Raimondo Giustozzi
“Il paese dell’uomo”. Le Marche e i Marchigiani visti da Carlo Bo.
L’articolo “Il paese dell’uomo”, è stato scritto da Carlo Bo nel 1981 come introduzione a un volume di fotografie di Pepi Merisio, uscito nello stesso anno. E’ riportato anche, assieme ad altri scritti, nel volume “Carlo Bo, città dell’anima, scritti sulle Marche e i marchigiani 1937 – 2000”, a cura di Ursula Vogt con un saggio di Mario Luzi e introduzione di Livio Sichirollo, edito dalla Banca Marche – il lavoro editoriale nel 2000. Carlo Bo (Sestri Levante, 25 gennaio 1911 – Genova, 21 luglio 2001) è stato, dal 1947 al 2001, ininterrottamente per cinquantatré anni, rettore dell’Università di Urbino. “Ha dedicato alle Marche, più che a qualsiasi altra regione d’Italia, se non sbaglio neppure alla sua Liguria, tanta passione e tanta attenzione, e questo indipendentemente dalla profonda natura letteraria del critico” (Livio Sichirollo, introduzione, in “Carlo Bo, città dell’anima, scritti sulle Marche e i marchigiani”, pag. IX). Tra i tanti scritti dedicati alle Marche e ai marchigiani, vale la pena proporre l’articolo in questione, anche per rivedersi come in un album di fotografie in bianco e nero. La tristezza del presente, per il terribile terremoto (24 agosto 2016) che ha colpito una parte della nostra regione, va superata, pensando al passato, per trovarvi forse alcune risposte per il nostro presente. Il futuro sarà come decideremo che sia.
“Le Marche vivono per aria, sospese dentro un’idea di poesia quanto mai libera, per cui anche la storia che è stata spesso illustre non ha più peso specifico e viene assolta da un’altra pronunzia delle cose. Ma non basta, questa linea magica dell’orizzonte interno è sostenuta dalla bellezza della campagna, dalla dolcezza delle colline, da tutta la musica che la nostra memoria riesce a strappare dal gioco delle luci, dalle lente trasformazioni dei colori, dagli interventi delle stagioni” (Carlo Bo, città dell’anima, scritti sulle Marche e i marchigiani, pag. 15). Forse tutte queste parole ci restituiscono un’immagine delle nostre Marche come una cartolina da “Mulino Bianco” non più attuale. “Omnia fert aetas, animum quoque… ruit hora… tempus fugit”. Tutto il tempo ci strappa anche l’anima, l’ora precipita ed il tempo fugge. Le Marche sono delimitate ad est dal Mare Adriatico, a nord e a sud da due fiumi, rispettivamente il Conca, nei pressi di Cattolica, al confine con la Romagna ed il Tronto, al confine con l’Abruzzo, ad Ovest dalla catena del Sibillini, i “Monti Azzurri” di leopardiana memoria. Carlo Bo ci suggerisce di andare oltre: “Non basta leggere le Marche in prossimità del mare, è necessario tagliare questa linea litoranea con le stupende valli che portano dal mare ai monti; anche qui è tutta una serie di suggestioni che ci portano a correggere e a accrescere le prime impressioni. La valle del Chienti che sembra scoppiare di vita in tutte le direzioni, terre ubertose, piccole industrie, e poi quella del Tronto e oltre queste che hanno una fisionomia più chiara, le innumerevoli piccole valli che si lasciano intravedere dal passante frettoloso e ce sono più gonfie di mistero” (Cfr. ibidem, pag. 15). Certo, forse queste altre valli sono quelle del Marecchia, del Misa, del Potenza, del Tenna, dell’Aso, del Menocchia, meno conosciute ma ugualmente belle sotto tutti gli aspetti, quelle più conosciute dell’Esino e del Metauro. Sono vallate vocate alla cultura di viti e di alberi da frutta, sulle sommità delle colline s’innalzano paesini incantevoli, piccoli ma carichi di storia: Fossombrone, Montecarotto, Tre castelli (Ripe, Monterado, Castel Colonna), Massignano, visitati per motivi diversi nel corso di questa estate.
Osimo, Castelfidardo, conosciute oltre i confini nazionali per la produzione degli strumenti musicali, scrive Carlo Bo, sono “città sospese” che obbediscono“ a due o tre momenti fondamentali: le mura, la chiesa, la piazza. Il tutto sciolto e fuso nel colore dei mattoni che sta fra il rosso e il giallo. Città di campagna e che vivevano di campagna hanno avuto poi un primo tempo di trasformazione con un artigianato di alto livello e un secondo con qualche timido tentativo industriale”. Non esistono solo queste due città, ma tutti i paesi grandi o piccoli che s’innalzano sulla sommità dei colli obbediscono a questa tipologia. Oggi tuttavia i nostri centri storici sono disabitati o occupati in parte da chi è venuto da molto lontano per lavorare o sbarcare il lunario. Le nostre famiglie che abitavano in centro, con il benessere raggiunto, hanno costruito giustamente la propria abitazione in periferia o comunque fuori dal centro abitato. I paesi cinti da mura, all’interno delle quali pulsava tutta una vita fatta di affetti, di attività artigiane, di passeggiate, di incontri, rimarranno in futuro così come noi li abbiamo ereditati dal passato? Carlo Bo con l’occhio fine dell’osservatore, parlando di città e campagna, scriveva: “Si ha l’impressione che l’uomo sia riuscito a non oltraggiare troppo l’imitazione di Dio, di chi ha creato questa natura straordinaria. Vogliamo dire che c’è una corrispondenza fra arte e campagna, fra il disegno di certe ville e il disegno dei colli, fra chi ha operato con maestria dentro le mura e chi, per esempio, ha tracciato queste mirabili stradine di campagna, insomma fra l’artista con tanto di storia e di nome e chi è stato portato dal bisogno e dalla necessità a non violare l’armonia di questi colli. Sono proprio le strade della poesia, dove la necessità è annullata, nascosta dall’eleganza del tracciato: la strada concepita come piccolo segno della presenza umana in un quadro naturale che non ammette altri interventi o distorsioni, o peggio, imposizioni. Anche qui siamo di fronte a una geografia sospesa, appena materializzata ma nella volontà tesa verso l’alto, quasi che le strade non dovessero portare a un paese o verso le grandi vie di comunicazione ma a delle terrazze tutte poetiche, a un mondo sospeso tra miracolo e fiaba, in una dolcissima musica, la musica delle piccole eterne verità quotidiani” (pag. 17). La prosa di Carlo Bo si trasforma in lirica. Le piccole eterne verità quotidiane! Quelle della civiltà contadina non esistono più. Quelle riposte all’interno dei paesi e delle città? Spesso, di sera, fino a qualche anno fa, mi capitava di trovarmi nel centro storico di Fermo, gioiello di rara bellezza, ma non trovavo nessuno. Tutto il centro storico mi sembrava sprofondato in una grande tristezza. Eppure me lo ricordavo diverso, ma ahimè, anche in questo caso non facevo memoria del tempo trascorso.
Armonia, poesia del bello, ma anche “il terrore del mondo, la nozione del male, il sentimento della notte del cuore”, temi presenti nella produzione poetica di Luigi Bartolini di Cupra Marittima, rivolta e protesta, accompagnate alla dolcezza e all’improvvisa emozione di fronte alla natura: “Se infine cerchiamo di arrivare al fondo di questa contraddizione, scopriamo che il riflesso della natura stessa di questa terra, il segno del contrasto che c’è fra la partenza attraverso quelle dolci colline è l’approdo ai contrafforti dell’appennino, alla solenne e ancora struggente bellezza dei monti Sibillini. Fra questi due mondi le distanze non sono grandi e anche le cittadine che stanno ai piedi dei monti più alti ripetono nelle strutture della loro architettura il modello della costa picena. E’ sempre l’uomo che tenta di superare gli ostacoli e di trovare una composizione, un modus vivendi, la voce della storia della piccola patria” (pag. 18). Non c’è grande distanza tra la catena dei Sibillini e la costa. Lo abbiamo sperimentato con il terremoto del 24 agosto anche a Civitanova Marche e dintorni. La paura è stata tanta. Sembrava che tutto stesse crollando. I paesi dell’alto Fermano e dell’alto Maceratese hanno avuto danni notevoli, quelli dell’Ascolano, tra tutti Arquata e Pescara del Tronto hanno avuto anche dei morti, ma è tempo di trovare “una composizione ed un modus vivendi”, piangendo i nostri morti e aiutando le popolazioni colpite dal sisma, “riprendendo il viaggio/ come un superstite/ lupo di mare”.
Le Marche, “Per il fatto stesso di essere una terra separata, la sua storia ha seguito un ritmo ridotto rispetto al resto d’Italia ma è stato un ritmo che le ha consentito di durare più a lungo e in modo composto. Che è poi il ritmo della campagna e di conseguenza della civiltà contadina. Ma è esatto parlare di civiltà contadina soltanto? Fra città e campagna non c’è rottura, c’è invece un sistema di vasi comunicanti sostenuto più da una ragione politica da una ragione religiosa” (pag. 18). Nelle Marche, eccettuata la settimana rossa di Ancona, non ci sono state altre rivolte. La presenza della Chiesa non ha soffocato lo spirito illuministico. Carlo Bo riprende la definizione di una Marca Rossa, quella che va da Ancona a Pesaro, vicina alla Romagna e la Marca Bianca, il resto della regione, ma aggiunge: “Non bisogna qualificare questo colore politicamente, è il bianco dell’apparente inerzia, dell’apatia che poi, a ben guardare, sono indici di altre disposizioni naturali e di altre virtù. All’osservatore esterno può risultare che questa terra sia la terra del rifiuto indolore e della sottrazione alle grandi responsabilità o sia soltanto la conseguenza del lungo periodo di addormentazione della Chiesa, ma sono apparenze, la realtà è ben diversa e diverso il metro di giudizio delle cose e poi della storia… C’è una civiltà di crosta e una civiltà di fondo, l’accondiscendere alle ragioni e alle imposizioni del momento e la fedeltà a una trama non esaltata e non sposata dall’esterno. Questa prevalenza del passato o dell’antico o dell’eterno così come lo possiamo concepire non significa che non ci sia l’attenzione al presente o, come si dice oggi, al sociale. Non dimentichiamo che proprio in questa Marca fra mare e monti è nato Romolo Murri (Monte San Pietrangeli), quella che agli inizi del secolo (XX) è stata la voce più alta in difesa del ceto popolare e a suo modo ingenuo e illuso fondatore di religioni politiche. Cosa che ci riporta a uno dei dati primi dell’anima marchigiana: il senso del concreto, i motivi del fare e subito dopo il freno sugli eccessi e le illusioni”(pag. 19). E’ un concetto, scrive ancora Carlo Bo, ben orchestrato da Leopardi, quando descrive lo scarto che esiste tra l’osservazione dell’umile realtà quotidiana e le domande ultime sul senso dell’esistenza. Ma è lo stesso paesaggio che favorisce questo confronto. “Basta affacciarsi a certi balconi- quello del palazzo comunale di Recanati, quello del palazzo dove ha sede il circolo di Fermo e, meglio ancora, alla serie di finestre nel palazzo arcivescovile di Fermo- per godere di paesaggi straordinari dove per l’appunto l’ampiezza non annulla la misura umana delle cittadine, delle loro strade e dei loro palazzi… Tutti i paesi della Marca arroccati sulla collina offrono questi spettacoli. Si direbbe che il marchigiano contrapponga all’abitudine e alla regola dei suoi traffici e delle sue opere l’eccezione dell’occhio libero, il riposo e l’intervallo della passeggiata sulle mura. Perché questa terra così discreta è anche una terra di conversazione fra amici, di colloqui che un tempo si protraevano fino a notte avanzata” ( pag. 19). E’ ancora vero quello che scriveva Carlo Bo nel 1981 sull’abitudine di conversare tra amici? Che cosa è cambiato?
Bella poi l’irruzione dell’illustre studioso nel mondo della gastronomia: “C’è un modo particolare di cucinare il pesce che ha avuto e ha tuttora a Porto Recanati una grande scuola del “Brodetto”, un brodetto che si distingue da quello molto forte che si prepara nel mare di Ravenna per una maggiore delicatezza: segno permanente della civiltà marchigiana che ha conservato i tratti di una cucina d’origine contadina fatta di tagliatelle e lasagne (con la variante aggiunta di derivazione austriaca, i vincisgrassi in omaggio a un generale del Papa. Poi carni e pesce arrosto. Una cucina che prende dalle regioni confinanti certi piatti di base e questo si vede nella presenza dei “cappelletti” romagnoli al nord e nella novità dell’oliva farcita nella zona di Ascoli” (pag. 22). Non solo il brodetto di Porto Recanati, ma anche lo stoccafisso all’anconetana. Mio suocero, abruzzese, ogni volta che veniva nelle Marche, se poteva, andava sempre in qualche ristorante di Ancona a mangiare lo stoccafisso e magnificava questo piatto quando ritornava dai suoi amici in Abruzzo, con i quali andavo anch’io a mangiare il brodetto a Pescara, da “Gabriele” o a Popoli, a mangiare i gamberetti di fiume allevati alle sorgenti del Pescara, al ristorante, all’ingresso del paese.
In sostanza – conclude Carlo Bo, le Marche rappresentano “il paese delle sottili e silenziose corrispondenze, un paese dove l’uomo ha saputo trovare una sede che non contraddica l’aspirazione alla libertà e alla dignità. Un paese nobile, nel giusto senso del termine, perché si adatta alla natura della terra, sapendola sfruttare senza mai violarla o offenderla. Un piccolo miracolo, cosa da non dimenticare quando si passa per le nuove grandi strade imposte dal progresso: da ammirare come spettacolo e soprattutto come esempio di umani equilibri”( pag. 22).
Ciò che Carlo Bo scriveva sulle Marche e sui Marchigiani circa trentacinque anni fa è valido ancora oggi? E’ ancora un paese nobile? Si adatta alla natura della terra, sfruttandola ma senza violarla o offenderla? I nostri paesi, le nostre città, le piazze, le strade, le mura cittadine, le nostre colline sono ancora da ammirare come spettacolo e come esempio di equilibri umani? Rappresentano ancora quel valore aggiunto di cui tutti parlano?
Raimondo Giustozzi
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