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Referendum. Il bicameralismo più pazzo del mondo che serve ai mercati

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Luigi Pandolfi

Che la riforma costituzionale, su cui il popolo italiano sarà chiamato a pronunciarsi il prossimo 4 dicembre, sia un pasticcio, non esclude che la sua ratio risieda nel processo di verticalizzazione del potere in ambito Ue, attivo da un ventennio a questa parte, e nelle sfide della globalizzazione finanziaria alla democrazia rappresentativa. Paradossalmente, proprio le incongruenze che la stessa porta con sé rischiano di favorire, oltremodo, il rafforzamento della posizione del governo, a scapito del parlamento e delle sue prerogative, rendendo le istituzioni maggiormente reattive agli stimoli dell’economia e dei mercati, semplificando il rapporto tra leadership nazionale e vertici europei, secondo una logica di tipo (meramente) funzionale.

Vediamo perché. Un bicameralismo abborracciato, claudicante, non è una variante del monocameralismo, ma, semplicemente, un bicameralismo che non funziona. Tralasciando gli aspetti legati alla composizione e all’elezione del nuovo Senato, pur importanti, quel che colpisce è il fatto che la seconda camera, ridotta a “cameretta” di servizio, dovrebbe, in primo luogo, rappresentare “le istituzioni territoriali” ed esercitare “funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica” (i suoi membri non rappresenterebbero i governi locali, ma i partiti che li hanno designati, però), ma, al tempo stesso, godrebbe anche di poteri paritetici relativamente alle leggi di revisione della Costituzione e alle altre leggi costituzionali, alle leggi di tutela delle minoranze linguistiche, alla “formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”, eccetera.

Su richiesta di un terzo dei suoi componenti, potrebbe esaminare, poi, “ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati”, mentre il suo concorso alla formazione delle leggi di bilancio sarebbe automatico, con possibilità di “deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione”. Per tutte le leggi attuative dell’articolo 117 (rapporto tra Stato, regioni, autonomie locali), quarto comma, invece, la riforma prevede il diritto del Senato ad esaminarle, ma anche quello della Camera di respingere le eventuali proposte di modifica. Così come potrebbe chiedere di esaminare progetti di legge approvati dalla Camera, il nuovo Senato potrebbe inoltre richiedere alla Camera di pronunciarsi su quelli di sua competenza. Chicca finale: il nuovo senato andrebbe a “valutare le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni”.

In che senso, di grazia? Immagino già un consigliere regionale-senatore, o un sindaco-senatore, arrovellarsi il cervello per capire in cosa consisterebbe questa sua specifica, ed ermetica, funzione. Astrusità che fanno il paio con le complicazioni linguistiche insite nel nuovo testo di riforma. Alla limpidezza e alla comprensibilità del testo licenziato dall’Assemblea Costituente (per la sua revisione linguistica fu appositamente incaricato lo scrittore e critico letterario Pietro Pancrazi) si contrappone, infatti, un linguaggio contorto, prolisso, intriso di tecnicismi e di rimandi, da Azzeccagarbugli, insomma.

Fine del bicameralismo, allora? Macché, sarebbe il caso di dire che con questa riforma l’Italia darebbe luogo al bicameralismo più pazzo del mondo, in barba al mito dell’efficientismo istituzionale, tanto sbandierato dai sostenitori della riforma. Nessun problema, tuttavia, per i nuovi “costituenti”, che, proprio in previsione di possibili conflitti di competenza tra le due Camere, hanno previdentemente affidato ai rispettivi presidenti l’onere di dirimerli, “d’intesa tra loro”.

Il guaio è che i presidenti delle Camere sono soltanto due, il che esclude decisioni a maggioranza, qualora l’auspicata “intesa” non venisse raggiunta. Ma tant’è. Un parlamento confusionario, azzoppato, sbilenco, per di più composto da un congruo numero di nominati, magicamente plasmato dagli effetti iper-maggioritari dell’Italicum, sarebbe del tutto funzionale alle esigenze di esautoramento della democrazia rappresentativa, perché a prevalere, in ultima istanza, sarebbe sempre la volontà dell’esecutivo, del premier, della sua parte politica. Parlamenti deboli, governi forti, fortissimi: la “piramide rovesciata” di cui ha spesso parlato il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Invero, un processo iniziato anni or sono, che ha visto una progressiva erosione delle prerogative costituzionali dei parlamenti nell’ambito della nuova governance economica dell’Unione, per definizione non democratica. Si è trattato, come molti hanno scritto sull’argomento, di un un processo, lento e pervicace, di de-politicizzazione della democrazia, a vantaggio di oligarchie tecnocratiche che rispondono direttamente ai mercati, agli interessi del grande capitale finanziario (si pensi anche, in tal quadro, alla totale indipendenza della Bce rispetto al potere politico).

Entriamo un attimo nel merito. Entro il 15 ottobre i governi dell’Unione varano le proprie leggi di bilancio, sulla base dei Documenti di economia e finanza (Def) approvati dal parlamento qualche mese prima. Quali sono i parametri cui i governi devono fare riferimento nella formazione di tali documenti? Non certo quelli che afferiscono agli indici di povertà, ai livelli occupazionali. Nemmeno quelli che segnalano lo stato di salute dell’economia, complessivamente. Sono la “regola del deficit” e la “regola del debito” a dettare l’agenda. Per evitare “deviazioni” è stato istituito un “ciclo annuale di coordinamento delle politiche economiche”, denominato “Semestre europeo”, per “rilevare, prevenire e correggere le tendenze economiche problematiche quali i disavanzi pubblici o i livelli di debito pubblico eccessivi”.

Domanda: tale quadro, tali obiettivi, sono compatibili con quanto scritto nella prima parte della Costituzione? Per esempio, il controllo ossessivo della spesa pubblica è compatibile con quanto leggiamo all’art.3, secondo comma, ovvero che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”? Oppure con il principio contenuto all’art.32, primo comma, secondo cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”?

Difficile rispondere affermativamente. Piuttosto, i fondamentali del Patto di stabilità (fiscal compact) trovano riscontro nella norma posticcia contenuta all’art.81 (o viceversa), secondo cui lo Stato è tenuto ad assicurare, in linea di principio, il pareggio di bilancio e la sostenibilità del debito. Norma, che, ricordiamolo, ha determinato una “rottura costituzionale”, perché incompatibile col carattere programmatico della Carta e con una serie di principi contenuti in essa, di carattere sociale, solidaristico. Dal lato delle prerogative parlamentari, poi, è del tutto evidente che il potere censorio della Commissione (“braccio preventivo” e “braccio correttivo”), esercitato in concomitanza con l’esame di questi documenti da parte delle Camere, comprometta, svilisca, il libero e autonomo lavoro delle stesse, che in teoria dovrebbero rispondere solo agli elettori.

Or dunque, se diciamo che questa riforma porta a compimento il lavoro di asservimento della democrazia agli interessi del grande capitale, spostando verso l’alto il baricentro del potere decisionale, assecondando la deriva “funzionalista” e tecnocratica delle istituzioni europee, rischiamo di essere tacciati di ideologismo, di retroscenismo? Forse. Ma in questo caso, possiamo sempre far notare che sono gli stessi estensori della riforma a dichiarare, candidamente, questi obiettivi, come si evince dalla relazione illustrativa al disegno di legge di revisione costituzionale presentato a suo tempo dal governo al Senato. In essa si fa esplicito riferimento allo “spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea” all’esigenza di “adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita)”, alle “stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa)”, alle immancabili “sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”, alle “esigenze di governo unitario della finanza pubblica”. Quindi, alla necessità di “razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multi-livello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche”. Viva la sincerità!

Com’è facile convenire, in tutto questo non c’entrano nulla la “riduzione dei costi della politica”, la cura dimagrante per la “casta”, la riduzione delle poltrone. Per comprendere il perché il premier e i sostenitori del Sì utilizzino questi argomenti a favore della riforma, si rimanda alla lettura di un testo dato alle stampe 67 anni fa: 1984 (Nineteen Eighty-Four), di un certo George Orwell. L’ignoranza è forza.

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