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“Senaticchio”, cronistoria. Referendum e sovranità popolare. Un furto tentato? Da chi, quando, perché?

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Antonio Caputo  Avvocato, presidente coordinatore della Federazione italiana dei Circoli di Giustizia e Libertà

Con la riforma Renzi/Boschi avremo un senato non più eletto dai cittadini a suffragio universale e diretto, dopo 68 anni di senato elettivo, e che, in violazione dell’art.1 Costituzione (principio supremo di sovranità popolare) è legislatore.

E una Camera insediata con l’italicum. Un combinato disposto, liaison dangereuse che erode e vanifica il principio supremo dell’ordine costituzionale, la sovranità popolare, base e del potere costituente e del potere costituito.

La cronaca politica degli ultimi tre anni, da quando si è insediato il parlamento ancora una volta nominato con l’illegittimo porcellum, non c’è 2 senza 3, il terzo in ordine temporale, dimostra la liaison e svela al paziente indagatore, come nei thriller di Simenon occorre molta pazienza, “nome” e paternità dell’autore del “delitto”. Se i cittadini non ci metteranno una pezza con il loro voto, riappropriandosi dell’oggetto stesso del referendum, la sovranità costituente, impedendone lo scippo.

Fatti e calendario: 4 dicembre 2013, con sentenza 1/2014 depositata il 13 gennaio 2014, la Corte costituzionale dichiara illegittimo il porcellum. Come ha scritto Gustavo Zagrebelsky sul numero 3/2014 della rivista “Giurisprudenza costituzionale”, diretta dal professor Alessandro Pace, dichiara “abusivo il Parlamento” di nominati in forza di un premio di maggioranza abnorme e irragionevole, che ha distorto il principio di rappresentatività.

 

22 aprile 2013, pochi mesi prima, Napolitano eletto per la seconda volta presidente della Repubblica, nel discorso d’insediamento, affermava che: “Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il presidente Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi. La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti. Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario”.

28 maggio 2013, la banca d’affari JP Morgan emette un documento di sedici pagine, dal titolo “La regolazione della zona Euro: circa a metà strada”. Per JP Morgan le costituzioni del sud Europa vanno cambiate; alle pagine 12-13 si legge:

“I sistemi politici dei paesi del Sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea” (…) “I sistemi politici e costituzionali presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo.” (…) “La prova decisiva sarà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente un’opportunità di impegnarsi in significative riforme politiche. (…) Il processo di riforme politiche è appena iniziato”.

29 maggio 2013, solo il giorno dopo, la Camera approva la mozione Speranza e altri con cui si delibera di istituire una Commissione bicamerale (20 deputati e 20 senatori) incaricata di redigere entro 18 mesi, in sede referente, un progetto di revisione dei Titoli I, II, III e V della Costituzione, da trasmettere poi alle Camere per l’approvazione definitiva, e salva restando la possibilità di successivo referendum confermativo.

Il 4 giugno, il presidente del consiglio Letta istituisce un comitato di 35 esperti incaricati di individuare le riforme da sottoporre a quella commissione bicamerale, e il 10 giugno viene depositato in Senato il Ddl costituzionale di deroga all’art. 138, poi approvato, in prima lettura, l’11 luglio dal Senato e il 10 settembre dalla Camera, e poi ancora il 23 ottobre dal Senato in seconda lettura, per essere poi trasmesso alla Camera per la definitiva approvazione. Tempi fulminei in epoca di bicameralismo perfetto.

21 ottobre 2013, Renzi vince le primarie per la segreteria del Pd, e il 23 ottobre, alla Leopolda di Firenze, annuncia tra l’altro che “ci vuole una legge elettorale educativa”.

11 dicembre 2013, Letta comunica alla Camera che non si può condurre in porto la deroga all’art. 138, proponendo il ritorno alla normale procedura di revisione costituzionale “su quattro obiettivi di cambiamento. Il primo: la riduzione del numero dei parlamentari (…) Il secondo: l’abolizione delle province dalla Costituzione (…) Il terzo: la fine del bicameralismo perfetto, con un’unica Camera che dia la fiducia e faccia le leggi e l’altra (…) di raccordo con le autonomie; Il quarto: una riforma del Titolo V della Costituzione che (…) chiarisca le responsabilità di ciascun livello di governo, limitando al massimo quelle concorrenti in favore della competenza esclusiva dello Stato oppure delle regioni”.

7 gennaio del 2014, viene reso noto un documento di UBS (Unione Banche Svizzere) in cui si legge che “a meno che Matteo Renzi riesca a modificare sostanzialmente il percorso delle riforme (…), ci sarà probabilmente meno spazio di manovra per negoziare il suo bilancio 2015 con la Commissione europea (…) limiterà il margine di manovra almeno per il bilancio 2015, a meno che Matteo Renzi non riesca a modificare il percorso di riforma”.

Renzi è solo il segretario del partito democratico, a Palazzo Chigi siede ancora Letta, ma UBS ne scrive come se fosse il premier in carica, dal quale si aspetta che porti a termine le riforme che Letta non era riuscito a fare approvare.

17 gennaio 2014, Renzi cinguetta su twitter, all’indirizzo di Letta, il famoso hastag “enricostaisereno”. 13 febbraio, la Direzione del Pd licenzia il governo Letta, con un documento che invita “gli organismi dirigenti (…) ad assumersi tutte le responsabilità di fronte alla situazione che si è determinata (…), portando a compimento il cammino delle riforme avviato con la nuova legge elettorale e le proposte di riforma costituzionale riguardanti il Titolo V e la trasformazione del Senato della Repubblica e mettendo in campo un programma di profonde riforme economiche e sociali (…)”. Ecco svelato il combinato disposto.

14 febbraio 2014, Letta si dimette e il 17 febbraio Napolitano affida a Renzi l’incarico di formare il Governo. Il 18 febbraio in un’intervista a Repubblica, l’ex primo Ministro inglese Tony Blair, da oltre 4 anni consulente speciale di JP Morgan, che si rivede, dichiara che “Renzi comprende perfettamente la sfida che ha di fronte. Se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito. Perciò c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia”.

8 aprile 2014, il Governo presenta il Ddl di riforma della Costituzione, la Renzi/Boschi che due anni dopo, il 12 aprile del 2016, in un’aula disertata dalle opposizioni, otterrà dalla Camera, a maggioranza assoluta ma non qualificata, il definitivo voto parlamentare.

Il 4 maggio dell’anno precedente, il 2015, la Camera, subendo ben tre questioni di fiducia, e il celebre emendamento canguro, aveva definitivamente l’italicum, la nuova legge elettorale “educativa” promessa da Renzi a novembre 2013. La migliore legge del mondo, secondo il suo fautore, operativa dal 1 luglio 2016.

Che riproducendo, in una sorta di partogenesi incestuosa e anche peggiorativa dei vizi capitali del porcellum, nemmeno tenendo conto dei rilievi della Corte costituzionale, chiamata ora a decidere anche sulla stessa a seguito di ordinanze emesse da 5 tribunali italiani, attribuisce lo sproporzionato premio di maggioranza che trasforma una minoranza in maggioranza più che assoluta, il 54% dei seggi, al vincitore della lotteria del ballottaggio.

Riservata senza soglia di accesso ai soli 2 partiti che non abbiano raggiunto la soglia del 40% al primo turno; rinnovando i fasti della Camera dei nominati dalle oligarchie partitiche e connessi gruppi di interesse, in misura pari a circa il 60% dei seggi.

Niente suffragio universale e diretto al Senaticchio del dopolavoro della riforma. Ridottissima e quasi nulla rappresentatività della Camera dell’Italicum. Il 4 dicembre i cittadini italiani sono chiamati, quale che sia la loro consapevolezza della posta in gioco, a dire se vogliono sentire erodere la loro sovranità. È ancora “solo” una questione di democrazia.

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