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Società, “Abbiamo siglato un patto per uccidere qualcuno: volevamo vedere l’effetto che fa”

Gide by Lady Ottoline Morrell, vintage snapshot print, August 1920

Gide by Lady Ottoline Morrell, vintage snapshot print, August 1920

Per futili motivi

di Lidia Ravera

È vero, dove non c’è niente di nuovo da dire, sarebbe più saggio tacere. Eppure, di fronte a fatti di cronaca come quello che è costato la vita a Luca Varani, 23 anni, studente, il silenzio mi pare un lusso che non possiamo permetterci. Luca Varani è stato ucciso dai suoi stessi amici, nel corso di una serata di ordinaria follia (festino a base di alcool e droga, passatempo così consueto da apparire ormai normale come un sabato sera in pizzeria).

È stato ucciso, come si dice, per futili motivi. “Senza scopo l’atto cattivo, il delitto, è inimputabile, e quegli che l’ha commesso, inafferrabile”. Così scrive Andrè Gide, nel suo romanzo I sotterranei del Vaticano commentando il crimine commesso da Lafcadio, giovane bello e amorale, che uccide Amedeé, gettandolo giù dal treno, senza un motivo e senza che si fossero neppure rivolti la parola. Così, per sfizio, con la crudele purezza del gesto gratuito. Esattamente come Manuel Foffo, 29 anni, studente fuori corso di Giurisprudenza, che ha dichiarato, dopo essersi costituito: “Volevamo uccidere qualcuno solo per vedere l’effetto che fa”.

Come il suo complice, Marco Prato, anche lui fatto e ubriaco, tutto preso dall’esaltante progetto di divertirsi. Un paio di “Lafcadio” versione 2.0. Uccidere per vedere l’effetto che fa. Impersonare il cattivo come in un videogioco, ma brandire un coltello e un martello veri, con la forza muscolare di una gioventù forte e vigliacca, due contro uno, armati contro inerme. Il gesto gratuito del personaggio Lafcadio, del secolo scorso, oggi, si veste di nuove funzioni: rendersi interessanti agli occhi della società virtuale. Quella rete ormai così sovraccarica di stimoli che per svegliarne la curiosità tocca esagerare. Fare sul serio, e fare troppo, passare i limiti, eccedere.

L’hanno visto, Marco Prato e Manuel Foffo, “l’effetto che fa” uccidere: paura, rimorso. Vuotare il sacco con papà, sperando forse nell’assoluzione che la maggior parte dei genitori garantisce ai propri figli, fin dalle prime marachelle. Vuotare il sacco perché non riesci a reggerlo, pesante com’è, perché nella notte, magari, ti tornano addosso quegli occhi spaventati e increduli, quelli del tuo amico trasformato in vittima per caso, per sfizio, per gioco. Se non si fossero costituiti, su consiglio del padre di Manuel, sarebbero stati scoperti, Manuel e Marco, o, come Lafcadio, l’avrebbero fatta franca? Probabilmente sarebbero stati scoperti, perché conoscevano la loro vittima troppo bene.

Per divertirsi, per concludere degnamente una serata di droga e alcool, forse è meglio buttare dal treno uno sconosciuto. O dare fuoco a un barbone. Si è già visto anche questo. E allora, un Andrè Gide contemporaneo, che romanzo deve scrivere, per segnalare o contenere o condannare, questa deriva da assenza di empatia, questa regressione alla disumanità?

Ho in mente soltanto una frase, da mettere in prima pagina come exergo. “Non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”. Una regola semplice, la banalità del bene.

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