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La festività del Natale nella tradizione religiosa e popolare, il ciocco natalizio, l’Epifania.

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Raimondo Giustozzi

Il Natale

 

Se c’è una festa cristiana che ha sede in Roma, questa è il Natale. In un “cronografo”, una specie di almanacco, composto nel 354 d. C. da Furio Dionisio Filocalo, è riportato un frammento di calendario in uso a Roma e che risale al 326 o forse anche prima. Alla data “VIII Kalendas Januarias”, ovvero al 25 dicembre, si legge: “Natus est Christus in Betlem Iudeae”. E’ una singolare e sconcertante affermazione perché nei vangeli non vi è traccia della data per quanto riguarda la nascita di Gesù, anzi, si legge: ”C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge”. Si sa che la pastorizia veniva ed è praticata in Palestina tra la primavera e l’autunno e non in inverno.

Come mai questa discordanza tra una fonte e quest’altra informazione? In realtà il 25 Dicembre è una data simbolica che si collega al solstizio d’inverno. In epoca imperiale, cadeva proprio al 25 dicembre, una festa pagana “Dies Natalis Solis Invicti” (Il Natale del Sole Invitto), fissata dall’imperatore Adriano attorno al 270- 275 d.C. La ricorrenza del “nuovo sole” salito impercettibilmente sull’orizzonte, qualche giorno dopo il solstizio d’inverno, veniva celebrata con cerimonie e giochi fra cui trenta corse di carri. Tale manifestazione si addiceva bene all’allegoria del sole che su carri di fuoco portava ogni giorno la luce nel mondo.

La nuova religione cristiana, preoccupata per la straordinaria diffusione dei culti solari, molto in auge nei primi secoli dopo Cristo, ma anche convinta che doveva fare una lenta opera di pedagogia sulle masse, pensò di celebrare nello stesso giorno del “Natalis Solis Invicti”, il Natale, la nascita di Cristo, come vero sole dell’umanità.

Non era una sovrapposizione infondata né un’operazione di trasformismo culturale e religioso, perché fin dall’Antico Testamento, Gesù era annunciato come vero Sole e Luce del mondo. “Il popolo che camminava nelle tenebre, vide una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse”, “La Luce di Israele diventerà un fuoco, il suo santuario, una fiamma”, “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce”, “Il tuo sole non tramonterà più, né la tua luna si dileguerà perché il Signore sarà per te la luce eterna” (Isaia. 9,1- 10,17- 60,1- 60,20). A sua volta Giovanni affermava: “In Lui era la Vita e la Vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre” (Giovanni, 1,4-5). Per tutti questi motivi, già nei primi secoli, l’accostamento del Sole al Cristo era abituale: “Altri ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e che nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per una ragione del tutto diversa dall’adorazione del sole” (Tertulliano, Ad Nationes).

Nei secoli successivi non mancò chi, come San Leone Magno si preoccupasse di togliere del tutto quello che rimaneva dell’antico culto pagano, polemizzando con quei cristiani che continuavano ad onorare il sole alla maniera dei pagani: “Tanto è stimato religioso un comportamento simile che alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di San Pietro Apostolo, si volgono verso il sole e piegando la testa, si inchinano all’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto in parte per ignoranza ed in parte per una mentalità pagana” (Alfredo Cattabiani, Calendario, Le feste, i miti, le leggende ed iriti dell’anno, Oscar Mondadori, 2008).

 

Il Ciocco natalizio

 

Diffusa in tutta Italia era l’usanza di mettere sul fuoco del camino, alla vigilia di Natale, un ciocco di quercia, di gelso, di abete secondo le località, che bruciava assieme ad altra legna durante i dodici giorni natalizi, fino all’Epifania. Quest’antica usanza, esistente anche in Germania (Jul), in Francia (Chalendel) con evidente riferimento all’inizio dell’anno, fu interpretata fin nel primo medioevo, in senso cristiano. Il “Süc”, come si diceva ancora all’inizio del secolo appena trascorso nelle campagne piemontesi, “zoch” nel trevigiano, “cippo” o “ciocco” nell’Italia Centrale, era il simbolo di Cristo che si era sacrificato per salvare l’umanità, per sostenere l’uomo nel suo viaggio terreno. In Romagna l’arzdor (il reggitore), il “vergaro” delle nostre case contadine o il “regiù” delle cascine brianzole, sceglieva e preparava scrupolosamente il ceppo natalizio, che doveva essere tanto grosso da bruciare fino all’Epifania.

Il focolare, posto su di un lato dell’ampia cucina, e la stalla erano il centro della vita contadina nei lunghi mesi invernali. Erano gli unici ambienti riscaldati. La cucina era riscaldata dal fuoco del camino, la stalla dall’alito delle mucche. “Murùn sul camin e besti in stala, sorgente di calore della vecchia Brianza”. Recitava così un bell’articolo di Maria Adelaide Spreafico pubblicato in uno dei tanti numeri dei “Quaderni della Brianza”, periodico fondato da Vittorino Colombo, che leggevo con interesse nei primi anni ottanta del secolo scorso, quando risiedevo a Giussano, nel cuore della Brianza Milanese. Il “Murùn” era il gelso, piantato spesso vicino alla cascina, facile da raggiungere per raccogliere le sue foglie, alimento indispensabile per i voracissimi bachi da seta che erano allevati in casa. Il ceppo natalizio era rigorosamente di gelso.

Era credenza che chi bruciava il ceppo più grosso avrebbe poi ammazzato il maiale più grasso. La pratica di mettere sul fuoco del camino il grande ceppo natalizio, di quercia o d’olmo era diffusa anche nelle nostre contrade. Lo si faceva ardere molto lentamente. Doveva durare dal Natale all’Epifania. I carboni dell’ultima notte venivano prelevati e portati nei campi, accanto ai filari delle viti o negli orti. Secondo la credenza popolare avrebbero nutrito la terra per tutto il periodo che il frumento avesse messo per giungere a maturazione. Avrebbero dovuto difendere le colture dalle gelate dei mesi invernali e propiziare un buon raccolto. Ecco perché si diceva anche “Domani è il giorno del pane”, indicando il Natale ed in tutto il periodo natalizio si mangiavano dolci a base di farina, fra il quale il più celebre panettone milanese.

E non v’è festa migliore del Natale a simboleggiare il pane che s’incarna nella natività a Betlem, Bet- Lehem, che nell’Ebraico significava proprio “Casa del pane”, nome derivato probabilmente dal fatto che la cittadina era un granaio perché circondata da campi di frumento. Il pane sulla tavola nel giorno di Natale è l’immagine del Pane vero.

 

L’Epifania.

 

Un’altra festività che viene subito dopo il Natale è quella dell’Epifania. Essa nasce in oriente attorno al 120- 140 d.C. All’inizio, questa festa ricordava il Battesimo di Gesù, attraverso il quale, il Salvatore manifestava la propria natura umana e divina, solo successivamente è diventata la festa dei magi e nel mondo occidentale la rivelazione di Gesù ai pagani.

Traccia dell’Epifania come festa del Battesimo di Gesù è rimasta in un canto popolare di casa nostra: “La Pasquella”. “Là, sul fiume di Giordano, /dove l’acqua diventa vino/per lavar Gesù Bambino, per lavar quella faccetta bella, /per lavar quella faccetta bella, /l’anno nuovo e la Pasquella”. Diversi gruppi di giovani cantori giravano per le campagne e per i paesi, accompagnandosi col suono di vecchi organetti. Cappello a larghe tese, tabarro avvolto attorno alla vita e ben stretto al collo per proteggersi dal freddo pungente della sera, era l’abbigliamento consueto. Cantavano la Pasquella, una “Nenia corale avvincente, la cui origine si perde nella notte dei tempi, i cui versi, semplici e bellissimi, sono d’augurio e portatori di una buona novella”. Il freddo pungente della sera e la neve che cadeva fuori a raffiche violente, rendevano più vero, più sentito, più religioso lo spettacolo, nel tepore delle case riscaldate dal fuoco del camino dove ardeva crepitante il ceppo natalizio.

Al termine dell’esecuzione vocale e strumentale, i musicanti improvvisavano una sorta di questua. La “vergara” offriva in dono salsicce, cotechini, ciabuscolo, pane e vino a volontà; tutti mangiavano allegramente, poi via per un’altra casa a ripetere lo stesso rito. Una variante della “Pasquella” marchigiana è contenuta nel “Canto della Stella”, festa che si svolgeva a Sabbio Chiese, in provincia di Brescia. Anche lì il 6 Gennaio, gruppi di giovani giravano di paese in paese a rievocare la nascita del Bambino Gesù tra il bue e l’asinello, la venuta dei Magi guidati dalla stella e i loro doni. Il canto finisce con una strofa quasi simile a quello della “Pasquella”. “Or noi ce ne andiam/ ai nostri paesi/ da cui venuti siam/ ai nostri paesi/ da cui venuti siam/ ma qui resta il cuore/ in mano al Signore/ in mano al Bambino/ al Bambinel Gesù”. Al termine della cantatina, i giovani raccoglievano mance e doni in natura che servivano poi per la cena in comune, consumata a tarda notte, a base di polenta “taragna”, ovvero polenta mescolata abbondantemente con formaggio delle valli.

 

Raimondo Giustozzi

 

Bibliografia

 

  • Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1978
  • I Quaderni della Brianza
  • Alfredo Cattabiani, Calendario, Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, Oscar Mondadori, 2008

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