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Porto Recanati. Che cosa significa impegnarsi per un giovane?

Foto da Internet

Foto da Internet

Fatto decisamente nuovo a Porto Recanati, con la presentazione della lista del movimento Uniti per Porto Recanati, è la composizione della stessa. Infatti questa rispetta perfettamente la parità di genere con 8 donne e 8 uomini e L’età media è di 42 anni e mezzo. I laureati sono 5 su 17. (dato tratto dal blog Frontedelporto)

Scorrendo la lista, la presenza di molti giovani e con un titolo di studio, ci fa riflettere sull’ evidente rinnovato impegno dei giovani a Porto Recanati.  In assenza di chiari e determinati  movimenti collettivi di stampo marcatamente politico, si è diffusa la convinzione che i giovani degli ultimi decenni siano particolarmente distanti o indifferenti rispetto alla politica e – più in generale – all’impegno pubblico. Se si pensa all’adesione ai partiti politici o ai sindacati si deve in effetti concludere che le generazioni più giovani non sono particolarmente attratte da queste organizzazioni, che – in ogni caso – hanno sempre coinvolto ristrette minoranze. Neppure si può dire che i giovani abbiano una partecipazione al voto sensibilmente inferiore a quella delle generazioni più mature; l’astensionismo è in effetti un fenomeno in crescita tra tutte le fasce di età, per ragioni riconducibili in parte alla minore “drammaticità” del confronto politico interno ed internazionale e in parte all’introduzione di sistemi elettorali maggioritari al posto di quelli proporzionali.
L’idea che i giovani siano esclusivamente ripiegati sul loro privato e si disinteressino della dimensione pubblica risulta però inesatta se si tiene conto dell’importanza assunta dall’adesione a quelle forme di partecipazione sociale riconducibili al vasto mondo delle associazioni di volontariato. I giovani non amano le forme di impegno che non rivelino subito la loro “utilità”, in termini di gratificazioni simboliche e di conseguenze pratiche, ma è precisamente per questo che preferiscono dare il proprio tempo per affrontare un bisogno evidente ed immediato, piuttosto che per promuovere “valori” ed “interessi” astrattamente intesi.

Che cosa significa impegnarsi per un giovane che si affaccia alla politica? Interessante è rileggere un dialogo tra Claudio Abbado  e  Massimo Cacciari intitolato “Il cittadino e le note” pubblicato sulla rivista  MicroMega.

Massimo Cacciari - Foto da Internet

Massimo Cacciari – Foto da Internet

IL CITTADINO E LE NOTE
dialogo tra Massimo Cacciari e Claudio Abbado, da MicroMega 1/2001

Massimo Cacciari: So bene come le retoriche sull’ impegno ti abbiano sempre infastidito. Rischiano sempre di risolversi in appelli, documenti, manifesti, testimonianze più o meno vane. Io ho sempre creduto che il nostro «impegno» consista essenzialmente nell’ essere responsabili del proprio linguaggio – nel corrispondere, cioè, alla sua storia, alla sua «serietà» – nel conoscerne la complessità, nel non permettere che si banalizzi, che si inaridisca, che si faccia «idiota». Tenere aperto il proprio linguaggio, «scatenarne», direi, le potenzialità, sperimentando tutti i «possibili» – questo deve impegnarci, deve impegnare anzitutto l’artista, nel senso più pieno del termine. Non potrà mai davvero trasformare alcunché «fuori» di sé, io credo, chi è incapace di trasformare il proprio linguaggio. Ma a proposito ancora della questione più generale. A me ha sempre infastidito quel pregiudizio così largamente diffuso presso tanti «intellettuali», che l’«impegno» abbia necessariamente a che fare con il linguaggio verbale – che debba sempre esprimersi attraverso «discorsi»… Come spiegheresti tu, musicista, a costoro l’errore in cui cadono?

Quanto ho detto mi porta al motivo essenziale per cui oggi, io credo, ci si debba «impegnare» – impegnare in forme totalmente diverse, appunto, dalle retoriche dell’engagement. È proprio infatti la capacità comunicativa dei linguaggi ad essere oggi in pericolo – è proprio quella che Benjamin chiamava la loro «capacità simbolica», ad essere in crisi. Non certo per o in artisti come te – ma certamente per il pubblico cui anche tu ti rivolgi. E non c’è arte senza lettore – così come non c’è realtà senza interpretazione, lo sappiamo ormai bene. Non è indifferente neppure per l’arte più grande che il linguaggio si vada trasformando in mero strumento di informazione, in mero mezzo, in mero «servizio» volto allo scopo, in qualcosa di «economico» e basta. In un «ambiente» refrattario al rischio, all’avventura della comunicazione dubito che anche un Abbado possa essere compreso… (È forse questo il dramma di tanti artisti contemporanei? Non so…)

Ma non credo possiamo ignorare che oggi potenti interessi, potenti organizzazioni, forse ormai un cattivo senso comune spingano a questo esito: concepire il linguaggio, tutti i linguaggi, soltanto come «mezzi»; ridurre il comunicare a mera informazione; trasformare quel lettore o ascoltatore criticamente capace di intervenire nel testo, di dialogare con esso, in spettatore… Homo technologicus,consumans et spectator… Ma questo è oggi programma politico! Esplicito programma politico! Magari non dichiarato – ma infinitamente peggio: subliminalmente costantemente propagandato. Che cosa sono le tre «i» del Cavaliere come summa dell’attuale «Paideia»(Internet, inglese, impresa, sia chiaro tutte cose stra-necessarie, ma forse non esaustive della formazione di una persona capace di affrontare criticamente il proprio tempo)? Che cosa afferma in sé il linguaggio della propaganda del Polo? Quale ne è il «messaggio» profondo se non questo? Allora, davvero, à la Kraus: dobbiamo salvare la «dimora del linguaggio», di tutti i nostri linguaggi – dobbiamo ribellarci a che vengano «sprecati» nella chiacchiera universale – dobbiamo pretendere che vengano riconosciuti nella loro vitale, essenziale funzione – che è, io penso, quella di essere ad-verba, di tendere all’ancora non detto o magari all’indicibile – mai di «servire» il dato di fatto. Questo è l’impegno, e questa la ragione dell’impegno, oggi, contro questa destra.

Claudio Abbado: Sono assolutamente convinto che l’arte e la vita non possano essere concepite come due dimensioni separate. Anzi, direi che l’arte fa parte della vita. Per questo il linguaggio artistico, nelle sue più varie forme, può contribuire sostanzialmente all’evoluzione e al miglioramento della società. Ciò non significa che l’arte debba risultare sempre e obbligatoriamente «impegnata» in modo esplicito. Anzi, l’impegno può davvero raggiungere l’esterno solo partendo dall’interno del linguaggio artistico, ponendosi come modello, come atteggiamento mentale ed esistenziale. Ed è anche questa la ragione per cui non può essere appannaggio esclusivo del discorso parlato, in quanto non è sempre riconducibile a una dichiarazione di principio, ma deve piuttosto esistere come ricerca interiore. Allo stesso modo, non ha senso pensare che un linguaggio sia più nuovo di un altro solo perché risulta tale in apparenza: è la sua qualità intrinseca che lo rende più o meno originale, più o meno significativo. Del resto, molte opere – da Falstaff di Verdi al cinema di Benigni – sanno svelarci anche con la forza dell’ironia gli aspetti nascosti delle situazioni.

Il linguaggio dell’artista, in qualsiasi epoca, deve sapersi confrontare con un pubblico che cambia e che ha aspettative diverse, il quale spesso percepisce e apprezza l’entusiasmo con cui si lavora: pubblico che non va mai sottovalutato e che è interessato ai valori artistici più di quanto non sembri o non faccia comodo pensare.
Proprio perché l’arte è una forma di ricerca e di conferma della vita, è naturale che non possa e non debba allontanarsi dalla società e dai suoi problemi. Ho comunque molta fiducia nella capacità di giudizio delle persone, che sapranno non farsi condizionare dalla propaganda. Penso infatti che dobbiamo rimanere legati alle nostre radici, alla nostra forte e antica cultura europea, anziché rincorrere modelli più facili e superficiali, anche se apparentemente più redditizi.

Cacciari: Non vorrei far la figura di quello che ricorda – ma mi pare che proprio questo era l’«impegno» di un musicista come Luigi Nono – che proprio così parlavate di musica e di politica. Era musica colta, difficile, che richiede attenzione – ma la bellezza è difficile… come è difficile trasformare la realtà e richiede ogni volta ricerca, duro lavoro. Non si può sopravvivere un istante sulla rendita del lavoro già fatto – esso è una domanda, una sfida, un problema – chiede ogni volta di essere re-immaginato, re-inventato. Proprio i grandi classici sono quelli che lo richiedono con più forza! Le tue interpretazioni sono esemplari proprio in questo.

Che cos’è per te adesso l’impegno politico e cosa salveresti per l’oggi di quelle esperienze trascorse?

Abbado: Di quel periodo ricordo positivamente l’entusiasmo con cui cercammo di aprire le sale da concerto come la Scala a un pubblico più vasto, avvicinandolo anche alla musica del Novecento. Proprio ricollegandomi anche alle esperienze di quegli anni, ho capito, nel tempo, quanto sia importante conoscere le culture dei diversi paesi, non solo cercando di comprenderle e approfondirle, ma anche adattando alle loro caratteristiche le iniziative artistiche e culturali.

L’Italia, in questo senso, è un paese particolarmente ricco, perché ogni regione ha la sua cultura e la sua storia, che possono contribuire, in modo specifico, al miglioramento delle condizioni generali del paese. E poiché l’arte e la cultura sono strettamente legate alla qualità della vita sociale, sarebbe importante rivalutare ciò che di meglio è stato fatto nelle diverse città, province o regioni: dalla geotermia o teleriscaldamento di Ferrara, Brescia e Reggio Emilia, applicabile anche ai singoli quartieri, agli asili di Reggio Emilia, talmente all’avanguardia da diventare oggetti di studio da parte di paesi stranieri come gli Stati Uniti o l’Olanda. E ci sono anche casi isolati di fabbriche che sono in grado di recuperare quasi interamente i prodotti di scarto degli altri cicli produttivi e i rifiuti urbani.

Occorrerebbe anche porsi nelle condizioni di evitare le conseguenze devastanti di fenomeni naturali come le alluvioni o le frane. In un’ottica più lungimirante, sarebbe un risparmio spendere anche molto, subito, per prevenire, piuttosto che spendere ancora di più per riparare i danni che sono stati causati dalla disattenzione e dall’inadempienza. Bisognerebbe anche avere la saggezza e l’umiltà di studiare e importare le tecniche più innovative già adottate in paesi che sono maggiormente avanzati nella gestione del territorio, e questo varrebbe ancor più per le regioni italiane che hanno grossi problemi idrici mai affrontati in modo davvero sistematico. Come altre nazioni sanno attingere da noi i migliori aspetti della nostra cultura, così noi dovremmo tenere presente il loro più avanzato livello tecnologico.

Penso infatti che questi interventi di utilità sociale, incidendo concretamente sul benessere delle persone e sulla salvaguardia dell’ambiente, contribuirebbero a creare le condizioni per un modo diverso di concepire l’arte e la cultura e quindi la vita dei singoli e della collettività.

Cacciari: Quali altri motivi vedi cruciali per un impegno oggi? Motivi anche più ravvicinati, più direttamente concernenti la situazione italiana… Si parla poco o nulla di programmi. Il governo di centro-sinistra in questi anni credo abbia fatto parecchio per la riorganizzazione museale, per la riforma di enti lirici e istituzioni (come la Biennale) eccetera. Ma molto ancora rimane. Quale dovrebbe essere secondo te lo «spirito» di una politica culturale nuova? Che cosa fare nel campo dell’organizzazione e dell’educazione artistica e musicale? Dove vedi i nostri maggiori ritardi rispetto alle esperienze europee e internazionali?

Abbado: Come si diceva, bisognerebbe sempre intervenire tenendo conto delle caratteristiche, positive e negative, della realtà che si vuole modificare e migliorare. L’Italia è un paese ricco di energie e possibilità. In questi anni sono stati riaperti molti musei, con l’intento consapevole non solo di valorizzare un bene italiano straordinario e prezioso, ma di restituire a tutti un patrimonio universale.

Per quanto riguarda la musica, credo che non si faccia abbastanza per le scuole, per l’educazione musicale e in generale per la diffusione della cultura musicale. Ad esempio, l’Italia ha molti teatri d’opera, ma ci sono poche sale da concerto, a parte l’Auditorium del Lingotto, l’Auditorium di Milano e l’Auditorium di Piano a Roma i cui lavori si spera possano concludersi in tempi brevi. C’era un progetto di ristrutturazione del Teatro Farnese di Parma, che prevedeva l’apertura di una porta già esistente adesso murata. Guardando ai fatti, penso al progetto fermo da anni per la ricostruzione del Teatro Verdi a Ferrara. I tempi, purtroppo, si sono molto dilatati. Ferrara ha ricevuto un primo finanziamento da parte del ministero per i Beni culturali di dodici miliardi per dare inizio ai lavori, ma nulla si è mosso fino ad ora e questo è un vero peccato, perché la riapertura di un teatro può rappresentare una nuova ricchezza per la città. E parlo di Ferrara, una città che ha fatto moltissimo per le restaurazioni e per la vita culturale. Se in genere i teatri settecenteschi italiani garantivano un equilibrio ottimale tra l’ascolto e la necessità di vedere le scene, i concerti richiedono però anche sale apposite destinate alla musica sinfonica. Solo in questo modo si potrebbero spingere i giovani italiani a conoscere la grande tradizione sinfonica avvicinandoli anche alla musica rinascimentale e barocca e a quella contemporanea. In ogni periodo storico si è infatti ascoltata la musica del proprio tempo e anche oggi bisognerebbe creare le condizioni per capire quali sono i compositori più significativi.

Da vent’anni, inoltre, da quando ho fondato, nel ’78, l’Orchestra giovanile europea, sostengo orchestre giovanili che raccolgono i migliori strumentisti europei e quindi anche italiani.

Ho più volte sottolineato come in Italia i giovani studino musica pensando di diventare grandi solisti, con il rischio di andare incontro a delusioni. Invece, a Berlino, Vienna, Amsterdam o Londra, dove la preparazione culturale è diversa, il sogno degli studenti è di entrare nelle orchestre locali. È per questo che ritengo importante sostenere istituzioni che insegnino a suonare insieme, in formazioni cameristiche e in orchestra. Inoltre, invece di eliminare le orchestre, come è avvenuto in Italia con le Orchestre Rai, bisognerebbe aumentarne il numero e la qualità. Lavorando con la Gustav Mahler Jugendorchester ho anche capito che per accrescere il valore di un’orchestra bisogna affiancarle un’accademia di formazione. Proprio perché da tempo mi batto per la formazione di giovani musicisti e vorrei che altre città in Italia dessero vita alle Accademie di alto perfezionamento per giovani orchestrali come quelle nate a Bolzano e a Ferrara, l’anno prossimo si aggiungerà un’altra sede a Palermo. Si tratta di scuole che possono formare i giovani orchestrali insegnando loro a fare musica insieme con entusiasmo.

È ovvio che questo atteggiamento può diventare metafora di un modo diverso di concepire il lavoro, l’arte e la vita, non incentrato sulla corsa affannosa all’affermazione personale – spesso causa di profonde delusioni – ma sulla gioia che si può provare nell’appartenere a un gruppo, dando il proprio contributo con passione e slancio. Dal lavoro collettivo nasce infatti il risultato davvero alto di un’esecuzione musicale. E questo potrebbe farci riflettere, anche sul piano politico.

 

 

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