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Banche italiane, la vera questione è il «modello Matusalemme»: incarichi ai «soliti»

Corriere.it

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di Federico Fubini – corriere.it

In 13 istituti sempre gli stessi nomi al vertice. E ruoli che passano di padre in figlio. La fotografia dei rapporti di potere locali, ossificati e debilitati dai conflitti di interesse

Mezzo millennio per tredici cognomi: in Italia tredici piccoli banchieri locali — a volte, con l’aiuto delle loro dinastie — esprimono per la precisione 446 anni di potere sull’allocazione del credito a famiglie e imprese. Se solo la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche non si occupasse quasi solo di regolamenti dei conti politici, scoprirebbe forse che le cause profonde delle perdite subite dai risparmiatori non vanno cercate in qualche incontro riservato o complicità fra alte cariche istituzionali.

La pistola fumante è sotto gli occhi di tutti: sono i rapporti di potere locali, ossificati e debilitati dai conflitti d’interesse resi endemici dal tempo, che congelano per decenni il governo di gran parte delle banche finite in dissesto e di molte altre. Quando per esempio nel luglio del 2015 lascia travolto dal naufragio dell’azienda e dai suoi stessi abusi, Vincenzo Consoli guida Veneto Banca da 17 anni. Quando tre mesi dopo si dimette dalla presidenza della Popolare di Vicenza, affondato dal dissesto e dalle inchieste, Gianni Zonin ha 77 anni e gli manca poco per completare vent’anni di potere nell’istituto. A Carige Giovanni Berneschi ha regnato per un quarto di secolo — direttore generale, poi amministratore delegato — prima di lasciare a 76 anni una banca in ginocchio e subire a una condanna per associazione a delinquere.

I banchieri-matusalemme d’Italia ovviamente non finiscono qui. Sembra quasi un principiante Massimo Bianconi, che guida Banca Marche (verso il crac) per appena undici anni e mezzo. Lo sembra a confronto di Denis Verdini, per vent’anni presidente del Credito cooperativo fiorentino e di recente condannato in primo grado a 9 anni per bancarotta. E a sua volta il senatore del gruppo Ala viene battuto dal cardiologo Leopoldo Costa, per 25 anni uomo forte della Banca padovana di Campodarsego salvata in extremis ad opera della Bcc di Roma (il cui presidente, l’ottantenne Francesco Liberati, è ai vertici da quando trent’anni fa diventò direttore generale).

Quasi banale in questo quadro è poi il curriculum del dentista Amedeo Piva, che nel 2014 si dimette dalla Banca del Veneziano in dissesto dopo vent’anni al timone. Non tutti i poteri interminabili finiscono in rovina, anche se spesso coincidono con situazioni delicate. Al Credito Valtellinese, che ha in corso un maxi-aumento di capitale essenziale alla sopravvivenza, il 79enne Giovanni De Censi è ai vertici da 36 anni: direttore generale, amministratore delegato, quindi presidente e dal 2016 presidente onorario. Alla Popolare di Sondrio, più robusta, Piero Melazzini ha operato ai vertici per 45 anni prima di lasciare a 84 anni, pochi mesi prima di morire. E Enrico Fabbri ha presieduto la Popolare di Lajatico (Pisa) dal primo choc petrolifero fino a dopo la crisi dell’euro.

 

Spiccano poi i fenomeni dinastici del Sud. La Banca Popolare Pugliese nelle varie incarnazioni viene guidata per 80 anni da un Primiceri, il padre Giorgio o il figlio Vito. La Popolare di Bari dopo 57 anni è alla terza generazione di leadership della famiglia Jacobini. Interessante anche il caso di Banca Popolare Etica: il fondatore di 19 anni fa è l’attuale presidente Ugo Biggeri, un ingegnere ambientale che da allora ha quasi sempre ricoperto cariche di vertice nel gruppo e oggi (in potenziale conflitto d’interessi) guida anche la società di gestione del risparmio a esso collegata.

In tutto fa quasi mezzo millennio di potere, e la lista potrebbe continuare. Alcune di queste aziende si trovano in un passabile stato di salute, ma nel complesso il nesso fra la lunghezza dei mandati al vertice e i dissesti bancari sembra evidente. Il passare del tempo radica reti di clientele locali, scambi di favori fra politici, notabili e manager e credito concesso a progetti improbabili. Spesso — non sempre — ciò avviene in istituti popolari o di credito cooperativo, dove una testa vale sempre un voto e la tendenza dei presidenti a concedere prestiti facili ai propri (ri)elettori in assemblea porta poi ai default bancari. Così in Italia la ricchezza si è trasferita dai risparmiatori a certi debitori insolventi. Non a caso uno studio recente di Fabiano Schivardi, Enrico Sette e Guido Tabellini rivela ciò che era legittimo sospettare: nel Paese durante la crisi le imprese-zombie, quelle improduttive, hanno ricevuto relativamente più credito di quelle sane.

1 commento a Banche italiane, la vera questione è il «modello Matusalemme»: incarichi ai «soliti»

  • gioacchino di martino

    Indubbiamente un filo di luce nell’opacità del sistema di potere italiano e che fa nascere subito una riflessione: può un Paese essere governato quando esistono tanti poteri indipendenti, che di fatto rispondono solo ad interessi particolari, e magari anche contrari agli indirizzi nazionali? Forse c’è troppo Stato dove non ci dovrebbe essere e troppo poco dove dovrebbe essere l’attore principale.

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