In bilico tra esercizio di stile, sperimentazione colta e distruzione auto-ironica, Diabolik di Mario Bava è uno di quei film capaci di scatenare il giudizio critico, fra detrattori inorriditi e cultori totali. Testimone ne è l’interessante dibattito che ne è scaturito alla fine della proiezione del secondo film proposto dalla rassegna Cinelinguaggi.
Una diatriba che nel corso degli anni non ha fatto altro che aumentare l’alone mitico dietro ad una pellicola frutto di un compromesso con il mega-produttore De Laurentiis, disposto a concedere un budget risicato ma avido di incasso immediato. Con 200 milioni di lire a disposizione – somma piuttosto bassa per gli standard dell’epoca – Bava distillò nella trasposizione dell’omonimo fumetto creato da Angela e Luciana Giussani tutta la sua passione e il suo mestiere. Ma non fu sufficiente, perché a fronte di un incasso in sala di 260 milioni il progetto di produrre un sequel venne immediatamente abbandonato.
Tralasciando stroncature feroci (tra tutte quella di Tullio Kezich, che considerava l’opera “uno dei più stupidi film degli anni Sessanta”) e scatenate riabilitazioni all’insegna di sopravvalutazioni cultural-artistiche, Diabolik va preso per quello che è: un lavoro orgogliosamente bislacco e stravagante figlio di un’epoca in cui convivevano l’impegno politico e iperrealistico alla Fernando Di Leo e la leggerezza strampalata e ultra-kitsch del Batman televisivo, quello con Adam West in calzamaglia e con le scritte onomatopeiche in sovrimpressione, che rendevano il telefilm simile ad un fumetto animato. E il lungometraggio di Bava sembra addirittura andare oltre al fumetto di riferimento, caricando la fotografia di colori saturi che guardano alla pop art e prosciugano all’osso la narrazione per concedere ampio spazio a barocchismi psichedelici e tocchi sarcastici. Non c’è trama, ma solo il ripetersi delle medesime situazioni: Ginko (Michel Piccoli!) tende una trappola a Diabolik, che puntualmente lo beffa.
Per i puristi, tra gag farsesche e precipitose fughe in jaguar, c’è anche il tempo di storcere il naso: il film spazza via senza indugio ogni connotazione morale e natura anti-borghese del protagonista, e la bella quanto inadeguata Eva Kant interpretata da Marisa Mell si dimostra personaggio passivo e fatuo. Diabolik ed Eva navigano nelle banconote, amanti del lusso per il lusso; lui soddisfa i capricci di lei, lei si fa ingenuamente catturare durante una visita medica. E alla fine il ricordo più vivo destinato a restare impresso nella memoria è il nichilismo con cui vengono inquadrati i difensori della legge e i funzionari di Stato: un branco di deficienti, “zimbello della stampa locale”, marionette incapaci di intendere e volere. Più di ogni altra cosa, ecco la firma di Mario Bava. Perché anche in un film su commissione è possibile esprimere – chiara e necessaria – la propria idea della società e del mondo.
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