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Cultura. Le Marche e i Marchigiani visti da Guido Piovene.

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Continua il viaggio tra i libri di chi non marchigiano ha parlato delle Marche e dei Marchigiani.

di Raimondo Giustozzi

Se c’è un libro, che a distanza di anni non ha perso nulla del suo fascino letterario e non solo, questo è il “Viaggio in Italia” di Guido Piovene (Vicenza27 luglio 1907 – Londra12 novembre 1974), pubblicato nel 1957 da Feltrinelli. Piovene iniziò il viaggio a Bolzano nel 1953 e lo terminò nel 1956 dopo aver visitato ogni angolo del Bel Paese, da Nord a Sud e descritto paesaggi, città, società, mentalità, cultura, economia, folclore e quant’altro. L’idea di raccontare le cose viste nacque a seguito di una trasmissione radiofonica RAI che Piovene tenne in quegli stessi anni del suo viaggio. Indro Montanelli riteneva che “Viaggio in Italia” dovesse essere “un testo d’obbligo nelle scuole italiane, tali erano la profondità e la nitidezza della sua sonda nelle pieghe e nelle piaghe del nostro Paese e che difficilmente si sarebbe trovato un altro scrittore capace di dire le cose dette da Guido Piovene e un “saggio sull’Italia come il suo “Viaggio in Italia” non lo avrebbe scritto più nessuno”. Industrializzazione tumultuosa, crescita urbana disordinata erano ciò che Piovene osservava direttamente: “Mentre percorrevo l’Italia e scrivevo dopo ogni tappa quello che avevo appena visto, la situazione mi cambiava in parte alla spalle…Industrie si chiudevano, altre si aprivano; decadevano prefetti e sindaci; nascevano nuove province”. E annotava ancora: “In nessun altro Paese sarebbe permesso assalire come da noi, deturpare città e campagne, secondo interessi e capricci di un giorno”.

Erano ma sono ancora le “pieghe” e le “piaghe” della società italiana: città e campagne deturpate. Si sa che la lettura di un libro così lontano nel tempo ha solo un valore: trovare, in quello che veniva descritto, ciò che è cambiato in meglio o in peggio e ciò che permane identico. Lo studio del passato deve essere sempre legato a una qualche domanda che il nostro presente ci pone. E’ quanto scriveva anche J. Dewey: “Se il passato fosse veramente finito o morto, vi sarebbe un solo atteggiamento verso di esso, lasciate che i morti sotterrino i loro morti. Ma la conoscenza del passato è la chiave per capire il presente.  Gli avvenimenti passati non possono essere separati dal presente vivo senza perdere il loro significato. Il vero punto di partenza della storia è sempre qualche situazione attuale con i suoi problemi” (J. Dewey, Democrazia ed Educazione, pag. 275).

copertina-del-libro-le-marcheIl paesaggio marchigiano visto da Piovene

Lo scopo della rilettura è solo quello di rintracciare nel testo di Guido Piovene alcune parti del suo viaggio fatto, attraversando anche le Marche: il paesaggio, le mentalità e le città visitate. “Ogni marchigiano colto usa mettere in guardia contro la tentazione di vedere le Marche come un tutto uniforme. Le Marche sono un plurale […][…] per quanto ne accolgano i riverberi, le Marche non somigliano veramente né alla Toscana, né alla Romagna, e neppure all’Abruzzo, o all’Umbria. La regione addossata alle rive dell’Adriatico, metà montagna appenninica e metà collina, è divisa da ben tredici fiumi-torrenti paralleli […] con altrettante valli che sfociano al mare. Più ancora dell’Emilia e dello stesso Veneto, le Marche sono la regione dell’incontro con l’Adriatico. Questo piccolo mare d’eccezione qui si spiega più intimo, più libero e silenzioso, con i suoi colori strani che lo fanno diverso da tutti i mari della terra…E la collina marchigiana, volgendosi verso l’interno, è quasi un grande e naturale giardino all’italiana. Non è la colina toscana, né quella umbra, né la veneta. È dolce, serena, patetica, lucida, priva di punte. Passando tra i coltivi delle valli ubertose nelle belle giornate si vedono tutte le piante luccicare all’unisono come se le foglie fossero patinate di cera; e vi si trapela un fondo di terracotta chiara, che la sera si fa rossastro, e si rivela specialmente splendendo con l’ombra e la luce di luna. I colli sono tondeggianti, con pendici prative lunghe, lente, disseminate ad intervalli di lunghi alberi solitari; quasi preparate a ricevere le mandrie bianche e i pleniluni. È il prototipo del paesaggio idillico e pastorale… Se si volesse stabilire qual è il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel Maceratese ed ai suoi confini. L’Italia, nel suo insieme, è una specie di prisma, nel quale sembrano riflettersi tutti i paesaggi della terra… L’Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo; le Marche dell’Italia… Qui abbiamo l’esempio più integro di quel paesaggio medio, dolce, senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo stesso ne avesse fornito il disegno. Non esiste terra meno gotica, o meno barocca. La stessa fecondità della terra, la varietà dei coltivi e degli alberi (querce, olmi, platani, gelsi, pioppi, olivi) sembrano essere usate ad uno scopo ornamentale… La vita contadina acquista nelle Marche il massimo suo splendore, e il lavoro concorre alla bellezza e lucidità del paesaggio(Guido Piovene, Le Marche, in “Viaggio in Italia”, pag. 393, 394, 396, Arnoldo Mondadori, Milano 1966). Le Marche visitate da Guido Piovene erano ancora una regione prevalentemente agricola, con la “maggioranza della popolazione che vive sparsa in campagna. Nel resto d’Italia il 74 per cento della popolazione sta negli agglomerati urbani; qui il 46 per cento. Il 54 per cento vive sparso nei fondi… Sono stato colpito dalla densità delle case coloniche in alcune valli, quelle ad esempio del Musone e del Potenza tra Recanati e Loreto” (pag. 396). Quelle Marche non ci sono più. Erano le Marche della mezzadria, quando sotto lo stesso tetto convivevano più nuclei familiari sui quali vigilava l’autorità del “vergaro”, chiamato con altri termini in altre regioni d’Italia: “arzadur”, in Romagna, “regiù”, in Brianza, “capoccia” in Toscana. Il lavoro era quasi esclusivamente manuale, ecco perché occorreva essere in tanti per coltivare ettari ed ettari di terra. Tornava utile anche il lavoro dei ragazzi, impegnati a condurre al pascolo le mucche, o raccogliere la ghianda per l’alimentazione del maiale.

Le Marche, recitava tempo fa la scritta: “L’Italia in una regione”. Era la ripresa di quanto già aveva scritto Guido Piovene. Ma, come l’Italia, anche le Marche hanno dovuto pagare un prezzo salato per il progresso: colline sempre più libere di alberi per far posto ad una agricoltura meccanizzata, frane e smottamenti sempre in agguato. Bastano precipitazioni un po’ più consistenti del solito ad allarmare la Protezione Civile, diventata quasi il nume tutelare del nostro paesaggio, sostituendosi ai contadini che oltre a lavorare la terra erano anche i custodi, le guardie ecologiche volontarie di campi, greti di fiumi e fossati. A San Claudio, i contadini, mezzadri della mensa arcivescovile di Fermo erano obbligati a prestare alcune giornate di lavoro non retribuito per rinforzare gli argini del fiume Chienti. Nella locale chiesa di San Claudio è conservato un battipalo gigantesco, manovrato da più braccia, che serviva per piantare con forza, sugli argini del fiume, grossi pali messi ad intervalli regolari a formare delle palizzate. Erano “le corvée” di medievale memoria, contenute nel loro contratto di mezzadria.  Ci ricorda Guido Piovene: Con Recanati, con Loreto, e su su verso la montagna, siamo nella zona che è quasi un distillato delle Marche. Intorno alle città è il paesaggio più rotondeggiante d’Italia, tutto dolcezza, senza la minima dissonanza, con pendii mai scoscesi, ma lunghi, disseminati di piante(Ibidem, pag. 408). Nel tempo in cui Piovene scriveva il suo viaggio, le piante nelle campagne c’erano ancora. Oggi basta percorrere la strada di collina, che dal bivio di Montelupone conduce a Santa Lucia di Morrovalle e da qui a Macerata, per avere sulla propria destra un territorio immenso completamente spoglio di alberi, con qualche casa colonica recuperata da chi la usa come seconda abitazione per i fine settimana o per trascorrervi periodi di riposo. E’ il territorio de “Le Cervare”, care anche a Gioachino Belli, quando veniva da Roma a Morrovalle in visita alla marchesa Roberti. Fino agli anni sessanta del secolo scorso, Le Cervare erano abitate da numerose famiglie di contadini, che lasciata la campagna, trovavano impiego nelle fabbriche di scarpe o nelle industrie di Civitanova Marche, Monte San Giusto, Montegranaro. Nulla convinceva il contadino di rimanere ancora abbarbicato alla terra. Oggi se un popolo alieno dovesse scegliere un posto dove atterrare, scenderebbe su “Le Cervare”, privo com’è di abitanti, di case e di alberi, nascosto e fuori mano. Anche tutta la campagna, che lambisce Recanati a Sud – Est, non è più la stessa di cinquant’anni fa. Basta percorrere la strada che dal ponte sul Potenza sale verso la città leopardiana, per rendersi conto che sono rimasti solo alcuni filari di alberi e nulla più di quello che c’era una volta. Il paesaggio è rimasto sì rotondeggiante ma cambiato. Una sensazione provata dopo tanti anni di lontananza dalle Marche, ci ritornavo solo d’estate, è stata quella di vedere le colline estremamente abbassate rispetto ad una volta. Percorrendo la strada che da Trodica di Morrovalle porta alla locale stazione, noto che Monte San Giusto, un tempo lo vedevo più in alto di quanto lo sia ora. La stessa cosa vale per lo scorcio che si apre sulla sinistra verso Macerata, percorrendo la strada che sale verso il convento dei Passionisti. Quarant’anni fa si vedeva ben poco di Macerata rispetto a quanto si può vedere oggi. La stessa cosa vale per altri scorci e panorami.

 

I Marchigiani visti da Guido Piovene.

Le Marche, scriveva Guido Piovene, non sono molto conosciute dai più “in proporzione alla sua grande bellezza naturale e artistica”. Le cause possono essere molteplici: “La scarsa attrezzatura alberghiera, che oggi però va migliorando e la deficienza nelle vie di comunicazione”. Il completamento della super strada da Civitanova Marche per Foligno ha accorciato i tempi per raggiungere Roma e il Tirreno. “Ma – continua ancora Piovene- forse alla popolarità delle Marche nuoce anche l’assenza di quegli aspetti stravaganti, sorprendenti, eccitanti, che attirano le fantasie in cerca dello straordinario. Non si ritrova nelle Marche né il primitivo né l’estremamente moderno. Nulla di iperbolico. E’ una terra filtrata, civile, la più classica delle nostre terre…Difficile trovare altrove una così esatta corrispondenza tra gli animi ed il paesaggio… Il Marchigiano è un forte lavoratore, senza eccessi, perché preferisce la vita parca; è intelligente fino alla sottigliezza, d’una intelligenza ironica, che lo convince ad accontentarsi del poco. Il suo principio prediletto è “fare il passo secondo la gamba”. Quando deve decidersi, ama prendere tempo; odia le intemperanze e le esagerazioni… All’equilibrio, al realismo, si unisce un istintivo ossequio all’autorità, quell’umore governativo che si accompagna sul governo… Autocritici ed ironici, i marchigiani accusano se medesimi di essere i primi a demolire chiunque accenni ad emergere ed a tentare nuove imprese… il primeggiare è escluso, l’uomo è richiamato sempre alla modestia naturale e ai bisogni fondamentali, e l’uguaglianza è sentita in modo più forte che nei paesi democratici alla moderna. Eccellono per virtù medie ed umanità comune… Il marchigiano è sobrio, e conduce vita modesta, regolare, perfino piatta; tuttavia è anche festaiolo per eccezione” (Ibidem, pag. 395, 401). Piovene trovava nel carnevale di Fano la festa più sfrenata e partecipata da tutta la popolazione cittadina che, divisa in quartieri, preparava il proprio carro allegorico in un clima di competizione gioiosa e sfrenata. “Il Marchigiano è un lavoratore forte”. L’ho sentito ripetere da tanti che conoscevano le Marche, quando ero in Brianza. Alcuni mi facevano osservare che quanto al lavoro, i Marchigiani sono simili ai Bergamaschi, ai Bresciani, agli stessi brianzoli, ma con un pizzico di fantasia in più. Sentivo ripetere spesso da questi ultimi che “laurà fa’ ben”, il lavoro fa star bene non solo perché genera ricchezza ma anche per sentirsi bene nell’animo e nello spirito. Noi parliamo più di fatica, perché il lavoro è tale. “Facciamo il passo secondo la gamba”. Il detto mi sembra che sia valido anche oggi. La descrizione che Piovene faceva ci fotografa così come siamo, sempre attenti a non fare operazioni azzardate. Certo, il viaggio di Piovene è datato. I grandi capitani dell’industria locale porteranno le proprie aziende a traguardi di un certo livello nazionale ed anche internazionale qualche decennio più tardi. Basta pensare ad Aristide Merloni, ai fratelli Guzzini, per non parlare poi di Diego Della Valle e della miriade di calzaturifici, piccoli e grandi, che saranno i protagonisti negli anni settanta del modello marchigiano di sviluppo. Ma anche in quel decennio di boom economico ed industriale, il contadino marchigiano era sì operaio nelle fabbriche calzaturiere o in quelle metal meccaniche, ma rimaneva legato alla terra, tanto che si è coniato per lui il termine metal – mezzadro. Aristide Merloni chiedeva sempre quando iniziasse la campagna bieticola per dare ai propri operai le ferie proprio in quel periodo perché sapeva che avevano da fare nella campagna a raccogliere le barbabietole. Oggi, delocalizzazione e globalizzazione hanno completamente cambiato gli scenari.

Piovene trovava nelle campagne attorno a Recanati e a Macerata il luogo ideale delle Marche classiche e in Leopardi il cantore non solo del paesaggio marchigiano ma anche degli uomini: “Vi sono in lui, divenuti sublimi, una suprema prudenza dell’intelletto, un rifiuto alle idee ed eventi che si chiamano progressivi, una sicurezza che l’indole dell’uomo non sia mutabile, una sfiducia per le mode metropolitane, straniere ed in genere altrui, proprie delle province classiche e di sangue nobile. Per il paesaggio basta leggere a caso… il pastore che vede greggi, fontane ed erbe, paesaggio dolce, verde, irriguo, come lo si contempla da queste parti. Appaiono in Leopardi figure di gente che canta… come se facesse parte della natura delle cose. E’ un canto solitario, non corale: Silvia al telaio, “il solitario canto” dell’artigiano che ritorna a casa la notte, “del faticoso agricoltore il canto”… Le Marche sono una terra musicale, qui però i canti suonano più solinghi, più malinconici, diversi da quelli di Fano e Pesaro, e ricordano la melopea greca” (Ibidem, pag. 406). Quelli che Piovene forse ascoltava erano “i canti a batocco”. C’erano poi gli stornelli marchigiani che qualche cultore del folclore locale ha accostato agli “Spirituals” negri. I canti “a batocco” erano melodie cantate all’aperto, durante la mietitura del grano, la fienagione, la vangatura della vigna, la vendemmia, la “scartocciatura” del granturco, la semina, la raccolta delle olive o quando si andava semplicemente sul biroccio e si attraversavano i campi per riportare a casa le cassette d’uva o i covoni di grano. Tali canti sono sorti in funzione del lavoro svolto né possono essere cantati separati dello stesso. Nascono e si diffondono per le nostre campagne quando il lavoro del contadino veniva fatto solo a forza di braccia. Cantare serviva quasi ad alleviare la fatica fisica. Muoiono e scompaiono quando il lavoro diventa meccanizzato e i rumori riempiono le campagne, prima le falciatrici e le seminatrici meccaniche, poi i trattori, cingolati o gommati. Gli esecutori materiali dei canti erano uomini e donne, baritonale la voce dei primi, acuta e stridula quella delle seconde. Erano canti a “batocco”, a botta e risposta tra uomo e donna. Il “batocco” è il battaglio della campana che batte una volta da una parte e una dall’altra. Ma i campanili delle nostre chiesette di campagna, grandi e meno grandi, erano provvisti di più campane, una più grande, le altre più piccole. Il suono della campana più grande era simile alla voce dell’uomo, l’altra, quella della donna, era assomigliante al suono della campana che suonava a rintocchi. Non era raro, quando ancora le nostre campagne non erano attraversate dagli stessi rumori delle nostre città, nei giorni di festa, ma anche in altri, ascoltare un concerto di campane lontane, quello lungo e prolungato del campanone issato sul campanile cilindrico della chiesa di San Claudio, ma anche lo scampanio più ciarliero di piccole campane che suonavano dalle chiesette rurali: S. Lucia, S. Liberato alle Cervare, Madonna del Monte, S. Isidoro, Montenovo. Sono scampoli d’adolescenza che vivono ancora nel ricordo di chi scrive.

 

Il capitolo sulle città marchigiane, visitate da Guido Piovene nel corso del suo viaggio in Italia e nelle Marche, merita un articolo a parte, aggiungerlo qui, renderebbe la lettura troppo faticosa.

 

Raimondo Giustozzi

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