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Fermo e quel razzismo di provincia

Fermo Internet

Fermo Internet

di Massimo Del Papa

Prima l’orrore per l’omicidio di Emmanuel. Poi le autoassoluzioni collettive: «Non ci infangate». Viaggio a Fermo, malata di omertà e di localismo esasperato.

Può accadere nel cuore d’Italia – a Fermo la tipica, la sincera – che due balordi, ammorbati dalla vita di provincia e dalla stasi estiva della Fermana Calcio che ne alimenta e sfoga i furori, trovino due ragazzi di colore, fuggiti dalle persecuzioni in patria, sopravvissuti al Mediterraneo, lei pestata fino all’aborto in un lager per migranti, mentre scendono da un viale nel crepuscolo e li apostrofino, «do’ vai co’ ssa scimmia» e poi uno uccida a calci e sprangate l’uomo che aveva difeso la sua donna, aggredita, malmenata dall’altro.

Subito crepitano l’indignazione, la mobilitazione, «no al fascismo razzista» ma poi, immediate, immancabili, le autorassicurazioni, le autoassoluzioni collettive: «Questa è una città aperta, accogliente, generosa», «la più bella del mondo», «sono rigurgiti fascisti originati dal massiccio afflusso di stranieri». Che è, a dirla tutta, una misera coda di paglia.

A FERMO CI SONO 124 RIFUGIATI UFFICIALI. A Fermo, per la verità, non si erano mai registrati linciaggi da Ku Klux Klan, nessuno ‘Strange Fruit’, il razzismo da curva tollerato in quanto calcistico, quasi domestico in una cittadina di 30 mila abitanti dove le giunte larghe di sinistra si succedono, anche in forma di lista civica come l’attuale, e il centrodestra, quando c’è, casca da solo perdendo i pezzi.

C’è molto associazionismo sociale a Fermo, dove 124 rifugiati ufficiali sono alloggiati nel Seminario e nessuno aveva mai avuto da ridire.

Tacciare Fermo di razzismo sarebbe ingeneroso, senonché gli manca l’ombra di una qualsiasi autocritica, di una verifica collettiva. Questo è il posto più bello del mondo, se razzismo c’è, è dei ‘foresti’, che non capiscono, che sono diversi, il mondo cospira contro Fermo.

Ma in questo fatto atroce, che si vuole «isolato», il razzismo sì che c’entra: sta nel presupposto, «scimmie», alligna nei commenti via social di alcuni imbecilli arrivati a delirare di provocazione dei due nigeriani, rigurgita dalle esaltazioni fascistoidi dell’omicida.

Solo che spiegare tutto col razzismo-fenice, che nella città più bella del mondo c’è però non c’è, paradossalmente rischia di diventare più che semplicistico, esorcistico, come i frati di Trinità che davano la colpa di tutto a «Satana, Satana in persona».

UNA CITTÀ MALATA DI UN LOCALISMO ESASPERATO. Fermo non è razzista ma neppure aperta come si pretende, è un colle serrato in un localismo esasperato, diffidente. «Ah, ma tu non sei di qua», anche dopo 50 anni che ci torni, che ci vivi, se poi sei andato a cercar fortuna altrove è un mezzo tradimento, se potessero qui renderebbero nostrana anche Internet.

Assessori al turismo, di luoghi che vivono di turismo ma hanno la fobia dei turisti «che ci fanno diventare come Rimini», che sarebbe a dire: pochi, alle nostre condizioni e di nuovo la pax fermana il prima possibile.

La ‘Tipicità’, dei prodotti gastronomici come delle calzature, vissuta come matrice identitaria, qui hanno preteso una provincia sottodimensionata, la più piccola d’Italia con i suoi 140 mila abitanti, costata 50 milioni di euro per alimentare il solito sottobosco lottizzatorio, i portalini e giornalini dei portaparola, con argomenti squisitamente tipici: «Non vogliamo stare sotto Ascoli Piceno, non c’entriamo con gli ascolani, noi siamo diversi» e giù dotti studi per confermare l’alterità geostorica ed etno-culinaria da Ascoli, distante 50 chilometri. Crociata che per decenni ha unito tutti, dalla sinistra radicale alla destra estrema, passando per il centro cattolico papalino. Qui, dunque, può accadere che due africani vengano annientati in fama di «scimmie». Con una rabbia torpida e equivoca che è il vero problema di questi luoghi.

La gente perbene schiacciata dalla normalità dei violenti

La cronaca locale dei fine settimana è un ricorrente bollettino di guerra, risse da stadio o da discoteca, spedizioni punitive, faide tra contrade o centri limitrofi, aggressioni alle forze dell’ordine, le quali osservano: «C’è una violenza endemica che ci assorbe quasi completamente e ci rende difficile agire a livelli criminosi più strutturati».

Basta un pretesto, un richiamo all’educazione, alla regola e scatta l’arroganza, la rissa con minacce anche demenziali: «Vai via scemo che ti ammazzo, ti smonto».

Non manca la gente generosa, tollerante a Fermo e dintorni, gente notevole ma come schiacciata dalla normalità degli sbruffoni, dei violenti. C’è un termine per definire questa dimensione di brutalità automatica: «la gnoranza», ed è quasi un riconoscimento sociale, se non una koinè.

IMPOSSIBILE ACCETTARE LE CRITICHE. Suscettibili, poi. Se Vittorio Sgarbi viene a ironizzare su Porto Sant’Elpidio, «la città più brutta del mondo», non glielo perdonano:«Guardi che il vicesindaco non ha gradito» e il povero Vittorio quasi non ci crede.

La cronista giunta da fuori, ma originaria del luogo, che vede infiltrazioni mafiose può essere denunciata da un assessore regionale perché offende il buon nome del territorio.

Il Fermano è «il posto più bello del mondo», chi ha qualcosa da obiettare, chi osserva che c’è un mondo intorno, è persona non grata: «La Muraglia cinese, i grattacieli a New York? Perché, a noi che ci manca?».

OMERTÀ IMPENETRABILE E SPESSO INFAME. L’altra faccia del localismo sospettoso è il serrarsi delle fila nella solidarietà all’occorrenza infame. Non c’è procuratore della Repubblica che non denunci la cappa di omertà, la difficoltà di far breccia nei focolai che nessuno vede e nessuno denuncia.

Negli Anni 90 ci fu una sequela di omicidi brutali nel sottobosco del mercimonio, donne di vita segate in due, amanti fucilati, femminielli decapitati, prostitute fatte a pezzi lasciati ai cani in campagna.

Non un colpevole saltò fuori, con l’allora procuratore Baschieri che praticamente ogni settimana chiedeva ai cronisti di intervistarlo, tanto per denunciare quella che definiva «solidarietà nel peggio». Recentemente ignoti hanno sparato ai vigili nel buio, hanno messo bombe davanti alle chiese: ancora una volta nessuno ha raccolto lo stanco invito, «chi sa, parli».

Quella solidarietà nel peggio, senza ritegno

Anche nel caso del 36enne Emmanuel, trucidato davanti alla sposa Chiniery, è scattata la solidarietà nel peggio: con il capovolgimento dei fatti, con l’alterazione della verità, con le insinuazioni stereotipate, sul razzista demenziale: il selvaggio erculeo, il Kunta Kinte che sradica un palo stradale e lo brandisce (è successo l’esatto contrario), il nero «che guardava dentro una macchina» che nessuno ha saputo precisare, i compari in soccorso che scomodano «numerosi testimoni» a scagione degli aggressori, sui quali si insinuano le attitudini balorde, le protezioni reiterate, la possibilità di farla franca anche stavolta.

Un cavillatore da Facebook suggerisce la linea dell’impunità ai giudici: «Omicidio colposo determinato da eccesso di legittima difesa»; «Va beh, mica è ancora morto, è in coma» minimizzavano altri.

AMMAZZATO DOPO ESSERE RINATO. Emmanuel è spirato pochi minuti dopo quei commenti allucinanti. Gli hanno staccato le macchine e non sarà facile donare gli organi, quelli rimasti integri, perché a parte la compagna Emmanuel non aveva parenti, non aveva nessuno. Due giovani bellissimi, altro che scimmie, rinati alla speranza, che andavano a fare una piccola spesa sorridendosi in un tramonto d’estate. Due soli insieme. È rimasto un letto vuoto al seminario, è rimasta una vedova senza il tempo di sposarsi.

«Ma se gli immigrati pestavano uno di noi non ne parlava nessuno». La solidarietà nel peggio senza ritegno, solidarietà locale che spinge più d’uno a parlare di «elementi dalla pericolosità arcinota, a lungo coccolati dalla cittadinanza e dalle istituzioni».

Da parte sua, il sindaco Paolo Calcinaro, fuoruscito dal Pd e ora a capo di una lista civica, cosa potrebbe fare se non recitare la giaculatoria esorcistica: «Mi pare un incubo, questa è città accogliente, aperta all’integrazione, non al razzismo strisciante»?. E finché striscia…

Ammonisce un partigiano fermano su Facebook: «Non infangate questa terra meravigliosa per due idioti che hanno commesso un caso isolato».

Fu un caso isolato anche quello dell’imprenditore edile che tre anni fa ammazzò a revolverate due lavoranti balcanici che pretendevano di essere pagati. Anche quella volta, tra le fiaccole solidali, mancò una autentica riflessione e invece ci fu chi alzò il sopracciglio: «Ma che volevano quelli, che pretendevano».

Internet

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DON VINICIO: «QUESTA PROVINCIA INFIDA E AMBIGUA». Così come oggi si dice del povero Emmanuel: «Chi ce l’ha mandato qui? Zitto doveva stare, qui mica comanda lui». Chi ce l’ha mandato è stato il mondo con le sue ondate, chi ce l’aveva tenuto è stato don Vinicio Albanesi della Comunità di Capodarco che sei mesi fa l’aveva ‘sposato’ informalmente alla sua compagna, in attesa dei documenti ufficiali per fare sul serio.

Don Vinicio è un duro, un prete anche spregiudicato ma oggi piange come uno che ha perso due figli: «Questa provincia è spesso infida, ambigua». E allude alla zona grigia, come nuvola che copre, che offusca e avvolge nell’oblio delle complicità.

L’aggressore di Emmanuel, ieri semplicemente denunciato, oggi omicida, aveva un Daspo di 4 anni, tante le sue escandescenze sugli spalti dello stadio ‘Recchioni’, nei cui pressi una scritta insegna «Sciarpa al collo cinghia in mano» in sostegno della Fermana Calcio, divisione D.

Ma qui le solidarietà infide possono essere tante, di tifo, di contrada, municipali, di parentela, di infanzia (le amicizie in provincia durano una vita, e sono spesso esclusive).

C’è o non c’è a Fermo il razzismo? C’è qualcosa di più denso e pervasivo, qualcosa di tipico? Non potrà più rispondere Emmanuel, che era riuscito a scampare Boko Haram e ha trovato la morte una sera d’estate su un colle italiano, scendendo un viale vicino al seminario, mentre sorrideva alla sua sposa tenendola per mano come in una canzone di Lucio Dalla.

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