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Adriatico. L’abbraccio mortale della crisi soffoca i distretti industriali e le banche adriatiche

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di MARCO PATUCCHI

La riviera adriatica

La dorsale che unisce l’Emilia-Romagna alla Puglia, attraversando Marche, Abruzzo e Molise è un lungo fronte, fuori dai radar degli stress test delle autorità europee, dove continuano a esplodere crac creditizi e inchieste giudiziarie

E’ una trincea di oltre settecento chilometri, che solca il campo di battaglia della recessione e delle crisi bancarie. La dorsale adriatica va dall’Emilia-Romagna alla Puglia, attraversando Marche, Abruzzo e Molise: un lungo fronte, fuori dai radar degli stress test delle autorità europee, dove sono esplosi e continuano ad esplodere crac creditizi e inchieste giudiziarie; dove le imprese che un tempo erano il fiore all’occhiello del Paese – il modello dei distretti del made in Italy (scarpe, divani, elettronica, agroalimentare…), la “terza Italia” battezzata dal sociologo Arnaldo Bagnasco – ora stentano a riprendersi dagli effetti di quasi dieci anni di crisi globale. Resistono, chiudono, provano a trasformarsi. E incrociano il loro destino con quello delle banche locali. Come hanno sempre fatto. Ma anche quella simbiosi, che un tempo rappresentava una virtuosa specificità, si sta trasformando in un incesto, una trappola reciproca.

“Le banche locali si differenziano dalle altre per la loro funzione-obiettivo che non consiste solo nel massimizzare il profitto dei partecipanti al capitale, ma considera esplicitamente i benefici per soci, clienti e comunità locale – si legge in un occasional paper della Banca d’Italia -. I medesimi fattori distintivi le espongono, però, a rischi di “cattura” da parte della comunità locale, alle ripercussioni negative di una scarsa diversificazione del portafoglio, alle difficoltà di valutare il merito di credito della clientela”.

Non è un caso, evidentemente, che delle prime quattro banche italiane coinvolte dal terremoto del bail-in, tre siano dislocate lungo la dorsale adriatica (Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti), e che la lunga trincea sia costellata da crisi, scandali, acquisizioni e piani di rilancio più o meno praticabili.

Gli ultimi sviluppi giudiziari sono delle settimane scorse, con gli ex vertici della Cassa di risparmio di Cesena indagati dalla procura di Forlì per false comunicazioni sociali, ostacolo alla vigilanza e illecita ripartizione degli utili; con il rinvio a giudizio degli ex amministratori della Cassa di risparmio di Rimini per falso in bilancio; con i 21 indagati nell’inchiesta sulla Cassa di risparmio di Ferrara e le relative perquisizioni della Finanza.

Indagini che procedono parallele ai tentativi (faticosi) di risanamento e rilancio: a Rimini, ad esempio, dove è ancora in stand by l’aumento di capitale o a Cesena dove si prospetta la sottoscrizione da parte del Fondo interbancario di tutela dei depositi, attraverso la formula dello “schema volontario”, di un aumento da 280 milioni. E poi il caso della Popolare di Bari che in questi anni sta provando a giocare il ruolo di pivot nei salvataggi bancari, con l’acquisizione della Tercas di Teramo, della pescarese Caripe e con l’offerta per la nuova CariChieti (l’istituto nato sulle ceneri della cassa entrata nel bail-in).

Insomma, la dorsale adriatica come rappresentazione plastica della crisi del credito nel nostro Paese, fotografato in poche parole dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, nel suo intervento all’assemblea Abi: “Le banche italiane hanno essenzialmente sofferto per gli effetti della recessione, alcune vi hanno aggiunto debolezze derivanti dagli assetti proprietari e gestionali e, purtroppo in diversi casi, comportamenti fraudolenti”.

 

Tre fattori, quelli segnalati da Visco, che se declinati nello specifico delle banche locali della dorsale adriatica, spiegano molto anche della crisi del sistema produttivo di queste regioni: “Se l’economia reale non funziona – dice Carlo Carboni, docente di sociologia all’Università di Ancona e alla Luiss – in parte è per colpa del peccato originale delle banche. Tutto è iniziato con la crisi finanziaria e con il credit crunch: le banche locali hanno drenato ricchezza dal territorio, ma poi hanno reinvestito prevalentemente nell’edilizia”.

 

I numeri dell’ultimo rapporto Bankitalia sulle economie regionali, relativi al 2015 con proiezioni sul 2016, evidenziano tutte le difficoltà delle imprese della dorsale adriatica. In Emilia-Romagna, dove la prolungata fase recessiva sembra essersi interrotta, combattono meglio di altri il distretto biomedicale di Mirandola e la “motor valley”, mentre il settore costruzioni ha subito un ridimensionamento significativo. Anche nelle Marche il Pil ha finalmente rialzato la testa, ma rispetto al 2007, ultimo anno pre-recessione, il prodotto regionale è ancora inferiore del 12,5%: bene le aziende della meccanica, cauta ripresa per mobili e elettrodomestici, industria calzaturiera in declino, penalizzata soprattutto dal calo dell’export in Russia. Pil sotto la media nazionale in Abruzzo, dove qualche segnale positivo arriva dal settore dei mezzi di trasporto e dall’export dell’elettronica, della chimica farmaceutica e dell’alimentare. Il Molise cresce a ritmi in linea con la debolezza del Mezzogiorno (+0,3%), sostenuto da alimentare chimica e automotive, mentre le costruzioni restano in forte difficoltà. La Puglia paga soprattutto la crisi dell’acciaio Ilva, compensata in parte da meccanica, alimentare e apparecchi elettrici: solo il 30% degli addetti del settore industriale è impiegato in imprese con crescita di fatturato, esportazioni e valore aggiunto.

 

“Lo sviluppo della dorsale adriatica, che aveva raggiunto il suo apice negli anni Novanta, ormai si è fermato – spiega ancora Carboni -. Considerando il basso livello di tecnologia delle imprese, era un vero miracolo. Ma oggi che la tecnologia è sinonimo di produttività, quel miracolo non si è ripetuto. Inoltre pesano le difficoltà dell’export, con la frenata dei Paesi emergenti; gli effetti del passaggio generazionale, con un crollo del tasso di imprenditorialità giovanile; l’invecchiamento della popolazione. E poi va considerata la trasformazione, il declino del modello dei distretti: è in atto una sorta di italianizzazione delle imprese, nel senso di una perdita delle specificità dell’economia locale. I distretti sono stati prosciugati da poche aziende leader che diventano esse stesso distretto, assorbendo la manodopera ma non le piccole industrie che falliscono. Il lavoro che prima veniva svolto da varie fabbriche, ora è tutto all’interno della stessa impresa. Non aiutano, infine, l’assenza di una vera politica industriale e i ritardi delle infrastrutture. L’alta velocità ferroviaria si ferma a Bologna e questo vorrà pur dire qualcosa”.

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