantità di “mini-serie” televisive o sceneggiati per lo stesso mezzo di comunicazione di massa. Il più considerevole fra questi adattamenti rimane la Madame Bovarycinematografica del 1949, prodotta dalla MGM. Diretto da Vincente Minnelli, aveva come protagonisti Jennifer Jone nel ruolo principale, e coprotagonisti James Mason, Van Heflin, Luois Jourdan, e Gene Lockhart. Nel 1969, Edwige Fenech interpreta Emma Bovary nel film italo-tedesco: I peccati di Madame Bovary. Un adattamento cinematografico molto fedele al romanzo è invece quello del 1991 di Claude Chabrol, al contrario della produzione russa del film “Salva e custodisci” di Aleksandr Sokurov che si ispira al libro di Flaubert, ambientandolo però in Russia, modificando i tratti di alcuni personaggi del romanzo e sottolineando l’erotismo degli incontri della protagonista con i suoi amanti. Vi fu pure, nel 2000, un adattamento televisivo per il Teatro del capolavoro, che vedeva come interpreti Frances O’ Connor e Hugh Bonneville.

Raimondo Giustozzi

 

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