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Marketing e social. Non facciamo di Amatrice un business!

AMATRICIANA - internet

AMATRICIANA – internet

Deborah Dirani

Ho fatto una mano di conti: per preparare un piatto di pasta all’Amatriciana non si spendono neanche due euro. Un etto di pasta, un po’ di pomodoro, una manciata di guanciale, una spruzzata di pepe e una di pecorino. No, ai 2 euro non si arriva. E quindi, mi chiedo io, dove sta il grande cuore dei ristoratori che devolveranno 2 euro (uno di tasca loro e uno dalla tasca dei clienti) per ogni piatto di Amatriciana servito? Direi, malpensante e “malpancista” come ogni tanto riesco a essere, che il cuore, in questo caso, sia preoccupantemente vicino al portafogli. Perché se da un lato è vero che tutto fa brodo, dall’altro è anche vero che il brodo può essere di verdurine un po’ appassite o di cappone bello grasso. La differenza non è da poco, sia nel gusto che nel costo.

Ammantarsi del velo della solidarietà sacrificando due euro (in realtà poi uno solo) davanti a interi paesi esplosi, centinaia di morti e migliaia di sfollati, mi sembra più lavorio di marketing che di sentimento e, con tutto il rispetto per i professionisti del marketing, direi che al momento non ce n’è un gran bisogno. O meglio, se proprio vogliamo essere cinici e saltellare sul carro delle donazioni, almeno facciamolo seriamente: non due euro, ma l’intero costo del piatto sostenuto dal cliente.

Eh, ma così ci si rimette, si dirà. Eh, ma infatti stiamo parlando di solidarietà, di aiuti, di “sbattimento”, non di fare cassa. Perché oggi fare cassa, farla su una tragedia i cui confini non sono ancora definibili, potrebbe apparire come sciacallaggio e gli sciacalli stanno bene nella giungla di liane non in quella di macerie. Il ricordo delle speculazioni, delle risate che accolsero l’ipotesi della ricostruzione offerta dagli ultimi terremoti, è ancora freschissimo, indimenticabile. E non importa se le “iene palazzinare” si fregavano le zampe al pensiero di milioni di euro da mettere in cassa e qui stiamo parlando di ristoratori che venderanno piatti di pasta per una decina di euro. È il principio, la sostanza, che contesto. Dei conti correnti non mi importa. Chiunque sia pronto a intravedere un’occasione di guadagno fondata sui calcinacci di un terremoto, sui corpi massacrati da quei calcinacci, sui morti ammazzati da quei calcinacci, è un uomo piccolo piccolo. Piccolo quasi quanto piccola è una monetina da 2 euro, buona per un caffè e una bottiglietta d’acqua, di sicuro non per un metro quadrato di cemento armato.

Non scherziamo, per favore. Ci sono già (già, ma non in tutto) 247 morti, 2500 sfollati, centinaia di dispersi. Ci sono famiglie frantumate, aziende che non daranno più lavoro a chi di quelle famiglie è sopravvissuto, ci sono bambini che non hanno una scuola a cui tornare a settembre e c’è chi si sente un grand’uomo perché dona 2 “miserissimi” euro guadagnati su un piatto di pasta che porta il nome di un paese andato in pezzi?

Possiamo essere migliori di così. Sappiamo esserlo: siamo quelli che fanno la fila per donare il sangue, che si organizzano per portare pannolini e scatolette e pacchi di spaghetti dove degli sconosciuti hanno perso tutto. Siamo quelli che partono e vanno a dare una mano. Di solito siamo silenziosi, non ci appendiamo cartelli e targhette addosso per prenderci un applauso. Siamo la parte migliore di questo mondo ingiusto e rabbioso.

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