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Cultura. La strada verso Coldigioco.

La strada verso Coldigico

 

La strada verso Coldigioco” è un altro libro scritto da Giovanna Legatti, stampato nel mese di luglio 2009 presso G. S. Copy, Via Urbino 34, Macerata. E’ un’autobiografia di Giovanna Legatti, attraverso la quale, “La maestra d’Italia”, così chiamata in un articolo pubblicato da “Libertà” di Piacenza in occasione della sua morte avvenuta a Frontale (Apiro- Macerata) nell’aprile del 2012, ripercorre le sue tappe scolastiche dall’infanzia al giorno in cui varcò per la prima volta la Scuola Elementare come maestra. L’adesione alle tecniche d’insegnamento fatte proprie dal Movimento di Cooperazione Educativa, conosciuto in un convegno al quale partecipa come curiosa, la porta da Vigolzone, paese in provincia di Piacenza, a Coldigioco, contrada di Frontale, frazione di Apiro in provincia di Macerata, nelle Marche.

Il volumetto di duecento diciotto pagine, scritte con un linguaggio lineare, è diviso in tre parti. Nella prima parte, Dalla gemma al fiore, Giovanna Legatti ripensa alle prime esperienze scolastiche come alunna, alla propria giovinezza trascorsa come insegnante in alcuni paesi in provincia di Piacenza fino all’arrivo nella scuola di Coldigioco nelle Marche. Nella seconda parte, dal titolo Il giardino dei ricordi, ritorna con la memoria alle attività scolastiche proposte nella scuola di Coldigioco e agli alunni di quella scuola: Alberto, Graziella, Angela, Minuccio, Agostino, Daniela, Gilberto, per altro già citati nell’altro libro “Coldigioco – una scuola comunità secondo Freinet”, scritto dalla stessa e pubblicato nel 1978, nel quale riportava la personalità, il carattere, la vita, i testi dei suoi scolari. La terza parte del libro “La strada verso Coldigioco” ospita una serie di Documenti che risalgono al periodo in cui Giovanna Legatti era maestra a Vigolzone, le tecniche del MCE e la corrispondenza scolastica tra l’Istituto Magistrale e la Scuola Elementare, a cura di Renata Scaramuzza. Il volumetto termina con una scheda biografica relativa a Giovanna Legatti.

Al secondo anno di scuola elementare, la piccola Giovanna Legatti è costretta a stare a casa per una settimana, causa malattia. Proprio in quei giorni di assenza, la maestra “aveva insegnato a fare la divisione con due cifre al divisore. Io, come la maggior parte delle mie compagne, nutrivo uno strano sentimento fatto di amore- timore nei confronti della mia maestra. Chiedo pertanto ad una mia amichetta di spiegarmi come si faceva a fare quel tipo di divisione. L’amichetta me l’aveva spiegato sommariamente come fa un bambino quando spiega ad un altro la dinamica di un gioco nuovo che lui ben conosce, ma il compagno no. Al mio primo perché rivolto alla facente funzione di maestra, mi ero sentita rispondere: Ma sei proprio un’asina” (pag. 98). Giovanna ci rimane male, quando le accade un altro fatto. La maestra aveva spiegato un teorema. Chiama alla lavagna chi se la sente di farne la dimostrazione. La bambina si alza, va alla lavagna e fa la dimostrazione del teorema. La maestra: “Solo Legatti, che non ama la Matematica l’ha capito”. Da quel giorno, Giovanna decide di non amare davvero la Matematica.

I Cinque anni di Scuola Elementare passano in fretta. Frequenta la Scuola Magistrale e conseguito il diploma nel 1940, chiede di essere assegnata in tirocinio volontario presso la Scuola Giordani di Piacenza nella classe della “signorina Pizzigati, romagnola, schietta, affabile, prossima al pensionamento” (pag. 19). La maestra romagnola, al termine dell’anno le lascia in dono un certo numero di quaderni, dicendole: “Sono quaderni di una mia prima classe, teneteli, vi saranno di aiuto”. La scuola frequentata come alunna, l’Istituto Magistrale, questa prima esperienza scolastica come tirocinante, disegnano i contorni di una scuola inamovibile dove i valori portanti sono: la disciplina, dettato, compito, interrogazione. L’alunno è una variabile del tutto indipendente. Prima viene il programma, poi lui. Non c’è nessuna attenzione alla sua personalità, ai suoi bisogni, al suo vissuto. Chi non si adegua, viene bocciato, respinto nei campi.

Nel 1941 insegna con incarico annuale presso la Scuola Elementare rurale di San Gregorio di Ferriere, ultimo comune piacentino verso il confine ligure. San Gregorio (719 m sul livello del mare) è formato da case sparse, senza strada carrozzabile, né luce elettrica, né telefono. La scuola è una stanza con qualche tavolo. Gli alunni sono figli di immigrati che negli anni precedenti erano andati a lavorare a Parigi. C’è una stanza per dormire, è l’appartamento riservato alla maestra, ma senza vetri alla finestra, umido, addossato alla parete della montagna, dove non batte mai il sole. L’unica forma di vita sociale è rappresentata da un’osteria – tabaccheria- generi alimentari, dove abitano il proprietario Jean, il sarto e due figlie, Rosetta ed Elena. L’unico contatto con il mondo esterno è rappresentato da Marcello, il postino che le porta anche lo stipendio mensile; per ringraziarlo gli paga da bere all’osteria, dove si danno appuntamento anche giovani un po’ sbalestrati che per festeggiare la partenza per il servizio militare, un po’ alticci del solito vanno una notte alla finestra della pseudo camera di Giovanna per farle forse qualche scherzo di cattivo gusto. Giovanna passa una notte da incubo. Non disarma. Sente dei rumori. Afferra un coltellaccio da cucina e nell’altra mano una torcia. Si avvicina alla porta e grida con quanto più fiato ha in gola. I due si allontanano precipitosi. Alle Ferriere, Giovanna fa amicizia con un grosso cane che le tiene compagni a tutta la giornata. A scuola ripete quello che gli altri hanno detto che bisogna fare: diario, tema, problema, compito e voto. Ma avverte che quella non è una scuola che vorrebbe. La sua sistemazione migliora un po’ perché Rosetta e Elena la invitano a stare da loro. Si sistema in questo modo in una casa più confortevole e ritorna nel corso delle feste, quando la scuola è chiusa, a casa dai suoi: papà, mamma, fratello, sorella più piccola, nonno e nonna. Di ritorno da casa porta alle Ferriere la Divina Commedia che prova a leggere ai suoi piccoli montanari. La intendono eccome, se anche il Direttore arrivato nella scuola per una visita, rimane meravigliato. I bambini rispondono prontamente e senza nessun errore alle sue domande. Giovanna pensa seriamente che la solitudine sulla montagna, magari pascolando le pecore nel pomeriggio quando non c’è scuola, aiuti i suoi piccoli montanari a pensare, a “cogitare” che l’ambiente cittadino non favorisce per niente.

Giovanna chiede di rimanere nella stessa sede anche per l’anno successivo, pur insegnando in una sede disagiata, anche per dare continuità a quello che aveva fatto. Nient’affatto. Prima vengono le graduatorie, la burocrazia, poi il resto. La nuova destinazione è Lugugnano, il paese, dove è nata, dal quale era dovuta scappare perché il papà, antifascista, era stato fatto oggetto di ripetute violenze ad opera di squadre fasciste. La nuova scuola consiste in una “stanza cui si accede dall’esterno, arredata da vecchi banchi e da un tavolo per la maestra”. La scuola, isolata, difficile da raggiungere, non è dotata di nessun alloggio per la maestra. Trova ospitalità presso una vedova, di nome Isolina. E’ la mattina del 21 aprile 1943 quando un aereo, forse in atterraggio presso il vicino campo di aviazione di San Damiano (Piacenza) si schianta al suolo. Muoiono tre aviatori. La guerra non è finita, anche se il Fascismo è spazzato via momentaneamente il 25 luglio 1943. Si arriva all’8 settembre 1943. E’ l’apocalisse. Militari italiani, privi di ordini, vagano sbandati per la pianura e le montagne. Nella casa di Vigolzone due soldati greci, fuggiti da un campo di prigionia tedesco, sono ospitati dalla famiglia di Giovanna. Delle spie fasciste rivelano ai tedeschi il nascondiglio dei due che vengono di nuovo imprigionati. Il papà di Giovanna perde il lavoro e a lei viene tolto l’insegnamento. Giovanna non molla. Va in montagna e fa la staffetta partigiana nel 1944 e 1945. Intanto, anche il fratello, in forza presso il campo di aviazione di Jesi, dopo l’8 settembre, aiutato da alcune donne, in abiti borghesi, ritorna a casa, ma a seguito di una nuova irruzione di fascisti finisce nel carcere – fortezza della Cittadella di Parma, dove era stato rinchiuso anche uno dei due soldati greci, l’altro invece era stato internato in Germania. Il fratello riesce ad evadere dal carcere e raggiunge le formazioni partigiane in montagna. Il soldato greco si nasconde per entrambi gli anni, fino alla liberazione, presso una famiglia nell’appennino parmense, prestando la propria opera, tagliando tomaie, nella casa di un calzolaio, mestiere che faceva in Grecia.

Terminata la guerra, viene riammessa all’insegnamento e, zaino in spalla, riprende ancora la via dei monti. Dal 1945 al 1948 insegna a Nicelli, a Cologno S. Bassano e alla miniera di Barsi di Groppallo, tutte località di Farini d’Olmo, sedi disagiate, in provincia di Piacenza. A Nicelli, la scuola è costituita da una sola stanza dove manca tutto. Il custode, Micon ha nascosto tutte le poche suppellettili, temendo requisizioni negli anni della guerra, Insieme recuperano qualche sedia e qualche tavolo. L’alloggio per la maestra è una stanza con un letto sfasciato, una stufa e una sedia. E’ al piano superiore della casa; vi si accede attraverso una ripida scala. Sotto la stanza c’è la stalla. Le mucche provvedono a riscaldare anche il piano superiore dove c’è l’appartamento di Giovanna. Nicelli è a mille metri di altitudine. I pochi alunni vengono dai boschi vicini, dimostrano buona volontà, alcuni, pur avendo superato l’età scolare, chiedono alla maestra di aprire per loro una scuola serale. Giovanna si fa in quattro e apre la scuola anche di sera. Viene richiamata dalle autorità scolastiche perché non ha seguito la via burocratica. Scrive: “Gli ordinamenti o l’interpretazione che ne danno i burocrati scolastici, sono fatti per tarpare le ali a chi per fiducia, per età o per attitudine personale, vorrebbe volare” (ibidem, pag. 51). Il 1945- 46 “è un anno particolarmente felice” per Giovanna Legatti. Ha la compagnia di Carlotta, la moglie di Micon che abita nella stessa casa dove è la scuola. Fa conoscenza con alcuni colleghi delle due sedi più vicine: Dante Rabitti, studioso di paleontologia, che insegna a Giovanna i primi elementi del Greco classico e Gianfranco Scognamiglio, studente universitario, molto sensibile ai problemi sociali. I due danno troppo fastidio alle autorità che vogliono mantenere la stessa immobilità sociale del passato, così i due, nell’anno successivo, vengono trasferiti in altre sedi.

Dopo il concorso del 1948 le viene assegnata la sede di Monte Santo di Ponte dell’Olio (PC), grosso borgo di bassa collina sul fiume Nure. Si arriva al paese “seguendo una ripida e sassosa carrareccia. Monte Santo è un gruppo di case, campi non avari di messi, ma scarsità d’acqua, mancanza di luce elettrica e due stanze in affitto per uso scolastico. Le classi sono cinque con due insegnanti; non c’è alloggio per le due maestre” (pag. 53). Giovanna Legatti si accontenta di dormire nel solaio dove sistema una brandina, l’altra collega fa avanti e dietro da casa a scuola e viceversa. Le case sono vicine e non sparse. La grande cucina di Teresa Polledri diventa la sede degli incontri ai quali partecipa attivamente anche Giovanna Legatti, dopo la scuola. Tutti chiedono una strada carrozzabile, l’acqua corrente, la luce elettrica e un nuovo edificio scolastico. Giovanna si fa interprete di queste richieste e diventa la portavoce della protesta popolare. Tutti i giovedì, giorno in cui la scuola è chiusa, li impiega per recarsi presso la Direzione didattica, l’Ispettorato Scolastico, il Provveditorato agli Studi, il Genio civile per sapere “qual è l’ter da seguire per attuare le richieste della popolazione” (pag. 53). E’ ben voluta dagli alunni, dalle mamme e dagli uomini del posto. Micon offre gratuitamente un pezzo del proprio terreno sul quale costruire il nuovo edificio scolastico. Giovanna, terminato l’anno scolastico, s’impegna presso l’assemblea pubblica tenuta sempre in casa di Teresa Polledri, che non se ne andrà finché non vedrà il nuovo edificio scolastico. In questo modo rimane un altro anno durante il quale raddoppia gli sforzi, sempre di giovedì, perché l’iter per la costruzione della nuova scuola sia completato. Approfitta di una visita fatta sul luogo del ministro Tupini per informare direttamente l’autorità costituita. Nel 1950 chiede e ottiene, su pressione della popolazione, l’istituzione di un corso serale per adulti. Chiama da casa sua sorella più piccola di lei, perché l’aiuti nel lavoro. La sorella accetta di lavorare gratuitamente per il solo “immorale” punteggio (pag. 61) e porta con sé un’antica compagna di scuola di Giovanna. Finalmente, il 29 aprile del 1951, avviene l’inaugurazione del nuovo edificio scolastico. Giovanna Legatti aveva avuto conferma dal sindaco di Ponte dell’Olio, in data 12 aprile 1950, che il progetto per la costruzione della nuova scuola era stato approvato. La caparbietà, la giusta causa, la volontà di una piccola comunità avevano vinto e Giovanna Legatti potè assistere commossa all’inaugurazione.

Nel 1950, la nuova sede d’insegnamento è a Vigolzone, il paese, dove c’è la propria famiglia. Giovanna è a casa sua. Rimane nella propria sede di Vigolzone fino al 1960, quando prenderà la strada per Coldigioco nelle Marche. Tutto cambia nella vita professionale di Giovanna Legatti quando nel settembre del 1956 partecipa a un convegno, organizzato, su richiesta del Provveditorato agli studi di Piacenza, dal Movimento di Cooperazione Educativa. La maestrina si trova catapultata in una realtà che non immaginava esistesse. I relatori si chiamano per nome: Aldo (Bettini), Pino (Giuseppe Tamagnini), Lidia (Tornatore). Parlano di “interesse, accettare il bambino nel suo essere, organizzazione della classe in rapporto al lavoro scolastico, grafico di valutazione, ricerche- interviste, niente voti, niente libri di testo, niente compiti a casa” (Ibidem, pag. 65). La confusione aumenta quando, per dar forza alle loro parole, “I relatori illustrano il loro dire mostrandoci strani aggeggi: una pressa, dei caratteri di piombo, un limografo, giornalini stampati dai bambini, pitture degne di pennelli importanti” (pag. 65). Giovanna Legatti è disorientata e al relatore del “Gruppo lingua” chiede: “Ma, insegnare a leggere e a scrivere come e quando si fa?”. Scrive nel libro Giovanna Legatti: “Qualche anno dopo quel relatore divenne mio marito e credo che mi abbia perdonato, se non altro per riconoscenza dei pasti quotidiani che gli ho sempre preparato” (pag. 65). Nel novembre dello stesso anno, in occasione delle festività dei Santi e dei Morti, il Movimento di Cooperazione Educativa tiene un Convegno Nazionale sugli stessi argomenti trattati a Piacenza. Giovanna decide di partecipare al Convegno. Capisce la validità di quelle tecniche ma si sente assolutamente impreparata ad applicarle e anche intellettualmente incapace di arrivare ai livelli che vengono indicati. Giovanna medita in cuor suo di ritirarsi dall’insegnamento. E’ il Provveditore agli Studi di Piacenza che la sprona a percorrere la strada intrapresa. Giovanna Legatti mette a frutto le indicazioni del Movimento di Cooperazione Educativa e dalla teoria passa alla prassi. I cinque anni trascorsi nella scuola di Vigolzone le servono per mettere a fuoco le tecniche d’insegnamento suggerite, tecniche che trovano la piena attuazione nella scuola di Coldigioco dove arriva nell’ottobre del 1961 dopo essersi sposata con Giuseppe Tamagnini nel 1960 e sistemata con il marito a Frontale.

Sull’utilità della tipografia a scuola, Giovanna Legatti scrive: “Costruire materialmente la parola assume grande importanza nella scuola di Coldigioco perché in quell’ambiente la lettura di libri e giornali è pressoché nulla e la televisione è ancora di pochi. L’uso dei caratteri di piombo impone ai piccoli tipografi lunghe sedute, attenzione, silenzio, controllo della correttezza della parola composta e  correzione, se necessario” (pag. 113). Sulla corrispondenza tra alunni di scuole lontane (Bombone (Firenze), Ipplis (Udine), scrive ancora: “La corrispondenza regolare fra bambini in formazione ha grandissima importanza: chi l’ha attuata sa che nemmeno il passare del tempo può cancellare i sentimenti” (pag. 113). Ultraottantenne, ancora con grandi interessi verso la scuola, la vita, il mondo e me lo dimostrava nelle diverse occasioni nelle quali ho avuto il piacere di incontrarla, scriveva nello stesso libro: “Oggi i bambini sono sottoposti ad una valanga di stimoli… Intorno a loro c’è un deserto arido di sentimenti e i bambini, più che essere considerato ed educati come uomini del domani, rappresentano soggetti- oggetti da sfruttare nell’interesse dell’onnipotente mercato che non solo nell’abbigliamento, li vuole uniformi, ma altrettanto li vorrebbe nei bisogni e nei cervelli, imbottendoli di idoli falsi: il calcio, il protagonismo, ecc. Si è formata una società brutalmente competitiva, tesa a raggiungere un benessere materiale che non ha confini” (pag. 113).

Nella seconda parte del libro, intitolata “Il giardino dei ricordi”, alcuni suoi ex alunni/e, oggi diventati padri, madri, nonne e in qualche caso anche bisnonne, su richiesta della loro maestra di un tempo, si cimentano nella scrittura del testo libero: “La scuola elementare che hanno frequentato i miei figli non ha dato loro il contributo di impegno, di partecipazione e di valori vissuti che ho avuto frequentando la scuola di Coldigioco” (Alberto Collari). “Ho frequentato la scuola elementare a Coldigioco, le prime due classi con una maestra del luogo e le successive con la signora Giovanna. La differenza d’insegnamento fra le due era enorme. Nelle prime due classi c’erano le solite interrogazioni, i soliti voti e se facevamo qualcosa di sbagliato finivamo in ginocchio dietro la lavagna. In terza elementare, finalmente, tutto cambiò. Noi bambini, insieme alla maestra, ci eravamo dati delle regole di vita scolastica. Oltre ad impegnarci in tutte le attività scolastiche, lavoravamo con amore e passione al nostro giornalino. Era una scuola veramente all’avanguardia. Non mi pesava neanche fare la strada a piedi per arrivarci” (Graziella Bordi). La ragazza doveva percorrere ogni giorno più di due chilometri, sia all’andata sia al ritorno. “A scuola facevamo molte cose: testo libero, poesie, ricerche, schede autocorrettive, stampa, pittura, corrispondenza, giornalino, ecc. Non c’erano voti, perché la valutazione ce la davamo noi, con il consiglio della maestra, controllando il grafico di valutazione. Non ci bastava la mattina per sbrigare tutto il lavoro da fare, eravamo sempre molto impegnati e spesso tornavamo a scuola anche il pomeriggio. La mattina di sabato preparavamo il piano di lavoro per ogni giorno della settimana e controllavamo se avevamo fatto tutti i lavori programmati per la settimana che stava finendo” (Angela). “Grazie, maestra Giovanna, per quello che mi hai dato in così pochi anni, importante per la mia vita. Spero che lo spirito che animava Coldigioco venga compreso e si diffonda. Oggi ce n’è veramente bisogno” (Domenico Gallo, detto Minuccio). Augusto Tamagnini, Agostino per gli amici, ex alunno di Coldigioco, oggi impiegato in una società del gruppo ENI, nonostante il lavoro lo porti in giro per l’Italia e per il mondo, ha sempre continuato a risiedere a Fornelle, nei pressi della sua ex scuola. Nel testo libero parla di suo figlio che frequenta la scuola media, “un alunno dotato di intuito e capacità pratiche non comuni che spesso riesce a trovare un modo originale di colmare le sue lacune”. Il giudizio dato dai professori su suo figlio è una copia, scrive Minuccio, di me quando ero scolaro alla scuola elementare. Scrive: “In quella scuola, quella di Coldigioco non si era costretti a imparare bovinamente ma ci si sentiva partecipi, ci si poteva esprimere con parole proprie, con testi liberi o con altre e varie forme espressive. Con quella forma che ognuno sentiva congeniale, non c’erano imposizioni, tutto si svolgeva come un gioco” (Minuccio). Daniela, nella sua testimonianza sulla scuola di Coldigioco, esalta la corrispondenza che gli alunni di Giovanna Legatti avevano con amici di penna di altre scuole. Ora è mamma. La sua è una testimonianza commovente: “Oggi, a distanza di quarant’anni, non mi sembra che sia cambiato molto nel mondo della scuola: molti insegnanti, nel loro lavoro, scelgono la via più facile, portando avanti solo chi non ha problemi d’apprendimento, lasciando a se stesso chi invece ha bisogno di un aiuto maggiore. Ecco perché, oggi più di prima, riconoscono alla mia maestra il merito di aver saputo dare a tanti bambini di Coldigioco delle solide basi e tante buone occasioni di formazione che forse altrimenti non avrebbero avuto” (Daniela). Gilberto ex alunno di Coldigioco ricorda che la scuola della maestra Giovanna lo ha aiutato a superare i propri difetti. Ricorda di lei tante cose ma soprattutto “la tigna”, tipica espressione marchigiana che può essere tradotta con caparbietà, “ con cui hai affrontato i disagi, le difficoltà burocratiche e pratiche, pur di portare avanti un progetto in cui hai creduto e al quale hai dato tutta te stessa” (Gilberto). Una mamma, una “ragazza di quasi 46 anni di Falconara Marittima, dopo aver letto il libro Coldigioco, lei che non aveva frequentato quella scuola da bambina, venendo da un paese vicino Apiro, ha il bisogno di testimoniare il suo affetto verso la maestra Giovanna Legatti, perché ritrova nella sua attività una verità di fondo che tutti difendono a parole ma poco nella pratica: “Tutti i bambini che nascono, dal momento che vengono al mondo, sono tutti speciali, tutti unici. Lei ha saputo meravigliosamente fondere insieme la crescita umana di quei bambini e la loro naturale sete di conoscere, di capire, di scoprire, fino a farne ragazzi coscienziosi e maturi…Da mamma mi sono trovata a sbattere contro insegnanti che non si rendevano conto di avere sotto di loro, anzi accanto a loro, non solo materiali per riempire un portfolio, il POF e quant’altro… ma esseri umani. Futuri uomini e donne, capaci di cambiare il mondo…” (Ibidem, pag. 164).

Giovanna Legatti, andata in pensione nel 1972, si trasferisce assieme al marito Giuseppe Tamagnini prima ad Ancona, poi a Senigallia, senza trascurare l’abitazione di Frontale. “Nel 1994, il Ministero della Pubblica Istruzione le conferisce il Diploma di benemerenza di prima Classe (Medaglia d’oro). Fra il 1997 e il 2001, sotto l’impulso del sindaco di Apiro, ing. Giorgio Canella e in collaborazione con l’Istituto Comprensivo Coldigioco e i suoi dirigenti, con  il sostegno del comune, della Comunità Montana, della provincia e della Regione, vengono pubblicati alcuni libri sul Movimento di Cooperazione Educativa. Dal 1998 al 2003 si tengono sei edizioni del Convegno denominato Coldigioco, con la collaborazione dell’IRSAE Marche e sotto il patrocinio del Provveditorato agli Studi di Macerata e l’USR delle Marche. Il Ministero della Pubblica Istruzione riconosce il Convegno come attività di formazione e di aggiornamento. .. Il libro Coldigioco viene ristampato nel 2001 in occasione del cinquantenario del MCE… Rimasta sola dopo la morte del marito, avvenuta il 2 settembre 2002, nonostante i problemi di salute, ha provveduto a riordinare i materiali relativi alla sua pionieristica esperienza pedagogica e didattica” (Ibidem, pag. 220). Come ho detto in un altro articolo, ho conosciuto i coniugi Tamagnini dopo il mio ritorno nelle Marche, attraverso mio cognato Adriano, molto amico di entrambi. Erano i primi anni del nuovo millennio. Giovanna Legatti Tamagnini muore nell’aprile del 2012 a Frontale, frazione di Apiro.

 

Raimondo Giustozzi

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