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Dialoghi in corso. American ISIS: il terrorismo negli Stati Uniti all’indomani della guerra in Iraq

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Foto- Vice.com

Matt Kennard. (Articolo tratto  da Vice.com)

Per anni l’esercito americano ha reclutato neonazisti, criminali e membri delle gang da impiegare nella guerra al terrorismo. Ora stanno tornando a casa, con conseguenze potenzialmente tragiche.

Quello che segue è un estratto dalla postfazione del libro di Matt Kennard Irregular Army: How the US Military Recruited Neo-Nazis, Gang Members, and Criminals to Fight the War on Terror. L’ultimo libro di Kennard, The Racket: A Rogue Reporter vs. the Masters of the Universe, uscirà ad aprile.

Una settimana prima dell’uscita della seconda edizione di Irregular Army, a settembre del 2012, un reduce neonazista dell’esercito statunitense è entrato nel tempio sikh di Oak Creek, in Wisconsin, e ha ucciso sei fedeli. Così, un argomento che fino a quel punto non era mai riuscito ad attirare l’attenzione dei media americani—gli estremisti formatisi nei ranghi dell’esercito degli Stati Uniti—è improvvisamente finito al centro del dibattito.

Molti in America si sono chiesti come avesse fatto quel cultore della Supremazia Bianca a sopravvivere così a lungo all’interno dell’esercito. C’era qualcosa di strano. Ma la verità è che l’omicida del Wisconsin, Wade Michael Page, era solo uno dei tanti casi di militanti dell’estrema destra che nel corso degli ultimi vent’anni hanno sfruttato l’esercito statunitense per accedere ad artiglieria di primo livello e ricevere un addestramento militare. La semiautomatica usata da Page a Oak Creek, una Springfield calibro 9, era molto simile alla beretta M9, il corrispettivo civile della pistola in dotazione all’esercito. E i reduci neonazisti come Page non hanno mai nascosto il fatto di voler impiegare le conoscenze militari acquisite nella guerra razziale che vedevano dietro l’angolo. Il gruppo heavy metal di Page, gli End Apathy, era di per sé una chiamata alle armi. Nel 2010, in un’intervista rilasciata a un sito che promuoveva la supremazia bianca, Page dichiarava di voler “capire come fare a mettere fine all’apatia della gente,” e risvegliare le coscienze era proprio la missione del suo gruppo.

I dettagli che emergevano man mano sembravano confermare ciò che avevo scritto nel mio libro. La parte più scioccante di tutta questa storia è che durante il suo periodo nell’esercito negli anni Novanta, dieci anni prima della Guerra al Terrorismo, Page ammetteva tranquillamente di avere idee neonaziste. Ma questo non gli aveva impedito di fare carriera nell’esercito, guadagnandosi un posto nel dipartimento delle operazioni psicologiche. Dopo la sparatoria, il giornale indipendente dell’esercito americano Start and Stripe ha scritto che Page “si era avvicinato alle idee della supremazia bianca durante il suo periodo nell’esercito, e le applicava anche al modo in cui svolgeva il suo lavoro di soldato.” Page ha fatto parte dell’esercito dal 1992 al 1998. Verso la fine del suo periodo da soldato, l’esercito statunitense aveva cominciato a prendere posizione e condannare le idee di supremazia bianca, in particolare dopo che il paracadutista neonazista James Burmeister aveva ucciso una coppia di afroamericani (Carolina del Nord, 1995).

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Foto Vice.com

Il caso di Page è stranamente simile a quello di uno dei personaggi del mio libro: Forrest Fogarty, un reduce della Guerra al Terrorismo che ho conosciuto a Tampa, in Florida. Come Page, Fogarty era un neonazista. Come lui, era stato nell’esercito (in missione in Iraq dal 2003 al 2005); era anche membro degli Hammerskin, la frangia più violenta del movimento suprematista americano, e come Page, era il cantante di un gruppo rock neonazista. Fogarty aveva deciso di arruolarsi nel 1997, già coperto di tatuaggi razzisti, più o meno nello stesso periodo in cui a Page veniva negato il ri-arruolamento per via dell’alcolismo (e non per il neonazismo). Ho trovato alcune foto in cui Page suonava proprio con Fogarty. A quanto pare, l’esercito americano ha un debole per i rocker nazisti.

Nel seguire la vicenda, i media americani si sono limitati a riprodurre acriticamente la versione del Pentagono. Quando sono stato intervistato da Al Jazeera, i giornalisti si sono rivolti al Pentagono chiedendo spiegazioni circa le loro politiche contro gli estremisti. Un portavoce ha riferito che “la partecipazione in attività di stampo estremista non è mai stata tollerata.” L’interesse dei media è durato un paio di settimane, poi è calato di nuovo il silenzio. Ma nei due anni successivi, le minacce di cui parlavo si sono avverate con una regolarità spaventosa. Molte delle mie previsioni sulle ripercussioni di un decennio (e più) di estremisti incontrollati e infiltrazioni criminali si stavano avverando. Non molto tempo dopo il massacro al tempio sikh fu smascherata una milizia antigovernativa di soldati arruolati a Fort Stewart, dove aveva passato un periodo anche Fogarty. Il gruppo aveva già ucciso un soldato e la moglie e stava pianificando l’omicidio di Obama. Il pubblico ministero che ha seguito il caso sostiene che avessero speso quasi 90.000 dollari in armi e componenti per bombe.

Non molto tempo dopo, un membro della Guardia Nazionale del Missouri ha ammesso di essere coinvolto nell’addestramento di un gruppo di cultori della supremazia bianca, il Fronte Americano. Questi estremisti, come registrato nelle carte processuali, avrebbero commesso crimini d’odio indirizzati “alla propagazione del disordine civile.”

L’ondata di tragedie non si è fermata. Ad aprile del 2014, un veterano e “grande dragone” dei Cavalieri della Carolina del Ku Klux Klan, Franzier Glenn Miller, ha ucciso tre persone in due diversi centri ebraici di Kansas City. Miller era andato in pensione negli anni Novanta dopo vent’anni di servizio, incluse due missioni in Vietnam e 13 anni nei Berretti Verdi. Questi casi sono particolarmente preoccupanti, perché mostrano chiaramente l’entità del problema. Nel libro mi ero concentrato sugli anni della Guerra al Terrorismo perché in quel periodo anche le poche regole in vigore erano completamente saltate, ma i casi di Page e Miller dimostrano che la situazione era grave anche nel periodo antecedente. Nei prossimi vent’anni, gli Stati Uniti assisteranno sicuramente ad altre versioni di questi massacri, che coinvolgeranno veterani rientrati dalle guerre in Iraq e Afghanistan. Le cicatrici lasciate da queste guerre sono difficili da rimarginare, e forse impossibili da cancellare. L’esercito statunitense si è rifiutato di prendere sul serio il rischio rappresentato dai radicali arruolati nell’esercito. E i suoi stessi soldati, insieme alla popolazione che avrebbero dovuto difendere, ne stanno pagando il prezzo. Ci sono altre bombe a orologeria che, al contrario di Miller e Page, non sono ancora esplose.

Ma non sono soltanto i militari sostenitori della supremazia bianca e i veterani a costituire un problema. Molti altri tra quelli evidenziati nel libro (dall’incapacità dell’esercito nel gestire lo stress-post traumatico dei reduci alle difficoltà economiche di questi ultimi) stavano tornando ad affliggere la popolazione statunitense. Nel caso di Page, per esempio, a trasformarlo in un assassino è stata una serie di fattori. Come molti altri veterani, in seguito alla crisi economica gli era stata pignorata la casa. Il mix tossico di stress post-traumatico, estremismo, e crisi economica è molto ricorrente. A maggio del 2014, il Sergente dei Marine Andrew Tahmooressi, reduce dell’Afghanistan in cura per disturbo da stress post-traumatico, è stato arrestato in Messico per possesso illegale di una grande quantità di armi.

Lo stesso era avvenuto nel 2013, quando il Marine Aaron Alexis aveva ucciso 12 persone al Washington Navy Yard. Alexis è l’emblema dei problemi che affliggono l’esercito americano alle prese con le conseguenze della guerra. Gli erano state assegnate due delle medaglie più importanti dell’esercito statunitense, e aveva servito il suo paese con onore per quattro anni. Ma era stato arrestato due volte per aggressione armata: la prima volta nel 2004, prima che facesse domanda per l’esercito, e la seconda volta, che gli è costata il congedo, nel 2010. Era in cura presso l’associazione che si occupa della salute mentale dei veterani. Il padre di Alexis ha dichiarato che il figlio aveva problemi di “gestione della rabbia,” associati a disordine da stress post traumatico.

Come ho scritto nel libro, il disturbo post-traumatico da stress affligge probabilmente fino al 30 percento dei veterani, e nonostante i nuovi finanziamenti, il trattamento psicologico è spesso inadeguato. Manca la volontà di cambiare veramente le cose. Un veterano della guerra in Iraq, Omar Gonzalez, era così arrabbiato che, nel settembre del 2014, ha fatto irruzione nella Casa Bianca ed è riuscito a oltrepassare cinque barriere di sicurezza prima di essere fermato. Gli era stato diagnosticato il disturbo post-traumatico da stress dopo che aveva affrontato tre missioni in Iraq. Durante una di queste aveva perso parte di un piede. Al rientro negli Stati Uniti le cose non sono migliorate: ha divorziato e si è ritrovato a vivere per strada. I veterani traumatizzati sono una minaccia soprattutto per se stessi—si stima che ogni giorno negli Stati Uniti si tolgano la vita 22 veterani—ma è sempre più comune che riversino la loro rabbia sugli altri. Eppure l’esercito sembra non farci caso.

In seguito al massacro alla Navy Yard, un ispettore generale del Pentagono ha scoperto che 52 pregiudicati accedevano quotidianamente alla zona militare senza autorizzazione, “mettendo a rischio il personale militare, i dipendenti, i civili e le strutture.” La stampa non ha speso una parola sull’enorme numero di pregiudicati e altri criminali reclutati coscientemente dall’esercito americano.

Il massacro della Navy Yard è la seconda strage per dimensioni avvenuta in una base statunitense, superato solo dal caso del militare ed estremista islamico Nidal Malik Hasan, che nel novembre del 2009 uccise 13 soldati a Fort Hood. La minaccia incontrollata alle installazioni militari da parte dei soldati si è fatta più consistente ad aprile del 2013, quando in Texas Ivan Lopez, un altro soldato statunitense in cura per problemi di depressione e ansia, ha innescato una sparatoria in cui sono rimaste uccise tre persone, oltre a lui. Gli investigatori hanno concluso che, come Alex a Washington, a fare da molla sarebbe stata la condizione mentale di Lopez. Come si è successivamente scoperto, non gli era stato prescritto un trattamento adeguato. Lopez, che aveva servito in Iraq, e i suoi problemi psicologici erano sembrati troppo poco seri per un congedo prematuro. La calibro 45 con cui Lopez ha ucciso i commilitoni era stata acquistata nello stesso negozio di Killeen, in Texas, in cui si era servito Hasan cinque anni prima.

La maggior parte degli omicidi descritti finora ha fatto scalpore perché si tratta di cittadini americani. Ma le conseguenze del fenomeno sono più estese. Nel 2013 il New York Daily News scriveva: “i cartelli della droga messicani reclutano soldati americani come sicari, offrendo migliaia di dollari per assassinare informatori federali e membri di organizzazioni criminali rivali negli Stati Uniti.” La storia è stata ripresa in tutto il Paese. “Negli scorsi anni ci sono stati casi di uomini dell’esercito implicati in attività di questo tipo,” ha detto a fox News Fred Burton, il vicepresidente della Stratfor Global Intelligence. E questo, ha aggiunto, “non può non destare preoccupazione.” Ci sono voluti quasi dieci anni perché una notizia del genere arrivasse all’informazione mainstream, e c’è arrivata solo perché adesso l’America si sente minacciata.

In questo libro cito casi come quello dell’ex militare Michael Jackson Apodaca, che nel 2009, in concomitanza con la sua attività di soldato a Fort Bliss, aveva stretto un accordo col cartello di Juárez. Apodaca è stato condannato all’ergastolo. Senza più il peso dell’occupazione militare su due fronti, adesso l’esercito degli Stati Uniti ha ammesso apertamente di aver aperto le porte a criminali e gang in periodi in cui c’era bisogno di personale. “A una persona come Apodaca oggi non sarebbe permesso neanche di fare richiesta,” ha dichiarato il Soldato Maggiore Joe Buccino, portavoce di Fort Bliss. “Siamo molto più selettivi rispetto ai tempi del massimo impegno in Iraq.” Sfortunatamente le cose non stanno esattamente così.

Ma mantenere il silenzio stava diventano sempre più difficile. A maggio del 2014, l’ex avvocato del Cartello del Golfo, Juan Jesus Guerrero-Chapa, è stato ucciso a Forth Worth, in Texas. “La natura dell’omicidio e le modalità di esecuzione fanno pensare a un’organizzazione che è addestrata a questo tipo di attività,” ha dichiarato dopo l’attacco il capo della polizia di Southlake Stephen Mylett. Mylett ha aggiunto che l’azione era stata portata a termine da “killer di professione,” rifiutandosi tuttavia di specificare se i responsabili potessero aver avuto un passato militare. A questo si aggiunge il caso di due membri di una gang di Los Angeles che, si ipotizza, sarebbero andati in Siria per combattere con le milizie legate al dittatore siriano Bashar al-Assad, forse per le stesse ragioni per cui si erano infiltrati nell’esercito americano: addestramento e armi.

Questi fatti hanno attirato l’attenzione dei media solo perché sono accaduti negli Stati Uniti, ma non serve troppa fantasia per ipotizzare che casi del genere si siano verificati anche in Iraq e Afghanistan. Quanti massacri come quello del tempio sikh, quanti Fort Hood in Iraq e Afghanistan? Non lo sapremo mai. Tutti i massacri di cui si sono macchiate le truppe statunitensi sono sempre stati negati, finche la verità non è venuta a galla. Il motto è: negare, negare, e negare, almeno finché il peso delle contraddizioni non lo rende impossibile. Nella maggior parte dei casi, siamo venuti a sapere di soldati americani coinvolti in attività criminali solo quando questi hanno commesso un errore al loro ritorno, dove le leggi non potevano essere ignorate così facilmente.

Forse proprio come conseguenza della sofisticazione militare dell’ambiente criminale, anche la militarizzazione della polizia statunitense si è accentuata. Questo potrebbe avere esiti problematici non solo per i cartelli, ma anche per i cittadini americani che vogliono esercitare i diritti sanciti dal Primo Emendamento. Oggi i cittadini si trovano a scontrarsi con forze dell’ordine pesantemente armate e inclini a adottare una condotta di guerra anche nelle strade americane. Gli agenti incaricati di “mettere pace” tra la comunità nera di Ferguson nel 2014 in seguito all’uccisione di un adolescente disarmato da parte della polizia erano l’immagine del futuro.

I media hanno continuato a ignorare i problemi dell’esercito statunitense perché questa linea era in contraddizione con la favola della Guerra al Terrorismo, una linea che i media stessi hanno contribuito a costruire e sostenere. I massacri individuali e le atrocità vengono seguite al punto della saturazione, ma senza mai parlare del contesto. Era inconcepibile anche che persone con posizioni di primo piano come l’ex segretario della difesa Donald Rumfeld potessero essere ritenute responsabili. Forse questo è il motivo della tanta sorpresa che accompagna un episodio di violenza: gli americani si sentono dire che si tratta di singole anomalie, non dei prodotti di un esercito che permette agli estremisti di arruolarsi e ignora i veterani marginalizzati. Più eviteranno di parlarne, più il problema crescerà, e maggiore sarà la violenza.

Nella primavera del 2014, dopo l’attacco antisemita vicino a Kansas City, il New York Times ha pubblicato un pungente pezzo di opinione in cui si metteva in luce il problema di soldati e veterani radicalizzati. L’autrice, Kathleen Belew, una dottoranda che sta lavorando a un libro sul Vietnam e l’estrema destra, chiedeva: “[Miller] sarebbe stato trattato con maggiore attenzione se fosse stato musulmano, o straniero, non bianco, non un veterano? La risposta è ovvia e preoccupante.” In seguito alla pubblicazione dell’articolo, Belew è letteralmente finita sotto attacco.

Praticamente nessuno di quelli che hanno parlato della criticità della situazione nell’esercito degli Stati Uniti dall’interno è riuscito ad uscirne con la reputazione o la sua carriera intatte. Dopo la pubblicazione di Irregular Army, sono entrato in contatto con molti di quelli che avevano trovato il coraggio di esporre il problema già durante la Guerra al Terrorismo. Quando nel 2009 il dipartimento per la Sicurezza interna ha pubblicato un rapporto in cui evidenziava la minaccia rappresentata dall’estremismo di destra, la Segretaria del dipartimento Janet Napolitano si era scusata con i veterani per le accuse contenute nel rapporto. Daryl Johnson, in capo al team di analisti che ha steso il rapporto, è stato mandato in prepensionamento in seguito alle feroci critiche degli ufficiali del dipartimento, dell’esercito e di alcuni membri del Congresso. Nonostante le sue dichiarazioni appaiano oggi sempre più fondate, Johnson ha dovuto lasciare il dipartimento per la Sicurezza interna e oggi è un consulente. Lo stesso è successo ad altri che hanno osato portare alla luce il problema, dal Sergente Jefrey Stoleson, che ha messo in guardia i suoi superiori dalle infiltrazioni di membri delle gang nella sua unità, all’investigatore Scott Barfield, che è stato attaccato ferocemente per aver dato l’allarme sulle infiltrazioni della supremazia bianca nell’esercito degli Stati Uniti.

Quando sono stato intervistato dalla stampa, l’attenzione era sempre indirizzata sul capire cosa volessero dire quelle scoperte per i cittadini americani. Nessuno si è chiesto quale fossero le conseguenze di quello che avevo raccontato sulle popolazioni in Afghanistan o Iraq. Dieci secondi prima di apparire sulla MSNBC in un dibattito che mi vedeva opposto a un colonnello in pensione, il produttore mi ha sussurrato. “Matt.. cerca di andarci piano con gli stupri e i massacri.” Ho accennato una risata, ma lui era estremamente serio. Ho resistito alla tentazione di iniziare il mio intervento dicendo “Sappiamo tutti ci sono stati un sacco di stupri e massacri in Iraq” e mi sono comportato bene, nonostante il presentatore abbia insinuato che avrei scritto il libro per ragioni economiche.

Queste guerre sono ancora ben lontane dall’essere concluse, come dimostrano i raid sulle postazioni dell’Isis in Iraq e Siria. Dopo che per anni ci siamo sentiti dire che le truppe avrebbero lasciato l’Afghanistan alla fine del 2014, all’avvicinarsi della data Obama ha annunciato che 9.800 unità sarebbero rimaste nel paese fino al 2016, l’anno del termine del suo mandato. Molti predicono che a ritiro concluso i talebani seguiranno i passi dell’Isis e riprenderanno il controllo del Paese. Come in Vietnam, anni di guerra, milioni di morti e incredibili somme di denaro porteranno soltanto a un mondo ancora più pericoloso. Gli ultimi 13 anni di guerra sono stati un lungo incubo per le popolazioni dell’Iraq e dell’Afghanistan, come per i soldati statunitensi che erano lì a occupare quei paesi. Il futuro non sembra roseo. Né per loro né per gli americani, che adesso si trovano a dover affrontare la minaccia rappresentata dai loro stessi soldati e veterani.

Matt Kennard è un ricercatore del Centre for Investigative Journalism di Londra.

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