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Loreto Special – 3. Garibaldi: l’epigrafe nata morta

Un poeta-deputato ateo praticante e un vescovo energico: tra loro, istituzioni pavide e governo calcolatore. Fu così che Peppino Garibaldi rimase senza parole, sospeso sopra un’epigrafe che non fu. A Loreto.

 

B - Firenze, Musma - museo massoneria - foto firenze.repubblica.it

B – Firenze, Musma – museo massoneria – foto firenze.repubblica.it

 

Quanto segue è il testo, non corredato dalle foto, dell’articolo di apertura del n. 16 de “Lo Specchio Magazine”, di prossima uscita

 

Tra la fine del 1883 e l’inizio dell’anno successivo un gruppo di cittadini di Loreto decise di costituirsi in comitato promotore per l’erezione di un monumento a Giuseppe Garibaldi, per il che organizzò una petizione e incaricò dell’epigrafe l’onorevole radicale Felice Cavallotti. Come la pensasse  in materia di fede religiosa il famoso polemista, poeta e mangiapreti, è ben risaputo e pertanto il comitato loretano non poteva aspettarsi da lui se non ciò che in effetti arrivò e che era del seguente tenore: Loreto / nota ai due mondi / per i miracoli della superstizione / qui con affetto / con orgoglio italiano / scrive il tuo nome/ o Garibaldi / o liberatore / che terribile e buono / ai due mondi portavi / i miracoli /dell’amore armato

Aprile MDCCCLXXXXIV

Il comitato era presieduto dall’amministratore di Santa Casa, il senatore jesino Antonio Colocci: la discussione sull’epigrafe avvenne nella riunione dei sottoscrittori della petizione, convocata alle 14 del 30 marzo ’84. Il dibattito fu calamitato dalla lettera inviata al sindaco Antonio Tassetti dal vescovo di Loreto, mons. Tommaso Gallucci, traboccante indignazione contro la  negazione della sacralità e l’autenticità della Santa Casa proclamata nell’epigrafe stessa. La richiesta del vescovo di cancellare l’offesa di Cavallotti alla fede e alla Chiesa venne respinta a grande maggioranza dei presenti, con soli 4 voti a favore e 75 contro. A quel punto la giunta comunale, sballottata di qua e di là nella tempesta subito scatenatasi, si rammentò di Pilato e chiamò in causa la prefettura: che se la sbrigasse lei dal momento che il governo cittadino non riscuoteva alcun ascolto dalle parti in causa, vescovo e comitato. Il prefetto di Ancona Carmine Senise, il 2 aprile, fece sapere di non trovare nell’epigrafe motivi di censura, ma diciotto giorni dopo, forse diversamente sollecitato, emanò un decreto di proibizione perché: Le parole “Loreto nota ai due mondi per i miracoli della superstizione”, mentre non aggiungono nulla alla grandezza ed alla fama immortale dell’eroe che s’intende onorare, mettono a dileggio il nome della città di Loreto, ed offendono manifestamente il sentimento religioso della città medesima e dei molti forestieri che da ogni parte vi arrivano [1].

Dopo di che la querelle lauretana fece il suo ingresso alla Camera dei Deputati sotto forma di un’interpellanza del deputato Cavallotti, presentata il 23 aprile e giunta in aula il 21 giugno. Il bardo della democrazia vi insisteva con determinazione sull’iniziale unanimità di tutti i partiti politici riguardo all’epigrafe e, di conseguenza, sulla viltà del governo del regno, e dei suoi esponenti e funzionari piegatisi tutti al volere dell’autorità religiosa, con ciò stampando sopra Loreto il marchio del clericalismo. Il problema vero, spiegò Cavallotti, era la constatazione che il governo del Re stesse stringendosi sempre di più in un abbraccio, da lui definito “innominabile”, con il Vaticano. Il ministro dell’interno–presidente del consiglio dei ministri Depretis gli rispose riepilogando i fatti che avevano causato la guerra sulla sua epigrafe e riferì di un’informativa inviatagli in merito dal prefetto Senise nel mese di aprile. Ecco il passaggio-chiave del rapporto: Quando l’ebbero letta, anche i più liberi in materia religiosa non seppero comprendere come possa accogliersi in Loreto, che è noto che ha vissuto e che vive della Santa Casa.

Depretis aveva piena coscienza di mettere in campo motivazioni non nobilissime, ma accolte con ampi cenni di assenso da parte dei suoi parlamentari, quasi tutti figli di un pensiero per niente affatto indifferente all’appeal dell’interesse economico e spaventati alla sola idea di vacillamenti degli equilibri politici che quell’interesse garantivano, nonché del rischio di turbamento all’ordine pubblico, altro spaventapasseri agitato dal presidente del consiglio. Che schierò in campo pure il sindaco di Loreto, eco fedele di queste paure, autore della lettera che segue, inviata nella prima decade di aprile al ministro dell’interno: La Giunta municipale, desiderando vivamente di mantenere la concordia cittadina, ha tentato tutti i mezzi possibili per ottenere che tale incidente avesse una soluzione soddisfacente i comuni desiderii. Ma essendo riuscite infruttuose le pratiche fatte all’uopo, ha deliberato in seduta del 5 corrente, che, perdurando l’attuale stato di cose, il municipio deve astenersi da qualunque ulteriore ingerenza in tutto ciò che riguarda l’erezione del monumento [2].

Depretis non disse una parola sul fatto che il municipio avesse in sostanza abdicato a esercitare i poteri conferitigli dall’avere la rappresentanza legale della popolazione loretana; ne usò molte, invece, per ingigantire il pericolo che sarebbe derivato per l’ordine pubblico cittadino dall’autorizzazione all’epigrafe di Cavallotti. E infine dispensò un paterno consiglio: pensare di poter vincere la battaglia non tanto contro i clericali in buona fede quanto contro i clericali “politici”, coloro che portavano continuamente e scientemente guerra alle istituzioni liberali, con “colpi di spillo”, offese o iscrizioni, era soltanto una colpevole ingenuità.  Alla Camera si tornò a litigare sull’epigrafe nella seconda tornata del 24 giugno, a distanza di tre giorni; chiese e ottenne di parlare, per fatto personale, lo jesino Teodorico Bonacci, deputato della sinistra costituzionale, incidentalmente chiamato in causa da Cavallotti nel suo intervento. Lo cito perché la sua posizione illustra con chiarezza la volontà della Camera (maggioranza e pure opposizione) di non impicciarsi più di tanto nella faccenda. La questione di Loreto secondo lui era pericolosa perché qualunque posizione assunta sarebbe dispiaciuta agli uni o agli altri; anzi, era assai probabile che si finisse più spesso per dispiacere a entrambi gli schieramenti e quindi si dichiarò insoddisfatto sia delle tesi del collega Cavallotti che di quelle del ministro dell’interno. In conclusione, parlò assai a lungo, ma non disse esattamente nulla. Il busto di Garibaldi, opera di Ettore Ferrari, fu inaugurato il 4 aprile 1886. L’epigrafe non vi apparve allora né mai più [3].

 

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[1] “Atti parlamentari”, Tornata del 21 giugno 1884 * Dal 1861 al Concordato del 1929 i beni del Santuario furono sotto amministrazione regia. Sull’argomento una più dettagliata ricerca del sottoscritto sarà pubblicata altrove.

[2] “Atti parlamentari”, cit. – Difficile non andare col pensiero a Matteo, 27,24: Sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi!. * Nei documenti si continua a chiamare “monumento” il busto dell’eroe.

[3] Ettore Ferrari (1845-1929) era stato autore della statua di Giordano Bruno a Roma, in Campo dei Fiori, inaugurata il 9 giugno 1889. Per Macerata aveva realizzato la statua equestre di Garibaldi e per Porto Recanati scolpirà il volto di Attilio Valentini per la lapide che ricorda il giornalista suo amico.

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