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Chiesa. Francesco, i barconi dei migranti e la barca di Pietro.

Papa Francesco mostra un giubbetto salvagente ai ragazzi dell'onlus Sport Senza Frontiere, arrivati in treno dalla Calabria per l'incontro con il Papa, Città del Vaticano, 28 maggio 2016. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Papa Francesco mostra un giubbetto salvagente ai ragazzi dell’onlus Sport Senza Frontiere, arrivati in treno dalla Calabria per l’incontro con il Papa, Città del Vaticano, 28 maggio 2016. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Di Piero Schiavazzi

A tre anni da Lampedusa e tre mesi da Lesbo, Francesco ha completato il processo di perfetta simbiosi, e totale assimilazione, tra i barconi dei migranti e la barca di Pietro. Sicché il primo a essere “identificato”, sull’hotspot del confronto caliente tra Europa e Vaticano, tra il Viminale e i vescovi, è proprio lui, Bergoglio. Dai boat people al “Boat Pope”, odierno aggiornamento del “pescatore di uomini”, nel senso materiale, non solo spirituale del termine, deciso a salvare vite e sottrarre vittime alla tomba del mare, in quella che è diventata ormai la priorità geopolitica del pontificato e che lo porterà, sempre più duramente, a collidere con l’Unione, ad onta del premio Carlo Magno di cui l’hanno insignito.

Una progressione che dalle salve di avvertimento evolve rapida in scontro aperto. Non passa giorno che la flotta episcopale non spari colpi sulle istituzioni comunitarie: dalle bordate di Angelo Scola, che reclama un piano Marshall e proclama il fallimento dell’Onu, alle sortite di Nunzio Galantino, che rilascia con nonchalance interviste esplosive, mirando all’obiettivo con scientifica precisione. Il siluro alla proposta di trattenere al largo i profughi, su apposite navi appoggio, ha immediatamente fatto sì che il progetto affondasse in porto, prima del varo, agitando lo spettro di una Guantanamo mediterranea, lesiva dei diritti e priva di garanzie giuridiche.

La battaglia navale tra Segreteria della Cei e Ministero dell’Interno, unitamente all’appello accorato, lanciato in loco da Sergio Mattarella, presidente solare e insulare, segnano una svolta e segnalano l’isolamento della penisola, che si ritrova sola, sollecitata in direzioni opposte dai suoi potenti – o impotenti? – vicini: la Chiesa e l’Europa.

C’era un tempo in cui a incresparsi, tra Italia e Vaticano, erano esclusivamente le acque del Tevere, nell’arco del mezzo secolo che va dal divorzio alle unioni civili, mentre il mare della politica estera registrava una sostanziale unità d’intenti e di correnti, all’orizzonte di una comune rotta diplomatica. “Nessun grado di separazione”, riassumendo con le parole di una canzone di successo.

Poi però l’asse politico della Santa Sede ha cominciato a spostarsi e giunge oggi al compimento della rotazione, trasformando la Sicilia nel perno di un compasso planetario e mettendo il Belpaese di fronte a un bivio. Con il pensiero, prima o poi, di dovere scegliere. Un dilemma o una “Brexit” all’italiana, insomma, chiamati a optare tra il Papa e l’Occidente. Tra il “Commonwealth” cattolico e il recinto comunitario. Tra la Chiesa sudista di Francesco e l’Europa nordista di Bruxelles.

Un trend che a precedere, e a prescindere dalla personalità del pontefice, risponde e obbedisce a una redistribuzione geografica del cattolicesimo, della sua base “elettorale”, dal settentrione al meridione del globo. I dati statistici a riguardo parlano chiaro e orientano l’ago, della bilancia e della bussola. In Africa i cattolici sono infatti aumentati del doppio, nell’ultima decade, rispetto alla crescita complessiva della popolazione: un upgrade che ha già raggiunto il 17% del totale dei fedeli, su scala mondiale, e condurrà presto il continente a pesare quanto e più dell’Europa, scesa nel frattempo dal 25 al 23%.

“Il Sud del mondo si è messo in marcia”, sintetizza il cardinale Bagnasco, descrivendo un “esodo inarrestabile”, indotto da “circostanze tragiche”. “Tutta la Bibbia ci narra la storia di un’umanità in cammino”, teorizza il Papa, riconducendo il fenomeno a una spinta divina, “connaturale all’uomo”, non meramente congiunturale. Con una differenza però: questa volta il varco sembra chiudersi anzitempo, smentendo il copione del Vecchio Testamento. Motivo per cui Bergoglio, “con la stessa determinazione di Mosè”, allarga le braccia e cerca sponda in ogni dove per trattenere le acque: dal capitalismo dinastico della Sheikha Moza bin Nasser, “regina” madre del Qatar e regina di scacchi del puzzle libico, signora di Al-Jazeera e della haute couture, alle sinistre antagoniste, ascensioniste e neoproletarie di Syriza e di Podemos, di Alexis Tsipras e Pablo Iglesias. Mentre i sondaggi si levano impetuosi, e impietosi, su carri dei governanti e carovane dei migranti.

Se i continui naufragi, nel giudizio amaro di Monsignor Galantino, configurano “uno schiaffo alla democrazia europea”, le débacle elettorali a ripetizione, dai Länder germanici all’Austria Felix, le assestano altrettanti pugni frontali, prostrandone il nerbo e tendendone i nervi.

A rischiare, dopo il crollo dei popolari asburgici, non sono soltanto i centristi nostrani, sopravvissuti per vent’anni al crollo della Dc, barcamenandosi sotto alterne bandiere, bensì la stessa Merkel, possente matrona e “Angela” custode in bilico, sull’onda montante dei populismi e radicalismi vari, che investe e incrina la dorsale democristiana d’Europa.

Del resto, la sorte dei “partiti” cristianamente ispirati non pare costituire la principale preoccupazione di Francesco, che avverte piuttosto il limite dell’idea di “cristianità”, intesa come un habitus mentale, e istituzionale, divenuto stretto.

Lo spiega lucidamente Padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, in un articolo significativo, strutturalmente eversivo, ma straordinariamente istruttivo, per comprendere a fondo l’animus di Bergoglio. Afferma il giornalista gesuita, generalmente riconosciuto quale suo ghost writer e interprete autentico: “La cristianità, cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa si va concludendo”. E chiosa: “Si rifiuta così radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del partito”.

Uscire dall’Occidente, quindi, e dalla cristianità, spingendosi a declassificare, a declassare il mito stesso delle radici cristiane, un caposaldo dei suoi predecessori, considerato adesso alla stregua di un diaframma, di un ostacolo al tentativo di radicarsi invece nel mondo, nella coscienza “glocal”, eclettica e dialettica, esigente e sfuggente dell’umanità postmoderna: “Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo”, ha detto il Vescovo di Roma, e Successore di Pietro, nella recente intervista a La Croix. E’ questa la Brexit di Francesco. Un disegno fascinoso ma scivoloso, che trova la sua tavolozza e la sua piazza, il suo laboratorio e il suo osservatorio d’elezione in Italia.

Nella propria immedesimazione con il cammino e il destino dei migranti, il Papa scruta l’Europa dal di fuori, come una terra in fieri, magnetica e magmatica, indefinita e in divenire: con lo sguardo dell’esploratore che scopre un mondo nuovo, certo, ma pure in qualche modo del conquistatore, in cerca di un attracco e di un imbocco – la prossima meta simbolica potrebbe essere Marsiglia – intimamente consapevole che dopo di lui, e di loro, niente sarà più come prima. Una prospettiva realistica e avveniristica, lungimirante in un’ottica di globalizzazione ma destabilizzante, inquietante, nella percezione polarizzata e paralizzata delle classi dirigenti attuali. Una visione che lo avvicina profeticamente al futuro ma che al momento pragmaticamente allontana Bergoglio, di sicuro, dalle attese o pretese che dir si voglia dei governi europei.

 

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