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Cultura. Blanche interpreta Ghali, il ragazzo della via rap che canta l’attualità

Tratto da internet

Ghali Tratto da internet

Blanche , giovanissima  artista di  Porto Recanati,  continua a sorprendere con una nuova cover del fenomeno del momento , Ghali,  con una personalissima e  sperimentale interpretazione,   adattando  il brano al  suo flow (il suo flusso, lo stile delle parole)  denso della poetica del l’autore, grazie anche alla collaborazione con il musicista Cesare Sampaolesi, insegnante presso la Civica Scuola di Musica di Castelfidardo. Nelle ultime settimane, l’attenzione intorno a questo artista è cresciuta grazie anche agli elogi pubblici di Roberto Saviano che in un post sulla propria pagina Facebook ha scritto: “Ghali è uno dei maggiori poeti di lingua italiana, un poeta rap”.

Pubblichiamo la sua intervista su Repubblica

Ghali, il ragazzo della via rap che canta l’Islam e i migranti

di RobertoSaviano

Incontro con uno dei musicisti più seguiti sul web che ora pubblica il primo album. Nato in italia da genitori tunisini, di sua madre dice: “Ha fatto di tutto per me, se non ci fosse stata non sarei nulla”

Buone notizie. Proprio quando in Italia cresce un clima di razzismo e paura, e chi soccorre i migranti finisce addirittura sotto accusa, Ghali diventa uno dei cantanti più ascoltati sul web. Madre e padre tunisini, è nato a Milano ventiquattro anni fa ed è cresciuto a Baggio, periferia milanese, dove ancora vive. I suoi brani su YouTube hanno macinato milioni di views in pochissimi mesi, talvolta in pochissimi giorni. Ninna nanna, più di cinquanta milioni in sette mesi, Wily Wily quasi venti milioni in un anno e oltre trenta milioni per Dende. Ma chi è Ghali? La sua biografia è racchiusa in un verso di Ninna Nanna: “Sono uscito dalla melma, da una stalla a una stella, figlio di una bidella, con papà in una cella”. Dopo averlo ascoltato per la prima volta su YouTube non è mai più uscito dalle mie orecchie. Il suo flow (il suo flusso, lo stile delle parole) è denso di una poetica nuova, rifugge le durezze del gangsta, racconta la periferia, cita cartoni animati e serie tv, marijuana e slang. Il suo è un calco magico del reale. Ghali canta in italiano con accento milanese, in francese con accento magrebino e in tunisino con accento italiano. Un linguaggio unico, un unico bolo che passa di frase in frase, da lingua a lingua, con naturalezza: ” Amman amman / Habibi / Ya nor l3i / Ndiro lhala sans pitiè / Fratello ma 3la balich / En ma vie ho visto bezaf / Quindi adesso rehma lah”. Da anni Ghali si esibisce dal vivo, ma solo ora è uscito il suo primo disco, Album. È così che funziona adesso, è questo il percorso dei nuovi artisti; il disco è una sorta di lavoro finale, un lavoro che raccoglie tutto: esperienze, crescita, gioie, cambiamenti, gratitudini, amori.

Incontro Ghali in un appartamento in una zona di Milano che mi è sempre piaciuta. Poco distante dai Navigli, ma già tranquilla. Mi sento subito accolto. La crew è giovane e sorridente, composta da ragazzi afroitaliani: Amed, Endri, Ruth e Diane. Mi sento a casa.

Ghali è altissimo, sta fumando una sigaretta sul balcone, ha un viso dolce, un’eleganza impacciata. Una lieve timidezza da ragazzino e una malinconia che torna come un’ombra. Ghali ha cambiato la trap, ultima evoluzione del rap, liberandola dalle costrizioni del gangsta. Non ha bisogno di fare il cattivo, il violento, ma non teme di affrontare i temi più duri. Al centro, come magnete di ogni sua strofa, una figura imprescindibile: la mamma. “Veramente lei ha fatto di tutto per me. Di tutto. Non so spiegarti, ma ho un’immagine. Io nella tempesta del deserto e mia madre che si para davanti per difendermi dalla sabbia”. Ghali contesta il senso comune, per il quale tra genitori e figli serve un’autorevole distanza, non l’amicizia. “Io e lei abbiamo un incredibile rapporto di amicizia perché siamo cresciuti insieme. Le racconto proprio tutto della mia vita. Alle altre madri immagino crei preoccupazione che un figlio diventi un artista e quando dice: voglio fare il cantante, vanno in disperazione. Mia mamma no, anzi. È stata lei a inculcarmi la musica”.

Cioè, cosa ti ha inculcato?
“Quando ero piccolo e lei usciva con mio padre, mi metteva davanti alla tv con una cassetta di Michael Jackson e io mi dimenticavo di tutto. Mi giravo e vedevo che i miei non c’erano. In realtà eravamo tutti “complici”: spesso io giravo con loro in macchina. Però capitavano momenti in cui non potevano proprio portarmi e io stavo con Michael Jackson. Sono cresciuto con Michael”.

Che intendi con “eravamo tutti complici”?
“I giri di mio padre, ho tutte le immagini dentro…”

Che immagini?
“I posti di blocco… e io che abbasso la testa in macchina , mio padre che mi dice di non dire niente… un elicottero sopra casa nostra e mio padre pensa che sia lì per lui. Oppure la telecamera nascosta nella macchina parcheggiata sotto casa per vedere chi viene e chi va; la pistola nel vaso di fianco all’ascensore; gli spaventi. Poi, quando arrestano mio padre, con mia madre abbiamo vissuto tutto assieme, dalle camminate per andare a trovarlo in carcere alla sveglia ogni mattina con lei per aiutarla a cucinare, fino ai pacchi che portavamo a San Vittore sotto la neve e sotto il sole. A trentotto anni si è ammalata di tumore. Eravamo solo io e lei: mio padre era in carcere e io avevo otto anni. Altre sue amiche si sono ammalate e non ce l’hanno fatta ed è lì che ho iniziato a credere veramente in Dio, perché lei invece è guarita. Se non ci fosse stata lei io non sarei nulla…”.

Tua madre ha anche impedito che finissi nei giri di tuo padre…
“La maggior parte delle persone che conoscevamo si è fatta togliere i figli, mandati in affido. Io sono l’unico a essere rimasto a casa, sono il sopravvissuto”.

Come ti spieghi l’esplosione della tua musica? Non vai spesso in tv e neanche sui giornali, ma ” Ninna Nanna” ha toccato i cinquanta milioni: sono numeri in Italia incredibili…
“Secondo me è un mix di cose. Certe volte ci dimentichiamo che bisogna veramente saper entrare in testa alla gente. Quando ho conosciuto Antonio (Antonio Dikele Di Stefano, scrittore italiano di origini angolane,
ndr), avevo pezzi sparsi, ritagli di canzoni, e lui mi ha chiesto di farglieli sentire. Alla fine mi dice: “Tu ora smetti di cercare lavoro”. E ci siamo messi a studiare il mood giusto per fare le cose”.

Nell’appartamento con noi c’è anche lui, Antonio, e fa una riflessione che condivido: “Ghali ha un tratto distintivo che ha avuto anche Fibra: non imita gli americani e i francesi. Usa un linguaggio autentico, nuovo, dice cose che un ragazzino italiano capisce e vive ogni giorno. I miei nipoti riconoscono Dende. Tra i cinquanta milioni ci sono bambini di dieci, undici, dodici anni che ascoltano Ghali e si immedesimano. Cresceranno con lui”. È proprio così. La poetica di Ghali è il primo incontro di massa e ludico che le nuove generazioni italiane hanno con l’Islam. Ma non c’è un intento programmatico, Ghali racconta semplicemente se stesso. Uno dei versi più belli di Dende è: “L’industria è un tritacarne, io sono halal”, ovvero carne sacra, messaggio non scontato per raccontarsi come pezzo unico nel più omologante dei mercati, quello musicale. Un altro esempio è
Wily Wily: canzone deliziosa, con un video girato in Giordania. Ha fatto più informazione sulle differenze tra Islam e Isis Wily Wily, con i suoi diciannove milioni di views, che centinaia di conferenze a scuola. “Ma tu digli che sono un tipo easy / figlio di ma’ e i suoi sacrifici / sì sì sì sì, si crede in Dio / tu pensi che l’Islam sia l’Isis. Perché hai un amico marocchino e ti ha insegnato solo parolacce a mandare a fare in culo e forse forse pure a dire grazie”.

Ghali scrive di immigrazione con una poetica per nulla scontata. Un suo brano che si intitola Mamma è forse il testo più importante scritto in Italia sino a ora sul dramma dei migranti: “Al telefono gli ho detto ‘fra non fa per te’ / Hai mamma e due fratelli, kho c’est pas la peine / Allah ti dà la forza, andek el potentiel / Ma non ne vuol sapere fugge dalla misère / Lui guarda me, / le mie Nike Air e pensa che / Sia easy fare il cash ma non sa che così non è / E finirà come gli altri a fare wesh wesh bang bang, lo sa…”. E poi arriva la poesia, poesia vera: “Mare oh mare, non ti agitare / Mi raccomando, portalo in salvo / Ahiahiahi, mare oh mare, ti prego non ti agitare o annego / Mi raccomando che arriva, portalo in salvo a riva”.

Parliamo di politica. Nei tuoi testi sembra finirci quasi di striscio (“Tu mi batterai il giorno che vedrai Salvini ai miei live”) eppure è il motore primo che muove ogni verso.
“Per me parlare di politica è come andare dal commercialista: non capisco nulla”.

Ma politica è il pensiero sulla società, non è solo partiti, voti, Parlamento.
“Infatti salto quel passaggio, arrivo direttamente al punto. Una volta che l’ascoltatore capisce è come se avessi dato un messaggio politico. Senza essere esplicito. Il messaggio è nel tipo di viaggio che gli faccio fare. Il problema esiste prima di arrivare alla politica ( quella fatta di partiti, voti, Parlamento, ndr). Prima delle regole di uno Stato ci sono le regole dell’umanità. Il flow può convertire i nazi”.

C’è un passaggio in ” Ninna Nanna” che mi ha colpito: “Non sai come ci rimango quando ti fai la foto e non saluti manco”.
“È una cosa che mi fa soffrire. La mia più grande ispirazione nasce girando per strada. Ho una casa molto piccola in cui vivo con mia madre e, siccome mi vergogno, quando creo voglio stare tranquillo. Allora vado al parco, metto le cuffie e mi metto all’opera. La maggior parte dei testi viene stando in mezzo alla gente, ma ora è praticamente impossibile. Questa cosa mi distrugge. Per strada mi beccano”.

Tu sei cambiato con la fama?
“Esco meno. I miei amici si scrivono con le ragazze, io non posso più perché fanno screenshot. Hai paura persino a stare con una ragazza, temi che faccia foto mentre dormi e le pubblichi…”.

A osservare la storia di Ghali ci si rende conto che il nostro linguaggio deve cambiare e alla svelta perché questi ragazzi, giovanissimi, hanno una visione del mondo che a noi manca e con la quale non dobbiamo semplicemente venire a patti: dobbiamo contaminarci ed essere lieti che questo avvenga. Gli stimoli che arrivano dalla strada sono tali da obbligare chi nella scuola lavora a trovare grammatiche nuove perché il confronto con una generazione di talenti sia appunto confronto e non scontro o indifferenza. I video di Alessandro Murdaca, enfant prodige dei videoclip, sono di grandissima qualità e sono parte del successo di Ghali. Un altro talento giovanissimo, Charlie Charles (Paolo Monachetti) ha ventitré anni ed è il produttore di molti pezzi di Ghali e in questo momento forse il più richiesto d’Italia. Produce Sfera Ebbasta, Izi, Dark Polo Gang e, come dice Tedua, a proposito delle sue basi musicali, “tu vuoi un beat di Charlie ma non lo sai usare”.

Quando l’intervista

finisce ci abbracciamo e andiamo via dopo una pioggia di selfie e foto. SuperGHALIfragilistichespiralidoso ripeto nella mia mente e sorrido. Bravi ragazzi, forse nemmeno siete consapevoli del talento che avete. Ghali è un dono che nasce quando il Paese ne ha più bisogno.

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