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La crisi romana e il futuro della nostra democrazia

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di Leonardo Paggi

È doveroso, riflettendo sulla vicenda politica del Comune di Roma, mettere anzitutto in primo piano la violenza con cui il M5S è stato messo sotto attacco. Tutte le forze sconfitte da quel voto, i partiti politici, i poteri economici della città, la malavita organizzata, fanno ora blocco per cercare una rivincita. La vicenda di Roma è importante anche perché da un’idea della violenza dell’attacco cui sarebbe sottoposto un governo che sulla base di un consenso idoneo tentasse di presentare un programma di svolta democratica, intenzionato a scontrarsi con i mille interessi che si sono agglutinati attorno alla politica di austerità.

E tuttavia sarebbe profondamente sbagliato non vedere che a Roma si sta consumando una vicenda che interessa da vicino il futuro della nostra democrazia. Il discorso deve farsi a questo punto molto più ampio e non può non prendere le mosse dalla grande diversità che la spinta populista ha assunto nel nostro paese rispetto agli altri paesi europei.

Il paragone più eclatante è con il caso della Francia, dove la protesta sociale è stata definitivamente catturata dal linguaggio di una formazione politica che mette apertamente in discussione i valori storici della civiltà democratica europea. Nelle prossime elezioni del 2017 saranno le parole chiave della rivoluzione francese, libertà, eguaglianza, fratellanza, ad essere messe ai voti. Ma tutta la paradossale vicenda del burkini ha dimostrato ampiamente quanto il Fronte abbia ormai vinto, infettando e condizionando già ora tutto il discorso politico nazionale. Sotto la maschera della difesa della laicità ha preso forma una offensiva razzista di proporzioni impressionanti. Emmanuel Todd, l’intellettuale oggi forse più caustico e provocatorio, parla di una Francia di Vichy che sta riemergendo in superficie.

Non è meno drammatico il caso tedesco. La tesi secondo cui Angela Merkel è stata messa sotto scacco dalla sua apertura agli emigranti dice solo la parte finale della verità. In realtà la politica europea da lei ininterrottamente patrocinata all’ombra di Maastricht da oltre un decennio ha favorito la ricostituzione di un nazionalismo tedesco (è quanto i nostri moderati filotedeschi occultano costantemente) arrogante e chiuso nella difesa stupida di privilegi che data la complessiva situazione europea e l’evoluzione dei mercati mondiali non sono destinati a durare. La politica di destra, quando non c’è più opposizione, apre sempre nuovi spazi alla destra. E’ questa la dinamica che sta dietro a quel 19% che le ultime regionali hanno riservato alla CDU. Del resto non si può nemmeno dimenticare che i successi delle esportazioni tedesche che la stampa nazionale esalta talvolta con toni apertamente sciovinisti (si dia uno sguardo ogni tanto a un tabloid come “Bild”) sono resi possibili anche da 8 milioni di minijobs a 450 euro al mese, per ora (ma fino a quando?) integrati da sovvenzioni pubbliche. Veramente difficile immaginare che da questo scontento sociale ne possa trarre vantaggio la sinistra, ormai deprivata di qualsiasi identità programmatica.

Bisogna tener presente questo quadro per apprezzare il significato di autentica protesta democratica che assume l’esplosione del movimento di Grillo nelle elezioni del febbraio 2013. È la rivolta contro il Pd di Bersani, il riformista dal volto umano, che ha messo in Costituzione il pareggio di bilancio e ha fatto campagna elettorale difendendo il governo che ha creato gli esodati, ma anche contro una destra sempre più cialtrona, delegittimata da anni di promesse mai mantenute. Questa doppia provenienza del voto, indicata dai commentatori politici come segno dell’ambiguità e della transitorietà del movimento, è invece il segno della sua novità e della sua forza inventiva (in senso bergsoniano!), l’indicazione che qualcosa di nuovo si sta producendo nei precordi elementari del popolo italiano, oltre l’appartenenza ad antichi schieramenti politici che alla prova dei fatti (una crisi economica che sta falciando ogni beneficio faticosamente strappato) hanno dimostrato di non sapersi distinguere gli uni dagli altri.

Il successo del movimento è affidato proprio a questo spirito di scissione in cui si esprime una richiesta di rinnovamento della politica. E’ paradossale che tocchi ad un comico, sia pure da sempre fortemente politicizzato, dare parola ad un movimento che ripropone la saldatura tra etica e politica, con elementi di indubbio neo integralismo e aspettative di rigenerazione, senza di cui è però difficile immaginare la nascita di un movimento politico di massa.

Perché di questo si tratta. Nonostante la grande enfasi posta sul ruolo della rete i 5S avanzano (l’ho già sottolineato su queste colonne) nella misura in cui crescono sul territorio, selezionando nuove leve di quadri e di attivisti che presentano centinaia, migliaia di liste locali che raccolgono ovunque larghe messi di voti. È la logica che presiede da sempre alla riproduzione del partito politico, in barba alla astrusa teoria secondo cui la rete e i nuovi media in genere, di per sé e in quanto tali, dovrebbero suonare la campana a morte della politica. E’ vero esattamente il contrario. L’invocazione mitica della rete come dispositivo con cui si possa finalmente fare a meno dei capi bastoni, sprigiona un nuovo bisogno di politica, che però può essere compiutamente soddisfatto, ed è questo il punto, solo sulla base di un complesso e difficile processo di rinnovamento della cultura e del linguaggio. La spontaneità non sopravvive se non riesce a darsi mature forme di coscienza, diceva già, a ragione, la cultura del vecchio movimento operaio! Ed è qui che si torna alla crisi del Comune di Roma e al suo significato non estemporaneo.

Il grande interrogativo che Virginia Raggi sta oggi evocando sul futuro della democrazia italiana (perché a Roma l’alternativa è il ritorno di Buzzi e dei colonnelli di Renzi che dimettono un sindaco saltando il consiglio comunale e andando dal notaio) non sta nella scarsità delle competenze che è riuscita a raccogliere e delle delibere che ha finora fatto approvare, ma nella sua incapacità di parlare di politica, ossia di ristabilire e capitalizzare, nel vivo di resistenze da tutti previste, il contatto con quel 67% dei romani che l’hanno voluta. Continua ad agire come un giovane apprendista avvocato che pensa di poter risolvere i problemi politici sulla base di idonee procedure legali. Perché per parlare, invece di tornare a San Giovanni, mette in circolazione un livido video? Perché non riesce a metabolizzare l’enorme investimento democratico di cui è stata fatta oggetto dalla parte più sana del paese?

La risposta è semplice: perché non possiede un linguaggio, che non è nato e non poteva nascere sui tanti, e anche meritori, palcoscenici calpestati da Grillo nelle sue compulsive performance. I linguaggi sono per definizione frutto della convivenza e del dialogo, di una pratica comune fatta di pensiero e di azione, che è tutt’altra cosa dalla parolaccia urlata per eccitare la folla. La richiesta di onestà, pur sacrosanta, non sostituisce il bisogno di analisi della crisi economica e culturale in cui affondiamo da anni. Per ricreare la “buona politica” non basta tagliare gli stipendi, bisogna tornare – e questo sì sarebbe eversivo – a contendere sul terreno delle idee, delle concezioni del mondo, diceva la vecchia buona politica, per pensare qualcosa di saggio sul futuro di questo “occidente” che implode quanto più è ostinatamente invocato come metro di misura dell’intero pianeta.

Il mondo non è pensabile prima, dopo, o indipendentemente dal linguaggio, diceva Wittgenstein. Linguaggio e mondo sono nozioni inestricabilmente connesse, non si possono pensare separatamente per poi ricongiungerle. Questa assenza di linguaggio politico vuol dire che un nuovo mondo politico non si è ancora costituito. E’ questa mancanza di linguaggio, e quindi di comunicazione con i milioni di italiani che guardano a questo movimento come all’ultima chance di rinnovamento democratico del paese, che fa sì che Grillo rimanga un comico, la Raggi una giovane avvocatessa in carriera, e il direttorio un gruppo di giovani nominati da Grillo, inevitabilmente chiusi entro un circolo di relazione interpersonali, non espressione necessaria, organica, di quel grande rinnovamento politico di cui pure sono ardenti predicatori.

La vicenda del Comune di Roma, se vista come io credo si debba fare come crisi di nuovi linguaggi, non è allora un episodio peregrino di folclore laziale. Rimanda, in forme peculiari nostre, a quel corto circuito, in cui la politica di Maastricht ha gettato l’Europa intera, tra una cieca e ottusa politica di austerità che distrugge, invece di aumentare, la ricchezza del continente, e l’insorgere di una protesta populista regressiva, che invece di parlare balbetta sconci luoghi comuni del passato, precludendosi la strada dell’analisi e dell’approfondimento. È questo l’ infernale circolo vizioso che costantemente salta a piè pari la risposta democratica, spingendo tutto il continente verso soluzioni sempre più catastrofiche.

Si potrebbe dire a questo punto che siamo dinanzi al cane che si morde la coda. Ma non è così. Esiste ancora nella società italiana (ed europea) una larga messe di saperi democratici, che possono svolgere, a seconda di come si atteggino, un ruolo decisivo nello sviluppo degli avvenimenti. Spetta a loro decidere se cercare un rapporto di simpatia, ma certo anche di ferma vigilanza critica, con questo che si potrebbe definire un movimento di “insorgenza democratica”, o avvolgersi e condannare come Minosse, chiudendosi in un passivo atteggiamento di diffidenza. Pensiamo in primo luogo dalla campagna di esplicito sapore sanfedista scatenata in questi giorni dalla grande stampa, ma il discorso vale, ancor prima, per quello che resta della vecchia sinistra mille volte e in mille modi battuta. Oggi la situazione politica italiana è giunta a un bivio forse decisivo : “… per te si cammina su fil di lama”.

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