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Società. Crisi sociale e rinascita della politica nel successo del M5S

Internet

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di Leonardo Paggi

Due dati parlano di un avvenuto inserimento organico del movimento 5S nel contesto politico del paese: la sua capacità di drenare voti sulla destra e sulla sinistra, configurandosi, lo si è detto subito, come vero partito della nazione, e una rappresentazione altissima del voto giovanile che sembra aver trovato in questa offerta politica lo stimolo utile per uscire dall’assenteismo. La ragione di tutto ciò sta nella profondità della crisi sociale. Dopo anni di separazione la società e la politica sembrano essere tornate a parlarsi, determinando un risultato ben più importante e radicale degli scontri tra sindacato e polizia che abbiamo visto nelle piazze di Parigi.

Che di crisi sociale si tratti lo ha riconosciuto apertamente Piero Fassino, dicendo la verità solo nel momento amaro di una sconfitta che lo consegna al passato, ma dimenticando di aggiungere che di questa crisi è pienamente corresponsabile il Partito democratico con il suo incondizionato appoggio a politiche di austerità che risalgono ai tempi del centrosinistra. Il dato, assolutamente centrale, è invece ancora rigorosamente occultato da Massimo Cacciari che, coscienza inquieta e naturalmente “disincantata”del renzismo, nelle sue maratone televisive non cessa di spronarlo e di volerlo, ad onta di tutto, sempre più forte e più bello. Mente invece consapevolmente Renzi quando interpreta il voto come una richiesta di “cambiamento”. Per questa via il presidente del consiglio pensa ancora di uscire dall’angolo con affabulazioni logorroiche sul “nuovo”, volte ad aggirare sistematicamente il principio di realtà. In effetti riconoscere che il voto è un portato della crisi sociale vorrebbe dire per lui rimettere in discussione la cornice entro cui si è determinato il suo successo politico: ossia la piena accettazione della politica economica della Bce che prosegue senza interruzioni di sorta dai tempi di Monti.

Bisogna aggiungere che questa verità è mostrata ma non detta nemmeno dai penta stellati che dopo vaghe e generiche affermazioni sull’uscita dall’euro si sono concentrati con successo su obbiettivi estremamente circoscritti e determinati. Il percorso per giungere ad una riscrittura dell’agenda politica all’altezza delle contraddizioni che stiamo vivendo sarà tutt’altro che facile e breve. Queste elezioni hanno messo in campo solo qualche premessa utile. In primo luogo oggi sappiamo per certo che il vecchio Pci paziente e silente, il “partito sentimentale” come lo ha definito la bravissima Sabrina Ferilli, comincia a dare segni di aperto malumore. A Sesto Fiorentino, comune socialista dalla fine del secolo xix, il Pd è battuto da una lista di Sinistra italiana sulla base di due No all’inceneritore e a nuove piste dell’aeroporto di Firenze sostenute a spada tratta dagli amici del presidente del consiglio. E’ il segno che esistono anche le premesse per una riscossa su Palazzo Vecchio. Ma il processo sarà tutt’altro che rettilineo, se mai prenderà forma. Se in alcuni casi la protesta del vecchio elettorato di sinistra avvantaggia i 5Stelle in altri ( è il caso di molti importanti comuni toscani: Sansepolcro, ad es. con i suoi tesori di Piero della Francesca caduti ora in mano non si sa di chi) apre le porte alla destra.

La rottura degli argini provocata da una protesta che sembra andare oltre determinati indirizzi di governo per originarsi dalla sempre più dolorosa transizione ad una società delle ingiustizie e delle diseguaglianze, mette sul tappeto diverse “possibilità oggettive” il cui esito sarà deciso solo della qualità e della intensità della iniziativa politica e programmatica. Più delle masse cominciano ad essere decisivi i capitani. E qui mi sembra meriti una considerazione particolare l’altro dato importante uscito da queste amministrative. Il movimento 5Stelle, nato all’insegna dell’antipolitica, comincia ad essere una testimonianza importante della possibilità di rinascita della politica.

Sono lontani i tempi in cui il movimento era pago di stare sotto il palco per ascoltare e applaudire le battute un po’ isteriche e compulsive di Beppe Grillo. Si è messo in cammino per le strade d’Italia. E si è riprodotto in contesti sociali e geografici estremamente diversificati. Dietro la moltiplicazione di liste sempre più spesso vincenti c’è la proliferazione di una nuova generazione di attivisti che si impegna su base assolutamente volontaria, per passione, e in modo del tutto disinteressato. Non entrano in competizione per un posto, come accade per i nuovi quadri Pd che identificano strettamente scelta politica e successo professionale. Tutto quello che i grillini fanno sui territori è gratuito, in fondo come nel caso dei tortellini dei vecchi festival dell’ “Unità”, da cui D’Alema volle prendere le distanze per sottolineare la novità, anzi la modernità della sua figura di dirigente postcomunista. Ci sono molte spie per affermare che l’impegno politico sviluppato dal movimento sta determinando la rinascita di comunità.

In questo senso credo si possa dire che il successo dei 5Stelle rappresenta la falsificazione più piena della “teoria” di Casaleggio secondo cui la rete avrebbe dovuto sostituire il partito in quanto piena realizzazione della volontà generale. Non è con la rete, ma con la crescita del tradizionale, “novecentesco” volontariato politico, dell’antico “porta a porta”, che il movimento avanza nel paese. Il richiamo alla impersonalità della rete può avere svolto un utile ruolo iniziale, prospettando per via simbolica una immagine della politica non condizionata in anticipo dai poteri costituiti. Insomma, la rete come parabola per un movimento che è nato e continua a nascere tutto dal basso, per l’adesione di “gente comune” che può sperimenta e vivere un ruolo di protagonista proprio per l’assenza di culture e tradizioni preesistenti con cui confrontarsi.

Si conferma per questa via una verità teorica importante Se è vero che la rete accelera la velocità di circolazione dell’informazione comprimendo progressivamente lo spazio/tempo, non per questo è in grado di sostituirsi alla comunicazione, che implica sempre un libero (e reciproco) riconoscimento dell’altro, e che per realizzarsi non può prescindere dalla condivisione di un’esperienza, di un territorio, di un “faccia a faccia”. La distinzione era già chiara a Walter Benjamin nel suo scritto su Nicola Lescov del 1936. Ecco perché è forse affrettato proclamare in modo perentorio, come sta facendo una sociologia politica d’accatto e sostanzialmente servile nel nostro paese, la morte irreversibile del partito politico a favore della folla acclamante il Cesare. L’esperienza dei penta stellati sta a testimoniare un movimento evolutivo di segno esattamente opposto. E non si tratta di un particolare irrilevante per pensare le forme di una ripresa della vita democratica del nostro paese.

Ineludibile, infine, la domanda sull’appuntamento di ottobre. Tutti i trascorsi dilemmi sull’utilità di una personalizzazione e politicizzazione della campagna referendaria sembrano ormai privi di senso. Riletto oggi il documento dei 56 giuristi costruito su un insieme di osservazioni di tecnica giuridica, nel tentativo di preservare la specificità del quesito, sembra vecchio di alcuni anni luce. Il salto di qualità che con queste elezioni si è realizzato nello sviluppo della lotta politica nel nostro paese impone ormai la logica dello scontro a tutto campo. Il confronto potrà esser vinto anche nella misura in cui si riuscirà a mantenere questo livello di complessità e di generalità.

Le recenti prese di posizione di Prodi e D’Alema sono certo importanti. Tagliano l’erba sotto i piedi del presidente del consiglio, ne accentuano l’isolamento, e spostano sicuramente quote importanti del vecchio elettorato di centrosinistra. E tuttavia la posta in gioco va ben oltre un regolamento di conti interno alla vecchia classe politica. Il governo Renzi non nasce come un colpo di pistola. È l’ultima tappa di un processo degenerativo che ha radici assai lontane nel tempo. E chiama in causa il modo in cui il tentativo di costruire una nuova repubblica dopo la grande cesura del 1989 fu subito pesantemente condizionato da una mondializzazione capitalistica che metteva ovunque in ginocchio i presupposti di fondo di una politica democratica.

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