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Economia. Tutto quello che Bankitalia non ha visto.

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 27-10-2016 Roma Politica Giornata Mondiale del Risparmio Nella foto Ignazio Visco Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 27-10-2016 Rome (Italy) Politic World Savings Day In the pic Ignazio Visco

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 27-10-2016 Roma

 

Roberta PaoliniDal numero di pagina99 in edicola il 10 dicembre 2016 

Etruria, Marche, Popolari Venete. La madre di tutti i disastri: Mps. Molti nodi sono venuti al pettine solo grazie alla Bce. E il controllo di palazzo Koch?

Monte dei Paschi. Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Etruria, Carife, Marche, Caricheti. Carim e Caricesena. Il film dell’Italia bancaria degli ultimi 20 mesi è una sequenza in nero di crisi e fallimenti, irregolarità nella gestione, aumenti di capitale a cui sono succeduti commissariamenti, risoluzioni. E anche quando di mezzo non ci sono le procure, la fotografia è a tinte fosche. Nel 2012, le sofferenze lorde degli istituti italiani ammontavano a 118 miliardi di euro, a settembre 2016 siamo a 200 miliardi. Il valore più alto in Europa. È lecito chiedersi se chi aveva il dovere di vigilare lo ha fatto in maniera corretta e sempre imparziale? Il sistema di controlli che fa capo a Bankitalia funziona? Il ruolo di via Nazionale nella crisi del sistema del credito italiano è stato più volte richiamato in questi mesi, fino a far nascere in Parlamento la proposta di una commissione di inchiesta, sostenuta da Pd, Forza Italia, M5s, Lega, poi rimasta lettera morta. Ora le crepe nella fortezza di palazzo Koch si allargano.

Il caso Etruria

Con la sentenza di Arezzo che assolve i manager di Banca Etruria dal reato di ostacolo alla vigilanza, Via Nazionale vive uno dei suoi momenti più difficili. Il Tribunale aretino la settimana scorsa ha stabilito che gli ex manager dell’istituto, finito in risoluzione nel 2015, venissero assolti perché il fatto non sussiste, per quanto riguarda l’operazione relativa alla cessione di gran parte del patrimonio immobiliare, e perché il fatto non costituisce reato per mancanza di dolo nell’ambito delle comunicazioni non veritiere riguardanti le sofferenze.

Bankitalia, che si è costituita parte civile nel processo, si è difesa spiegando che la sentenza «non si riferisce a fatti che hanno portato all’amministrazione straordinaria e risoluzione della banca Etruria», ma a episodi precedenti che erano già stati sanzionati. Ma resta il dato finale, il foro aretino ha detto che non ci fu ostacolo alla vigilanza. Se Etruria è arrivata alla risoluzione è legittimo chiedersi se Via Nazionale abbia svolto correttamente il suo operato?

 

Il collasso del sistema veneto

Ma è nella vicenda delle popolari venete che il ruolo della Vigilanza vive la sua dimensione più critica. Nel 2013 e 2014 Banca Popolare di Vicenza vara due rafforzamenti patrimoniali per un ammontare di complessivi di 1,2 miliardi. Il secondo aumento in particolare annunciato da Gianni Zonin e Samuele Sorato, allora presidente e direttore generale della Vicenza, serviva a sostenere acquisizioni. Negli stessi mesi a Montebelluna, dove ha sede Veneto Banca, Bankitalia si scatena. Nel giro di breve tempo il management che ha governato l’istituto per oltre un decennio viene messo all’angolo e nel 2014 i vertici della banca vengono invitati a farsi da parte. Inoltre Via Nazionale “suggerisce” a Montebelluna di fondersi con un istituto con alta reputazione.

A fine 2013 Zonin convoca il presidente e l’amministratore delegato di Veneto Banca presso la sua tenuta di Aquileia, comunicando che l’istituto avrebbe dovuto fondersi con la Popolare di Vicenza, sostanzialmente senza condizioni, in quanto la Popolare di Vicenza era la “banca di primario standing” cui si riferiva la Banca d’Italia. Ma il tempo scade prima. A fine 2014 scatta il via alla vigilanza europea e all’appuntamento con i test si scoprono una serie di cose. La prima era che Vicenza si trovò costretta nella notte tra il 25 e il 26 ottobre (giorno in cui venivano pubblicati i risultati dei test di Francoforte) a richiamare il convertendo da 253 milioni per evitare di andare sotto i parametri.

Successivamente l’ispezione di Bce mise alla luce l’esistenza di azioni baciate, cioè acquistate con finanziamenti, che quindi dovevano essere espunte dal capitale. L’impatto negativo sotto il profilo patrimoniale era di circa 1 miliardo di euro, registrato dalla banca nella relazione semestrale al 30 giugno e nel bilancio d’esercizio 2015. Inoltre il deterioramento dei crediti comportava la contabilizzazione di 1,3 miliardi di euro di rettifiche di valore nel bilancio 2015 (+54% rispetto all’anno precedente).

 

Vicenza deve dunque dare il via a un aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro.

I titoli baciati vennero rilevati anche in Veneto Banca, già segnalati nelle ispezioni di Bankitalia e successivamente da quelle sotto l’egida di Bce. I valori però furono molto più bassi: 300 milioni. Mentre la situazione patrimoniale risentì anche qui del deterioramento del portafoglio creditizio con 700 milioni di rettifiche. Per ripristinare i ratios patrimoniali a Montebelluna servirà 1 miliardo di aumento. Possibile che Bankitalia fosse all’oscuro di quello che avveniva alla popolare di Vicenza che nel 2014 tentò di acquistare Etruria, poi si disse interessata a Carife e prima ancora alla piccola Popolare di Marostica? Le condizioni dell’ultima ispezione di Bankitalia, risalente al 2012 – che si concluse senza sanzioni né segnalazioni alla procura – avevano fatto emergere forse un quadro patrimoniale che avrebbe consentito di sostenere quelle operazioni?

Nel 2012 la Vicenza contabilizzava regolarmente i prestiti ai soci e le garanzie a essi relative? Perché Bankitalia non chiese delucidazioni sull’aumento di capitale emesso dall’istituto nel 2014? E perché Gianni Zonin è rimasto beatamente al vertice della banca fino a novembre 2015 senza che nessuno chiedesse di lasciare il suo posto?

La risposta di via Nazionale è stata questa: «Nel corso del 2014 emerse che la BPV acquistava azioni proprie senza aver prima richiesto l’autorizzazione alla Vigilanza. In quella fase la Banca d’Italia era impegnata nell’esercizio di CA (comprehensive assessment, ndr) in vista del passaggio all’Mvu (Meccanismo di vigilanza unico). D’intesa con le nuove strutture europee di vigilanza, la Banca d’Italia inserì, tra gli obiettivi di un’ispezione programmata per l’inizio del 2015, l’operatività in azioni proprie».

 

L’intrigo marchigiano

Di stranezze ce ne sono molte altre. Per esempio Banca Marche. Ne scrisse ancora l’Espresso a fine 2015. Nel 2011 la Vigilanza fa un’ispezione nell’istituto marchigiano, l’esito è pesantissimo e obbliga ad un aumento di capitale. A dicembre di quell’anno la Commissione presieduta da Giuseppe Vegas chiede delucidazioni all’Autority presieduta da Visco. Le risposte arrivano, incomplete, a fine dicembre. Ma il 9 gennaio Visco invia una lettera ultimatum al consiglio di amministrazione dell’istituto in cui si chiede una svolta nella gestione: se le indicazioni fornite non fossero state rispettate l’esito sarebbe stato il commissariamento. Che puntualmente arriva a settembre 2013. Consob intanto a febbraio del 2012 dà il via libera all’aumento di capitale con le informazioni deficitarie della missiva di Visco. Solo a giugno del 2012, a ricapitalizzazione compiuta, il consiglio di Banca Marche ammette dell’esistenza della lettera, ma senza consegnarla. E la Vigilanza? I funzionari di Visco consegnano la lettera vergata dal loro presidente il 22 agosto 2013. Dopo una manciata di settimane Banca Marche viene commissariata.

 

L’odissea del Monte

Infine Mps, la madre di tutti i disastri, sulla quale la Vigilanza si è molto esercitata negli anni. Eppure si è dovuto attendere che fosse la Bce a dare l’ultimatum questa primavera, con la richiesta di ripulire Rocca Salimbeni da 10 miliardi di sofferenze. Al centro del processo che ha portato al rinvio a giudizio gli ex vertici di Mps tra cui il suo dominus Giuseppe Mussari, ci sono i prestiti ibridi Fresh 2008 e i derivati Santorini e Alexandria che sarebbero serviti a coprire le perdite dell’Istituto.

Il 29 gennaio 2013, Vittorio Grilli, allora ministro dell’Economia, dichiarava alle Commissioni Finanze di Camera e Senato, che «l’azione di vigilanza della Banca d’Italia sul Monte dei Paschi di Siena negli ultimi anni è stata continua e di intensità crescente e si è articolata sulle principali aree rilevanti della gestione: l’adeguatezza del capitale, la prudente gestione della posizione di liquidità, i rischi finanziari e in particolare il rischio di tasso di interesse, le dinamiche del consistente portafoglio titoli di Stato italiani in larga parte a lungo termine, la qualità del credito, la verifica dei modelli interni di misurazione dei rischi di credito e operativi, l’adeguatezza del management e del sistema dei controlli interni». Cos’è andato storto allora? Per capire come si sia potuti arrivare al quasi fallimento della terza banca italiana bisogna fare un passo indietro.

A gennaio del 2008 Mps presenta alla Banca d’Italia l’istanza per l’acquisizione del gruppo Antonveneta da Abn Amro, nell’ambito di un accordo quadro con il Banco Santander. Il valore dell’operazione ammontava a circa 9 miliardi, scrisse l’allora governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in un documento firmato il 17 marzo 2008. E infatti il via libera di Bankitalia arrivò condizionato a una mega operazione di ricapitalizzazione e di emissione di strumenti ibridi da 8 miliardi. In realtà, il costo finale dell’acquisizione fu molto più alto, intorno ai 17 miliardi, perché Antonveneta aveva un debito con Abn Amro per 7,9 miliardi di euro.

Ancora nel 2009, un’ispezione sui derivati Santorini e Alexandria, si conclude senza «elementi probanti per avviare una procedura sanzionatoria o una segnalazione all’Autorità Giudiziaria». È solo nel 2012 con l’arrivo di Alessandro Profumo che magicamente si materializzano i documenti. Ecco il passaggio: «Con lettera del 15 ottobre 2012, Mps comunica alla Vigilanza che il 10 ottobre i nuovi amministratori di Mps hanno rinvenuto un contratto con data 31 luglio 2009 tra Banca Monte dei Paschi di Siena e Nomura, attinente alla ristrutturazione del titolo Alexandria.

Si tratta di un contratto “quadro”, che comprova il collegamento tra la ristrutturazione del titolo Alexandria e le operazioni eseguite con Nomura e fornisce elementi circa le reali finalità delle operazioni». Insomma le carte erano state tenute nascoste. Bankitalia è stata ripetutamente ingannata da tutti. Nel caso di Mps, poi, nemmeno il Testo unico per la finanza è riuscito a proteggere via Nazionale dagli inganni, quando all’articolo 19 prevede che l’autorizzazione preventiva a operazioni di acquisizione può essere data «quando ricorrono condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente della banca, valutando la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione».

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