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Un grande NO

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Lucia Annunziata – L’Huffington Post

Matteo Renzi ha lasciato Palazzo Chigi. È il primo effetto visibile della massiccia ondata di voto popolare contro la sua riforma costituzionale. Parleremo tanto nelle prossime ore di queste dimissioni, del ruolo che l’ex Premier giocherà o meno dentro o fuori il Pd, con o senza il Pd. Eppure, per quanto rilevante sia stato e sarà, il destino di Matteo Renzi non è il centro di quel che è successo. Il voto uscito dalla urne fa cambiare pagina all’intero paese, è un avvertimento lanciato all’intera classe dirigente, e continuerà a risuonare anche al netto della presenza a Palazzo Chigi di Renzi.

I numeri sono espliciti. È andato a votare quasi il 70 per cento degli elettori, una percentuale che ci fa tornare indietro alle elezioni politiche del 2013, quando votò il 75 per cento. Infatti, una voglia politica come quella del 2013 ha spinto l’affluenza – tanti elettori, troppi, per bocciare una riforma. Il No è troppo numeroso, troppo consistente, per essere semplicemente una rivolta contro il governo o contro un uomo solo al comando. Certo, questo massiccio rifiuto schianta la gioiosa macchina da guerra di Palazzo Chigi, la meravigliosa narrativa del governo che funziona si rivela una fragile bolla bucata dall’amarezza dello scontento di chi invece non pensa affatto che le cose vadano bene. Matteo Renzi paga quello che molti gli avevano ripetutamente indicato come il tallone d’Achille del suo governo: la mancanza di un rapporto forte con il paese, con gli strati sociali più umili, con la vita reale.

Ma questa mancanza di rapporto fra governo e politica, rimane lì anche ora che Renzi lascia Palazzo Chigi. Dentro il risultato elettorale, il primo con carature nazionali e politiche dal 2013, come si diceva, c’è una pressione per tutta la classe politica. Se quel 60 per cento di No fosse solo la somma di tutti i partiti e le organizzazioni confluite nel fronte antiriforma, i risultati sul territorio avrebbero avuto variazioni interne, coloriture diverse là dove passano le linee partitiche. È stato invece un rifiuto la cui latitudine comprende Nord e Sud , Est ed Ovest del paese, classi sociali diverse. In questa sua omogeneità rende evidente che il filo conduttore identicamente vincente in tutte le regioni d’Italia, è scontento, è amarezza, è voglia di rovesciare il tavolo, è un No, appunto. A Renzi oggi, ma anche a chi ci sarà domani al suo posto.

In questo senso il voto italiano somiglia quasi esattamente al voto di rivolta dei ceti sociali dimenticati contro la Brexit e contro la Clinton. Vi lavora dentro la stessa sfiducia, lo stesso distacco che opera dentro tutte le altre democrazie occidentali. Matteo Renzi sapeva, capiva bene l’esistenza di questo malessere. Da qui la sua campagna contro la casta, contro il passato, contro i vecchi e contro la politica che non cambia mai; ma nemmeno lui ha saputo intercettare questa rivolta silenziosa ed è finito respinto come altri leader in altri paesi. La conclusione (almeno per il momento) del suo percorso, tuttavia non mette fine al malessere. E se i partiti, incluso il Pd, si illuderanno che la caduta del Premier è il ritorno alle cose come erano prima dell’arrivo sulla scena del sindaco di Firenze, sono destinati a una pessima, e ancora più accelerata, fine.

Dentro il No c’è una richiesta a tutti di tornare con i piedi per terra. Di far camminare quei piedi, di riprendere ad ascoltare, di prestare attenzione, di rimettere al centro della gestione della cosa pubblica il popolo e non le sue rappresentazioni immaginarie. Un invito che vale anche per il M5s che nel suo programma vuole il rovesciamento delle relazioni fra politica e cittadino, ma che in pratica finora non è mai riuscito ad uscire dalla vaghezza. Si tratta di ricostruire la politica nell’era del suo rifiuto. Un compito enorme, che, fuori di paradosso, solo la politica può portare a termine. A patto che comprenda e accetti e attraversi il suo rifiuto.

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