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Cultura. La cugina Bette di H. De Balzac.

la cugina Betta copertina del libro internet“I genitori possono opporsi al matrimonio dei loro figli, ma i figli non possono impedire le pazzie dei loro genitori rimbambiti”.

 

  • Trama del romanzo
  • Personaggi principali
  • Il matrimonio, come ci si sposa (incipit del romanzo.)
  • Da suocero a suocera
  • I ruoli di marito e moglie
  • La figlia Hortense
  • La cugina Bette: un carattere da zitella
  • L’ambiente sociale del romanzo, i valori diffusi
  • La famiglia Marneffe

 

La cugina Bette (La cousine Bette) è un romanzo dello scrittore francese Honoré de Balzac, pubblicato a puntate nel 1846. Fa parte, assieme a “Il cugino Pons” (Le cousin Pons) del ciclo “I parenti poveri” (Les parents pauvres). Opera complessa, articolata in cento trentadue capitoli, verte sulle vicende della famiglia Hulot, attorno alla quale ruotano diversi personaggi, in un periodo di circa otto anni. All’epoca si chiamava romanzo d’appendice, e usciva a puntate. E’ dello stesso periodo anche Il Conte di Montecristo. Balzac utilizza un’ambientazione quotidiana e attuale, svelando la realtà sociale in tutte le sue dinamiche. La cugina Bette è la parente povera che vive nell’ombra della grande famiglia. Spesso è disprezzata ma allo stesso tempo a lei si confida tutto come a un vecchio cane affezionato. In questo caso, però, la cugina cercherà la vendetta e il riscatto dalle umiliazioni. Il denaro è parte importante in questo romanzo e i debiti influenzeranno molte vicende. La protagonista, Lisbeth Fisher è di aspetto poco piacevole, povera, sfortunata e sin dall’infanzia invidia sua cugina Adeline, bella, benestante e fortunata. Lo scopo della sua vita sarà di distruggere e avvelenare l’esistenza della cugina, un odio freddo e tenace.

TRAMA DEL ROMANZO

La bella e dolce Adeline, di origini contadine, sposa l’affascinante Barone Hulot d’Ervy e si trasferisce a Parigi, portando con sé la meno graziosa cugina Lisbeth, che sin dall’infanzia aveva accumulato rancori e invidie nei suoi confronti. Mentre Adeline vive in un sontuoso palazzo, è felice con il marito e ha due figli, Hortense e Victorin, Lisbeth vive in un quartiere povero ed è costretta a lavorare come ricamatrice. Gli anni passano e il barone Hulot si rivela un incorreggibile libertino, accumulando debiti per le amanti a scapito della famiglia. Victorin sposa Celestine, la figlia di Crevel, un ricco commerciante. Pure Crevel, anche se in maniera più discreta, è dedito al libertinaggio e si vede sottrarre la sua mantenuta Josepha proprio dal barone Hulot. Pensa quindi di vendicarsi provando a sedurre Adeline, che è troppo devota perché ceda alle pressioni di Crevel. Il commerciante, indignato, manda a monte le nozze di Hortense Hulot con un ottimo partito che egli stesso le aveva procurato. Adeline, a causa della sempre più precaria condizione finanziaria, non riesce a trovare un altro marito per sua figlia, ormai ventiduenne. Lisbeth invece ha preso sotto la propria ala protettrice, il conte esule polacco Wenceslas Steinbock, ora scultore, che vive nell’indigenza. Hortense e Steinbock s’incontrano, s’innamorano e si sposano. Il rancore di Lisbeth aumenta ancora di più e medita vendetta. Spinge il conte Hulot tra le braccia di Valerie Marneffe, una vicina di casa di Lisbeth giovane e affascinante il cui marito lavora nell’ufficio di Hulot. Le due donne stringono una perversa alleanza, il cui obiettivo è vendicarsi della famiglia Hulot. In breve Valerie diviene l’amante di Hulot, ma anche di Crevel, di Steinbock e di Montès, un conte brasiliano.

Grazie alle trame delle due donne, Hulot è ormai sul lastrico; porta il signor Fisher, lo zio di Adeline e Lisbeth, al suicidio, e suo fratello, il maresciallo Hulot, alla morte. Hulot è costretto alla fuga, mentre sua moglie Adeline, che per salvare la famiglia si era gettata tra le braccia di Crevel, si ammala. Hulot trova rifugio dalla sua ex-amante Josepha, che gli offre come concubina una giovane e graziosa sarta (Olympe Bijou), gli apre un’attività e gli concede una rendita mensile. Nel frattempo Adeline si riprende e comincia a lavorare come dama di carità. Crevel invece sposa la signora Marneffe. Ma Montes, messo al corrente del tradimento della sua amata Valerie, si vendica infettando i due coniugi con un virus che ben presto li porta entrambi alla morte, tra atroci sofferenze. Adeline riesce dopo molto tempo a ritrovare il conte e a riportarlo in seno alla famiglia, che nel frattempo, grazie a Victorin, si è risollevata economicamente. Steinbock infine si riconcilia con Hortense. Lisbeth, che ha visto fallire i suoi propositi di vendetta, addolorata per la morte dell’amica, la signora Marneffe, si ammala anche lei e muore. Dopo un periodo di tranquillità, il conte Hulot manifesta nuovamente il carattere del libertino, promettendo all’aiuto cuoca Agathe di sposarla una volta morta sua moglie. A quest’ultimo colpo Adeline non resiste e muore. Hulot, una volta rimasto vedovo, abbandona nuovamente la famiglia per sposare Agathe.  “I genitori possono opporsi al matrimonio dei loro figli, ma i figli non possono impedire le pazzie dei loro genitori rimbambiti”, rispose Hulot all’avvocato Popinot, secondogenito dell’ex Ministro del commercio che gli parlava di questo matrimonio”. E’ la conclusione del romanzo.

PERSONAGGI PRINCIPALI

La cugina Lisbeth “Bette” Fischer

Valérie Marneffe, amante del barone Hulot d’Ervy, del conte Steinbock e di Crevel che alla fine la sposerà.

Adeline Fischer, moglie del barone Hulot d’Ervy, cugina di Bette Fisher.

Josépha Mirah, cantante ebrea, amante prima di Crevel, poi del barone Hulot.

Hortense Hulot, figlia del barone Hulot e moglie del conte Steinbock.

Il barone Hector Hulot d’Ervy, padre di Hortense e Victorin.

Wenceslas Steinbock, aristocratico artista d’origine polacca, marito di Hortense e amante di Valérie Marneffe.

Célestin Crevel, suocero e rivale in amore del Barone, attratto anche dalla Baronessa.

Marneffe, marito di Valérie, impiegato presso l’ufficio del barone Hector Hulot.

Maresciallo Hulot, anziano fratello del Barone, profondamente affezionato alla cognata Adeline.

Victorin, figlio del Barone, ha sposato la figlia di Crevel.

Célestine Crevel, moglie di Victorin e figlia di Crevel.

 

 

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Il matrimonio: Come ci si sposa

INCIPIT DEL ROMANZO

“Verso la metà del mese di luglio dell’anno 1838 una di quelle carrozze chiamate milords, che da poco tempo si vedevano in circolazione sulle piazze di Parigi, procedeva lungo la rue de l’Université portando un uomo grosso, di statura media, in uniforme di capitano della guardia nazionale. Fra quei parigini che hanno fama, di essere tanto spiritosi, ve ne sono alcuni che si credono infinitamente più attraenti in uniforme anziché nei loro abiti consueti, e che ritengono le donne di gusti così pervertiti da essere favorevolmente impressionate dalla vista di un cappello di pelo e di una bardatura militare. La fisionomia di quel capitano, appartenente alla seconda legione, spirava un compiacimento di sé che faceva risplendere il suo colorito rubicondo e il suo viso alquanto paffuto. Dall’aureola di cui la ricchezza, acquisita nel commercio cinge la fronte degli ex bottegai, si poteva riconoscere in lui uno degli eletti di Parigi, per lo meno ex assessore del suo arrondissement. Perciò, siate pur certi che il nastrino della Legion d’Onore non mancava sul suo petto spavaldamente in fuori alla prussiana. Piantato fieramente in un angolo del milord, l’uomo decorato lasciava vagare lo sguardo sui passanti, che spesso, a Parigi, colgono così graziosi sorrisi rivolti invece a dei begli occhi assenti. La carrozza si fermò in quel tratto di strada compreso fra la rue de Bellechasse e la rue de Bourgogne, davanti al portone di una grande casa costruita di recente su una parte della corte di un vecchio palazzetto con giardino. Era stato rispettato il palazzetto, che rimaneva nella sua forma primitiva in fondo alla corte ridotta della metà. Soltanto dal modo in cui il capitano accettò i servigi del cocchiere per discendere dalla carrozza, si sarebbe riconosciuto il cinquantenne. Vi sono dei gesti la cui manifesta pesantezza ha tutta l’indiscrezione di un atto di nascita. Il capitano tornò a infilare la destra nel guanto giallo, e, senza chiedere niente al portiere, si diresse verso la scalinata del piano rialzato del palazzetto con un’aria che diceva: «È mia.». I portieri a Parigi hanno l’occhio esperto, non fermano le persone decorate, vestite di blu, dall’andatura pesante; insomma, sanno riconoscere i ricchi. Il pianterreno era occupato interamente dal barone Hulot d’Ervy, commissario ordinatore sotto la Repubblica, ex intendente generale d’armata, e allora direttore di uno dei più importanti settori del Ministero della Guerra, consigliere di stato, grande ufficiale della Legion d’Onore. Il barone Hulot si era autonominato d’Ervy, luogo della sua nascita, per distinguersi da suo fratello, il celebre Hulot, colonnello dei granatieri della guardia imperiale, che l’imperatore aveva creato conte di Forzheim, dopo la campagna del 1809. Il fratello maggiore, il conte, incaricato di prendersi cura del cadetto, l’aveva, con paterna previdenza, piazzato nell’amministrazione militare dove, grazie ai loro duplici servigi, il barone ottenne e meritò il favore di Napoleone. Dal 1807, il barone Hulot era intendente generale delle armate in Spagna.
Dopo aver suonato, il capitano borghese fece grandi sforzi per rimettere a posto la marsina che gli si era rialzata davanti e di dietro, spinta dall’azione di un ventre «piriforme». Un domestico in livrea si affrettò a introdurlo e, seguito dall’uomo importante e imponente, disse aprendo la porta del salotto:
«Il signor Crevel!» Sentendo questo nome, perfettamente appropriato all’aspetto di chi lo portava, una donna alta, bionda, ancora bellissima, si alzò come colpita da una scossa elettrica.
“Hortense, angelo mio, va in giardino con tua cugina Bette, disse in fretta a sua figlia che ricamava a qualche passo da lei”. Dopo aver salutato con grazia il capitano, la signorina Hortense Hulot uscì da una porta-finestra, conducendo con sé una zitella risecchita che sembrava più vecchia della baronessa, benché avesse cinque anni di meno. Si tratta del tuo matrimonio, disse la cugina Bette all’orecchio della cuginetta Hortense, senza apparire offesa dal modo in cui la baronessa le aveva congedate mostrando di non tenerla in alcun conto. L’abbigliamento della cugina avrebbe spiegato, all’occorrenza, quella bruschezza di modi. La zitella portava un vestito di merino, color uva di Corinto, il cui taglio e le cui guarnizioni datavano dalla Restaurazione, una collaretta ricamata che poteva valere tre franchi, un cappello di paglia ornato di nastri azzurri come se ne vedono alle venditrici della Halle. Dall’aspetto delle scarpe in pelle di capra, la cui fattura rivelava un calzolaio di infimo ordine, un estraneo avrebbe esitato a salutare la cugina Bette come una della famiglia, poiché in tutto e per tutto somigliava a una sarta a giornata. Nondimeno, la zitella non uscì senza rivolgere un piccolo saluto affettuoso al signor Crevel, saluto al quale quel personaggio rispose con un cenno d’intesa. “Verrete domani, vero, signorina Fischer?”. “Le disse: Non avete gente? – domandò la cugina Bette. “I miei figli e voi, ecco tutto, replicò il visitatore. “Bene, rispose lei, allora contate su di me”. “Eccomi, signora, ai vostri ordini, disse il capitano della milizia borghese salutando di nuovo la baronessa Hulot. E lanciò alla signora Hulot uno sguardo quale Tartufo ne lancia a Elmire, quando un attore di provincia crede necessario sottolineare le intenzioni di questo personaggio a Poitiers o a Coutances. Se volete seguirmi da questa parte, signore, staremo meglio che in questo salotto per parlare d’affari, disse la signora Hulot, indicando una stanza vicina che, nella disposizione dell’appartamento, era una sala da gioco. La stanza era separata con un sottile tramezzo dal salottino della signora, la cui finestra dava sul giardino; la signora Hulot lasciò il signor Crevel per un momento, poiché giudicò necessario chiudere la finestra e la porta del salottino, affinché nessuno potesse venirvi ad ascoltare. Ebbe anche la precauzione di chiudere la porta-finestra del salotto, sorridendo a sua figlia e a sua cugina, che vide sedute in un vecchio chiosco in fondo al giardino. Ritornò, infine, lasciando aperta la porta della sala da gioco, in modo da poter sentire aprire quella del salotto, se qualcuno vi entrava. Nei suoi andirivieni, la baronessa, non sentendosi osservata da alcuno, lasciava trasparire dal volto tutti i suoi pensieri; e chi l’avesse vista sarebbe stato quasi spaventato della sua agitazione. Ma, ritornando dalla porta d’ingresso del salotto alla sala da gioco, il suo viso si velò di quel riserbo impenetrabile che tutte le donne, perfino le più franche, sembra abbiano a comando. Durante questi preparativi, per lo meno singolari, la guardia nazionale osservava l’arredamento del salotto nel quale si trovava. Al vedere le tende di seta, una volta rosse, stinte ora di violetto dall’azione del sole, e lise sulle pieghe dal lungo uso, un tappeto dal quale i colori erano svaniti, dei mobili senza più doratura e la cui seta cosparsa di macchie era a tratti consunta, espressioni di disprezzo, di contentezza, di speranza si succedettero sulla sua piatta faccia di commerciante arricchito. Si guardava nello specchio…passandosi in rivista, quando il fruscio della veste di seta gli annunciò l’arrivo della baronessa. E subito si rimise in posa. Dopo essersi lasciata cadere su un piccolo canapè, che certamente era stato molto bello verso il 1809, la baronessa, indicando a Crevel una poltrona, i cui braccioli terminavano con teste di sfingi bronzee e la cui vernice si staccava a scaglie, lasciando vedere qua e là il legno, gli fece segno di sedersi. Le precauzioni che voi prendete, signora, sarebbero un incantevole augurio per un. Un amante, replicò lei interrompendo la guardia nazionale. La parola è debole, disse egli ponendosi la mano destra sul cuore e con quel rotear d’occhi che fa quasi sempre ridere una donna quando, freddamente, osserva in essi una simile espressione. Amante! Amante! Dite piuttosto: stregato”.

DA SUOCERO A SUOCERA

“Ascoltate, signor Crevel, riprese la baronessa, troppo seria per poter ridere; voi avete cinquant’anni, dieci di meno del signor Hulot, lo so; ma, alla mia età, le follie di una donna devono essere giustificate dalla bellezza, dalla giovinezza, dalla celebrità, dal merito, da qualcuno di quegli splendori che ci abbagliano al punto da farci dimenticare tutto, perfino la nostra età. Se voi avete cinquantamila franchi di rendita, la vostra età controbilancia la vostra ricchezza, e così di tutto ciò che una donna si aspetta, voi non possedete niente. E l’amore? – disse la guardia nazionale alzandosi e facendosi avanti, – un amore che… no, signore, testardaggine! -disse la baronessa interrompendolo per farla finita con quelle sciocchezze. Sì, testardaggine e amore, egli riprese ma anche qualche cosa di meglio, dei diritti. Dei diritti? – esclamò la signora Hulot, sublime di sfida, di disprezzo, d’indignazione. Ma – riprese, su questo tono non la finiremo mai, e non vi ho chiesto di venire in questa casa per parlare di quelle cose che ve ne hanno fatto bandire, malgrado la parentela fra le nostre due famiglie. L’ho creduto. Ancora! – riprese lei. Ma non vi accorgete, signore, dal tono franco e disinvolto con cui vi parlo di amante, di amore, di tutto ciò che vi è di più scabroso per una donna, che io sono perfettamente sicura di restare virtuosa? Non temo niente, nemmeno di essere sospettata chiudendomi con voi in questa stanza. È questo il contegno di una donna debole? Voi sapete bene perché vi ho pregato di venire! No, signora, replicò Crevel, assumendo un’aria fredda. Poi serrò le labbra e si rimise in posa. Ebbene, sarò breve per non prolungare il nostro reciproco supplizio, disse la baronessa Hulot guardando Crevel. Questi fece un inchino ironico nel quale un uomo del mestiere avrebbe riconosciuto il fare ossequioso di un ex commesso viaggiatore. Nostro figlio ha sposato vostra figlia! E se si dovesse rifare! – disse Crevel. Questo matrimonio non si farebbe – rispose prontamente la baronessa; non ho alcun dubbio. Nondimeno, voi non avete da lamentarvi. Mio figlio non è solamente uno dei primi avvocati di Parigi, ma è anche deputato da un anno, e il suo esordio alla Camera è così brillante da far supporre che fra non molto egli sarà ministro. Victorin è stato nominato due volte relatore di leggi importanti, e potrebbe già diventare, se lo volesse, avvocato generale della Corte di Cassazione. Se dunque volete darmi a intendere che avete un genero senza sostanze. Un genero che sono obbligato a mantenere, riprese Crevel. Dei cinquecentomila franchi assegnati in dote a mia figlia, duecento sono stati spesi Dio sa come, per pagare i debiti del vostro signore figlio, per arredare mirabolantemente la sua casa da cinquecentomila franchi che ne rende appena quindicimila, poiché egli ne occupa la parte più bella, e sulla quale ha un debito di duecentosessantamila franchi. Il reddito copre appena gli interessi del debito. Quest’anno darò a mia figlia circa ventimila franchi perché possa sbarcare il lunario. E mio genero, che – si diceva – guadagnava circa trentamila franchi al Tribunale, trascura il Tribunale per la Camera dei deputati. Questo, signor Crevel, è del tutto secondario, e ci allontana dal nostro argomento. Ma per farla finita con questi discorsi vi dirò che se mio figlio diventa ministro, se vi farà nominare ufficiale della Legion d’onore e consigliere di prefettura a Parigi, per un ex profumiere, non avrete da lamentarvi. Ah! Rieccoci, signora. Io sono un droghiere, un bottegaio, un ex venditore di pasta di mandorle, di acqua di Portogallo, di olio cefalico, devo considerarmi molto onorato per aver dato in sposa la mia unica figlia al figlio del barone Hulot d’Ervy: mia figlia sarà baronessa. Fa molto Reggenza, molto Luigi xv, molto vecchio stile! Benissimo. Amo Célestine come si può voler bene a una figlia unica, l’amo tanto che, per non darle né fratelli né sorelle, ho accettato tutti gli inconvenienti della vedovanza a Parigi, e nel vigore degli anni, signora, ma sappiate bene che, malgrado quest’amore insensato per mia figlia, non intaccherò la mia fortuna per vostro figlio, le cui spese non mi sembrano chiare, a me, ex negoziante. Signore, voi vedete proprio ora, al Ministero del Commercio, il signor Popinot, un ex negoziante di prodotti chimico-farmaceutici di rue des Lombards. Mio amico, signora! – disse l’ex profumiere; poiché io, Célestin Crevel, ex primo commesso del vecchio César Birotteau, ho comprato l’azienda del suddetto Birotteau, suocero di Popinot, già semplice commesso in quell’azienda. Ed è lui, Popinot, che me lo ricorda, poiché non è superbo, bisogna dargliene atto, con le persone ben sistemate e che possiedono sessantamila franchi di rendita. Ebbene, signore, le idee che voi qualificate con la parola “reggenza”, non sono più di moda in un’epoca in cui si accettano gli uomini per il loro valore personale; ed è quanto avete fatto voi maritando vostra figlia con mio figlio. Voi non sapete come sia stato combinato questo matrimonio! -esclamò Crevel. Ah! Maledetta vita di scapolo! Senza le mie sregolatezze la mia Célestine sarebbe oggi la viscontessa Popinot. Ma, ancora una volta, non recriminiamo sul passato, riprese energicamente la baronessa. Parliamo del motivo che ho di rammaricarmi della vostra strana condotta. Mia figlia Hortense poteva sposarsi. Il matrimonio dipendeva esclusivamente da voi. Ho creduto che voi aveste dei sentimenti generosi. Ho pensato che avreste reso giustizia a una donna che non ha mai avuto nel suo cuore altra immagine se non quella di suo marito. Ritenevo che avreste riconosciuto, per lei, le necessità di non ricevere un uomo capace di comprometterla, e che vi sareste affrettato, per riguardo alla famiglia alla quale vi siete imparentato, a favorire la sistemazione di Hortense col signore consigliere Lebas. E voi, signore, avete mandato all’aria quel matrimonio. Signora, rispose l’ex profumiere, o ho agito da onest’uomo. Sono venuti a domandarmi se i duecentomila franchi di dote assegnati alla signorina Hortense sarebbero stati pagati. Ho risposto testualmente così: Io non lo garantirei. Mio genero, al quale la famiglia Hulot ha assegnato quella somma in dote, aveva dei debiti, e credo che, se il signor Hulot d’Ervy morisse domani, la sua vedova rimarrebbe senza pane. Ecco, mia bella signora. E avreste tenuto questo linguaggio, signore, domandò la signora Hulot guardando fissamente Crevel, se per voi io avessi mancato ai miei doveri? Non avrei avuto il diritto di dirlo, cara Adeline, esclamò questo singolare amante interrompendo la baronessa, poiché voi avreste trovato la dote nel mio portafogli. E facendo seguire gli atti alle parole, il grosso Crevel mise un ginocchio in terra e baciò la mano della signora Hulot, scambiando per esitazione il muto orrore in cui l’avevano gettata le sue parole. Comprare la felicità di mia figlia a prezzo di… oh, alzatevi signore, o suono. L’ex profumiere ebbe molta difficoltà a rialzarsi, e questa circostanza lo rese così furioso che egli tornò a mettersi in posa. Quasi tutti gli uomini prediligono un atteggiamento col quale credono di far risaltare tutte le doti di cui li ha forniti la natura. E, in Crevel, quest’atteggiamento consisteva nell’incrociare le braccia alla Napoleone, mettendo la testa di tre quarti, e lanciando lo sguardo come il pittore glielo faceva lanciare nel suo ritratto, cioè all’orizzonte. Mantenersi, disse egli con un furore ben dosato, mantenersi fedele a un libert… A un marito, signore, che ne è degno, riprese la signora Hulot interrompendo Crevel per non lasciargli pronunciare una parola che non voleva per niente sentire. Bene, signora, voi mi avete scritto di venire, volete sapere le ragioni della mia condotta, mi esasperate con le vostre arie da imperatrice, col vostro sdegno e col vostro disprezzo! Non si direbbe che io sia uno schiavo? Ve lo ripeto, credetemi! Ho il diritto di farvi la corte perché… ma no, vi amo abbastanza da tacere. Parlate, signore, fra qualche giorno avrò quarantotto anni, non sono così scioccamente pudica; posso ascoltare tutto. Vediamo, mi date la vostra parola di donna onesta – perché voi siete, sfortunatamente per me, una donna onesta – di non nominarmi mai, di non dire che io vi confido questo segreto? Se questa è la condizione della rivelazione, giuro di non nominare a nessuno, nemmeno a mio marito, la persona dalla quale avrò saputo le enormità che state per confidarmi. Lo credo bene, poiché si tratta solo di voi e di lui. La signora Hulot impallidì. Ah! Se amate ancora Hulot, ne soffrirete certamente! Volete che taccia? Parlate, signore, giacché si tratta, secondo voi, di giustificare ai miei occhi le strane dichiarazioni che mi avete fatto, e la vostra ostinazione a tormentare una donna della mia età, che vorrebbe maritare sua figlia e poi morire in pace! Vedete, siete infelice. Io, signore? Sì, bella e nobile creatura! – esclamò Crevel, hai sofferto anche troppo. Signore, tacete e uscite! Oppure parlatemi come si conviene. Sapete signora, come ci siamo conosciuti l’amico Hulot ed io? In casa delle nostre amanti, signora. Oh! Signore. In casa delle nostre amanti, signora, ripeté Crevel in tono melodrammatico e mutando posa per fare un gesto con la mano destra. Bene, signore, e con ciò? – disse tranquillamente la baronessa con grande stupore di Crevel. I seduttori delle meschine intenzioni non comprendono mai le anime grandi” (H. De Balzac, la cugina Betta)

I RUOLI DI MARITO E MOGLIE

“Dai primi giorni del suo matrimonio fino a quel momento, la baronessa aveva amato suo marito, così come Giuseppina aveva finito per amare Napoleone, di un amore fatto di ammirazione, di un amore materno, di un amore vile. Se ignorava i dettagli che Crevel le aveva dato poco prima, sapeva fin troppo bene che, da vent’anni, il barone Hulot le era infedele; ma si era messa sugli occhi un velo di piombo, aveva pianto silenziosamente, e mai una parola di rimprovero le era sfuggita. In cambio di quest’angelica dolcezza, aveva ottenuto la venerazione di suo marito e la quasi religiosa adorazione dei familiari. L’affetto che una donna porta a suo marito, il rispetto di cui lei lo circonda sono contagiosi in famiglia. Hortense credeva suo padre un perfetto modello di amore coniugale. Quanto a Hulot figlio, educato nell’ammirazione del barone, nel quale ognuno vedeva uno dei giganti che avevano sostenuto Napoleone, sapeva di dovere la sua posizione al nome, al posto e al prestigio paterno; del resto, le impressioni dell’infanzia esercitano un’influenza che dura a lungo, per questo egli temeva ancora suo padre. Perciò anche se avesse sospettato le infedeltà rivelate da Crevel, già troppo rispettoso per dolersene, egli le avrebbe scusate con delle ragioni tratte da quello che è, in materia, il modo di vedere degli uomini. A questo punto è necessario chiarire la dedizione straordinaria di questa bella e nobile donna, ed ecco in poche parole la storia della sua vita”.

“…In un villaggio situato sugli estremi confini della Lorena, ai piedi dei Vosgi, tre fratelli, di nome Fischer, semplici agricoltori, si arruolarono, a seguito delle requisizioni repubblicane, nell’esercito detto del Reno. Per una combinazione abbastanza naturale, Hulot, recatosi a Strasburgo, conobbe la famiglia Fischer. Il padre di Adeline e il suo fratello minore avevano allora l’appalto per la fornitura dei foraggi in Alsazia. Adeline, allora sedicenne, poteva essere paragonata alla famosa Madame du Barry, come lei figlia della Lorena. Era una di quelle bellezze complete, folgoranti, una di quelle donne simili a Madame Tallien, che la natura crea con una cura particolare; essa dispensa loro i suoi doni più preziosi: distinzione, nobiltà, grazia, finezza, eleganza, una carnagione speciale, un colorito impastato in quell’atelier misterioso nel quale opera il caso. Adeline Fischer, una delle più belle di questa famiglia di divinità, possedeva i caratteri sublimi, le curve armoniose, l’incarnato ammaliatore di quelle donne nate regine. La capigliatura bionda che nostra madre Eva ha ricevuto dalla mano di Dio, una figura da imperatrice, un’aria di grandezza, un profilo maestoso, una semplicità naturale fermavano al suo passaggio tutti gli uomini, incantati come lo sono gli intenditori davanti a un Raffaello; perciò, vedendola, l’ordinatore fece della signorina Adeline Fischer sua moglie, nei termini di tempo legale, con grande stupore dei Fischer, tutti cresciuti  nell’ammirazione dei loro superiori. Quel matrimonio fu, per la giovane contadina, come un’Assunzione. La bella Adeline passò direttamente dal fango del suo villaggio nel paradiso della corte imperiale. Infatti, in quel tempo, l’ordinatore, uno dei lavoratori più onesti e attivi del suo corpo, fu nominato barone, chiamato presso l’imperatore e assegnato alla guardia imperiale. La bella campagnola ebbe la forza di farsi un’educazione per amore del marito, che amava follemente.
L’ordinatore in capo era del resto, come uomo, la copia di Adeline. Apparteneva al fior fiore dei begli uomini. Alto, ben fatto, biondo, gli occhi azzurri d’uno splendore, di una vivacità, di una tonalità irresistibile, una figura elegante; si distingueva fra i d’Orsay, i Forbin, gli Ouvrard, insomma nella schiera degli uomini più belli dell’Impero”.

LA FIGLIA HORTENSE

La coppia ha due figli: Victorin, sposato a Célestine Crevel e Hortense che sposerà il conte Wenceslas Steinbock dal quale avrà un figlio: “Hortense rassomigliava a sua madre, ma aveva dei capelli d’oro, naturalmente ondulati e così fluenti da incantare. Il suo splendore era quello della madreperla. In lei si vedeva bene il frutto di una onesta unione, di un amore nobile e puro in tutta la sua forza. Vi erano una vivacità ardente nella sua fisionomia, una gaiezza nei suoi tratti, uno slancio di giovinezza, una freschezza di vita, una pienezza di salute che s’irradiavano intorno come vibrazioni elettriche. Hortense attirava lo sguardo. Quando i suoi occhi di un azzurro oltremare, nuotanti in quel fluido che in essi versa l’innocenza, si fermavano su un passante, questi trasaliva involontariamente. Peraltro, nemmeno una di quelle macchie di rossore che fanno pagare caro alle bionde dorate la loro lattea bianchezza, alterava il suo colorito. Alta, ben tornita, una figura slanciata, la cui nobiltà uguagliava quella della madre, lei meritava quel titolo di dea tanto spesso prodigato dagli antichi autori. Perciò, chiunque vedesse Hortense per la strada, non poteva trattenere questa esclamazione: Mio Dio! Che bella ragazza! E lei era così autenticamente ingenua che diceva rientrando: Ma che hanno, mamma, da gridare tutti che bella ragazza! Quando sei con me? Non sei più bella tu di me? Hortense divorzierà dal conte per la relazione che questi ha con Valérie Marneffe.

LA CUGINA BETTE:  un carattere da zitella

“Lisbeth Fischer, di cinque anni più giovane della signora Hulot, e figlia del maggiore dei Fischer, era lungi dall’essere bella come la cugina; perciò era stata straordinariamente gelosa di Adeline. La gelosia formava la base di quel carattere pieno di eccentricità, parola escogitata dagli inglesi per definire le bizzarrie non delle piccole ma delle grandi casate. Contadina dei Vosgi, in tutta l’accezione del termine, magra, bruna, con i capelli di un nero lucente, le sopracciglia folte e riunite in un ciuffo, le braccia lunghe e forti, i piedi grossi, qualche verruca sulla faccia lunga e scimmiesca, questo è il ritratto conciso della zitella. La famiglia, che viveva in comune, aveva immolato la figlia rozza all’altra graziosa, il frutto aspro al fiore splendente. Lisbeth lavorava la terra, mentre sua cugina era vezzeggiata; e così capitò che un giorno, trovando Adeline sola, tentò di strapparle il naso, un vero naso greco che le vecchie donne ammiravano. Benché picchiata per questa malefatta, lei continuò a lacerare i vestiti e a sciupare i collaretti della privilegiata. Al momento del matrimonio favoloso della cugina, Lisbeth si era piegata davanti a quel destino, come i fratelli e le sorelle di Napoleone si erano piegati davanti allo splendore del trono e alla potenza del comando. Adeline, infinitamente buona e dolce, si ricordò a Parigi di Lisbeth, e ve la fece venire, verso il 1809, con l’intenzione di strapparla alla miseria e di sistemarla. Nell’impossibilità di trovar marito, presto come Adeline avrebbe voluto, a quella ragazza dagli occhi neri, dalle sopracciglia scure come il carbone e che non sapeva né leggere né scrivere, il barone cominciò a darle un lavoro. Mise Lisbeth a bottega, come apprendista, presso i ricamatori della corte imperiale, i famosi fratelli Pons. La cugina, chiamata Bette per abbreviazione, divenuta operaia in passamanerie d’oro e d’argento, energica alla maniera dei montanari, ebbe il coraggio di imparare a leggere, a far di conto e a scrivere, poiché suo cugino, il barone, le aveva dimostrato la necessità di possedere quelle conoscenze per impiantare un laboratorio di ricamo. Lei voleva fare fortuna: in due anni si trasformò (Bette). Aveva finito per comprendere la vita vedendosi alla mercé di tutti; e, volendo piacere a tutti, rideva con i giovani ai quali piaceva per un certo modo di adulare che li seduce sempre, indovinava e prendeva a cuore i loro desideri, si rendeva loro interprete; appariva loro una buona confidente, poiché non aveva il diritto di rimproverarli. La sua discrezione assoluta le meritava la fiducia delle persone di età matura, perché possedeva, come Ninon, delle qualità maschili. In generale le confidenze vanno più verso il basso che verso l’alto. Negli affari segreti ci si serve più degli inferiori che dei superiori; essi diventano quindi i complici dei nostri più riposti pensieri, sono a parte delle nostre deliberazioni. Richelieu si considerò un uomo arrivato quando ebbe il diritto di assistere al Consiglio. Credevano che quella povera ragazza dipendesse talmente da tutti, da sembrare condannata a un mutismo assoluto. La cugina si soprannominava lei stessa il confessionale della famiglia. Solo la baronessa, causa i maltrattamenti subiti durante l’infanzia dalla cugina più forte di lei, benché più giovane, conservava una specie di diffidenza. Poi, per pudore, lei non avrebbe confidato che a Dio i suoi dispiaceri familiari. In tutto il romanzo è la persona che accorre sempre là dove c’è da dare un consiglio. Innamorata perdutamente del conte Wenceslas Steinbock, non fa nulla per sottrarlo dalle grinfie della cortigiana Valérie Marneffe, della quale diventa anzi la principale confidente. Corre da lei quando sa che sta per morire perché avvelenata, lei e suo marito Crevel, dal barone Montès de Montejanos, brasiliano che arriva a Parigi in cerca di fortuna. Morta per una spaventosa tisi polmonare ha “la soddisfazione suprema di vedere Adeline, Hulot, Hortense, Victorin, Steinbock, Célestine e i loro bambini tutti in lacrime intorno al suo letto, e che la piangevano come l’angelo della famiglia.

L’ambiente sociale del romanzo, i valori diffusi

Tutto il romanzo è la consacrazione della Borghesia all’apice dello splendore, verso la quale Balzac indirizza i suoi strali. L’ambiente cortigiano, impersonato da attrici, cantanti, da Marneffe e da altre donne è squallido, fin nei minimi dettagli. Corruzione, concussioni, favoritismi sono i mali della società parigina. Gli uomini che occupano dei posti di grande importanza, come il Consigliere barone Ector Hulot, ricorrono a loro per soddisfare i loro istinti, ma anche per corrompere altri funzionari dello stato. Le riflessioni di Balzac sono disseminate in tutto il romanzo: “Avete notato come, nell’infanzia, o all’inizio della vita sociale, ci creiamo spesso, a nostra insaputa, un modello con le nostre stesse mani? Così il commesso di una banca sogna, entrando nel salotto del principale, di possedere un salotto uguale. Se farà fortuna, non sarà, venti anni dopo, il lusso allora alla moda che egli introdurrà a casa sua, ma il lusso di quel tempo passato che lo aveva affascinato. Non si conoscono tutte le sciocchezze dovute a questa gelosia retrospettiva, così come s’ignorano tutte le follie dovute a quelle lotte segrete che spingono gli uomini a imitare il tipo ideale che si sono dati, a consumare le loro energie per arrivare a essere l’immagine riflessa di quell’ideale. Crevel fu assessore perché il suo principale era stato assessore, era comandante di battaglione perché aveva invidiato le spalline di César Birotteau. Perciò, colpito dalle meraviglie realizzate dall’architetto Grindot, nel momento in cui la fortuna era stata maggiormente favorevole al suo principale, Crevel, per usare le sue stesse parole, «non aveva messo tempo in mezzo» quando si era trattato di arredare il suo appartamento: si era rivolto, occhi chiusi e borsa aperta, a Grindot, architetto allora del tutto dimenticato. Non si sa quanto tempo possano durare le glorie estinte, sostenute dalle ammirazioni tardive!”. Molte sono le riflessioni che Balzac mette in bocca ai suoi personaggi: “La vita è un abito; quando è sporco, si spazzola; quando è bucato, si rammenda; ma si rimane vestiti finché si può”, dice Josépha, la prima fiamma del barone Ector Hulot, quando questi si precipita da lei per essere aiutato. Il libertinaggio di molti uomini che corrono dietro alle cortigiane del romanzo fa dire a Balzac: “Molte donne sposate, attaccate ai loro doveri e ai loro mariti, potranno domandarsi a questo punto perché quegli uomini così forti e così buoni, così facili alla pietà per delle signore Marneffe, non prendono le loro mogli, soprattutto quando somigliano alla baronessa Adeline Hulot, per oggetto del loro capriccio e delle loro passioni. Ciò ha a che fare con i più profondi misteri della natura umana. L’amore, questa immensa dissolutezza della ragione, questo virile e severo piacere delle grandi anime, e, il piacere, questa volgarità messa in vendita sulla piazza, sono due facce differenti dello stesso fenomeno. La donna che soddisfi questi due enormi appetiti, è, in tutto il sesso femminile, tanto rara quanto il grande generale, il grande scrittore, il grande artista, il grande inventore lo sono in una nazione. L’uomo superiore come l’imbecille, un Hulot come un Crevel, sente ugualmente il bisogno dell’ideale e quello del piacere; tutti vanno alla ricerca di questo misterioso androgino, di questa rarità che, nella maggior parte dei casi, è un’opera in due volumi! Questa ricerca è una depravazione dovuta alla società. Certo, il matrimonio deve essere accettato come un dovere, è la vita con i suoi tormenti e i suoi duri sacrifici, sostenuti in parti uguali da entrambi. I libertini, questi cercatori di tesori sono altrettanto colpevoli quanto altri malfattori più severamente puniti di loro. Questa riflessione non è un’aggiunta posticcia di morale: essa ci fa capire molte infelicità incomprese. Questa scena porta d’altronde con sé i suoi tratti di morale, che sono di vario genere”.

LA FAMIGLIA MARNEFFE

“La bellissima signora Marneffe, figlia naturale del conte Montcornet, uno dei più famosi luogotenenti di Napoleone, era stata data in sposa, con una dote di ventimila franchi, a un impiegato subalterno del Ministero della Guerra. Grazie all’influenza dell’illustre luogotenente generale, maresciallo di Francia negli ultimi sei mesi di vita, questo scribacchino arrivista era giunto al posto insperato di primo commesso nel suo ufficio; ma, al momento di essere nominato sotto-capo, la morte del maresciallo aveva completamente troncato le speranze di Marneffe e di sua moglie. L’esiguità del patrimonio del signor Marneffe, nelle cui mani si era già squagliata la dote della signorina Valérie Fortin, vuoi per il pagamento dei debiti dell’impiegato, vuoi per gli acquisti necessari a un giovane che mette su casa, vuoi, soprattutto, per le esigenze di una bella donna abituata in casa di sua madre a comodità cui non voleva rinunciare, aveva obbligato la famiglia a fare delle economie sull’affitto. La posizione della rue du Doyenné, poco distante dal Ministero della Guerra e dal centro parigino, piacque al signore e alla signora Marneffe, che da circa quattro anni abitavano nello stesso edificio della signorina Fischer. Il signor Jean-Paul-Stanislas Marneffe apparteneva a quella categoria di impiegati che resistono all’abbrutimento per quella specie di potenza che dà la depravazione. Quell’ometto magro, dai capelli e dalla barba radi, dal viso smunto, pallido, più sciupato che rugoso, gli occhi dalle palpebre leggermente arrossate e bardate di occhiali, dall’aria squallida e dal portamento più squallido ancora, era esattamente il tipo che ciascuno immagina quando pensa a un uomo tradotto in tribunale per oltraggio al pudore.
L’appartamento occupato dalla coppia, prototipo di molte coppie parigine, presentava le ingannevoli apparenze di quel falso lusso che regna in molte case. Nel salotto, i mobili ricoperti di velluto di cotone scolorito, le statuette di gesso che imitavano il bronzo fiorentino, il lampadario mal cesellato, semplicemente verniciato, con le padelline di cristallo stampate; il tappeto il cui basso prezzo si spiegava con la gran quantità di cotone introdotta dal fabbricante, ormai visibile a occhio nudo; tutto, fino alle tende che avrebbero potuto dimostrarvi come lo splendore del damasco di lana non resista tre anni, tutto parlava di miseria, come un povero straccione alla porta di una chiesa.
La sala da pranzo, mal tenuta da una sola domestica, presentava l’aspetto nauseabondo delle sale da pranzo degli alberghetti di provincia: tutto vi era macchiato d’unto e malandato. La camera del marito, abbastanza simile a quella di uno studente, arredata col suo letto da ragazzo, con i suoi mobili da scapolo, sporchi, consumati come lui, e rifatta una volta alla settimana; quell’orribile camera, dove tutto era in disordine, dove vecchi calzini pendevano su delle sedie scure di crine, i cui fiori riapparivano disegnati dalla polvere, rivelava bene l’uomo al quale la casa è indifferente, che vive fuori, a giocare nei caffè o altrove. La camera della moglie faceva eccezione alla degradante incuria che disonorava il resto dell’appartamento, dove le tende erano dappertutto gialle di fumo e di polvere, dove il bambino, evidentemente abbandonato a se stesso, lasciava in giro i giocattoli dappertutto. Situata nell’ala che riuniva, solo da un lato, la casa costruita sul davanti della strada al corpo dell’edificio addossato in fondo al cortile alla proprietà vicina, la camera da letto e lo spogliatoio di Valérie, elegantemente tappezzati in tela indiana, dai mobili in legno di palissandro, dai morbidi tappeti, facevano pensare a una bella donna e, diciamolo pure, a una mantenuta. Sulla mensola del caminetto, rivestita di velluto, era collocata la pendola allora di moda. Si vedevano un piccolo Dunkerque abbastanza ben fornito di oggettini rari, delle giardiniere in porcellana cinese lussuosamente lavorate. Il letto, la toilette, l’armadio a specchio, il canapè, i piccoli soprammobili d’obbligo mostravano la ricercatezza o la fantasia alla moda. Sebbene tutto ciò fosse di una ricchezza e di un’eleganza di terz’ordine e risalisse almeno a tre anni prima, un dandy non vi avrebbe trovato niente da ridire, se non che quel lusso era maledettamente borghese”.

 

Raimondo Giustozzi

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