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Cinema, “Lo chiamavano Jeeg Robot”… e la memoria corre alle tavole di Ranxerox di Tamburini e Liberatore

Lo chiamavano Jeeg Robot (Micromega)

Lo chiamavano Jeeg Robot (Micromega)

di Giona A. Nazzaro (Micromega)

Entusiasmarsi è bello. Farlo per un film italiano, anche di più. Negli ultimi tempi, infatti, è stato possibile osservare una notevole progressione qualitativa nel nostro cinema. Guidato dall’agguerrito plotone dei cineasti del reale, Di Costanzo, Minervini, Marcello, Parenti e D’Anolfi, Santarelli e Rosi, solo per citare i primi nomi che vengono subito alla mente, il rinnovamento c’è e si sente. Non supportato ancora da un’industria e da una politica che ne ha compreso tutte le implicazioni e novità, ma c’è. Questa vitalità è avvertibile persino in altre articolazioni della produzione italiana. Lo straordinario livello qualitativo di una serie come Gomorra e di un noir sui generis come Suburra, ne sono sintomo evidente. Senza dimenticare lo sberleffo insurrezionale di un film imprendibile come La solita commedia: Inferno di Biggio&Mandelli&Ferro, il cinema di poesia di Stefano Odoardi ancora troppo poco conosciuto e amato in Italia e commedie ambiziose come Loro chi? di Francesco Miccichè e Fabio Bonifacci che si rifanno alla tradizione con intelligenza.

In quadro così ricco di fermenti e movimento, Lo chiamavano Jeeg Robot appare come una supernova. Un film che racchiude in sé tutti i discorsi fatti nei decenni scorsi sul rinnovamento dell’industria, superandoli tutti a sinistra per inventiva, generosità e passione. Il film di Mainetti, infatti, compie un vero e proprio salto quantico nei confronti dei discorsi che vorrebbero indicare la direzione al cinema italiano. Non solo polverizzando residuati ideologici aggrappati alle dichiarazioni di impegno meramente contenutistico ma, soprattutto, cosa forse ancora più importante, pone fine alla retorica del cinema di genere portata pigramente avanti da recuperi e rivalutazioni antistoriche. L’unico precedente possibile di Lo chiamavano Jeeg Robot, infatti, è Zora la vampira, esordio dei fratelli Manetti, forse troppo in anticipo sui tempi, ma straordinariamente lungimirante rispetto alla trasformazione dei codici, delle mitologie e dell’immaginario collettivo.

Il peccato originale dei fautori a oltranza del ritorno del cinema di genere è di essere ancorati sostanzialmente alla propria nostalgia di spettatori e quindi di volerla ritrovare o ricreare in film che inevitabilmente saranno sempre altro. Senza contare che proprio sul finire degli anni Settanta, quando la grande stagione del cinema di genere si stava per chiudere perché incapace di reggere il passo con la trasformazione dell’apparato produttivo statunitense (intuizione molto precisa di Sergio Martino) e la contemporanea emersione della televisione commerciale, l’immaginario collettivo era catalizzato da nuove energie e da mitologie pop più accessibili e flessibili rispetto a quanto si andava tristemente spegnendo nelle sale di provincia e non solo.

Gabriele Mainetti è il primo a rendere conto in forma di cinema di una trasformazione avvenuta sotto gli occhi di tutti noi ma che nessuno prima di lui ha messo in scena con tale verosimiglianza e precisione, questa sì, “documentaria”. Lo chiamavano Jeeg Robot è molto più della somma dei materiali che lo compongono. Il film di Mainetti non solo tira tutte le fila di un sapere diffuso nelle esplose galassie delle passioni nerd, ma compie la straordinaria operazione politica di riorganizzare questi linguaggi e materiali in una mitologia condivisibile e quindi partecipabile. Lo chiamavano Jeeg Robot crea uno nuovo tessuto spettatoriale che inevitabilmente è soprattutto un tessuto sociale. Crea, evoca, un pubblico che prima non c’era offrendogli l’immagine di un mondo che non ha mai visto anche se lo vive da sempre.

Il valore sincretico di Lo chiamavano Jeeg Robot, senza volere insinuare nessuna similitudine o raffronti improbabili fra opere lontanissime fra loro, è pari solo a quanto fatto da Sergio Leone con Per un pugno di dollari. Ossia appropriarsi di una mitologia, renderla italiana, quindi originale, quindi nuova. Se infatti i western di Leone non sono mai stati i western della tradizione, ma il West sognato dalle parti di viale Glorioso, quello di Mainetti non è banalmente un supereroe, ossia imitazione pauperistica di un immaginario high-tech economicamente irraggiungibile, ma l’unico supereroe immaginabile oggi in Italia e in particolare a Roma. L’elaborazione originale di una mitologia condivisa.

Quella di Leone è una mitologia metatestuale, che giunge al western tramite un detour giapponese che rimanda però a una tradizione già italiana (il Goldoni). Lo chiamavano Jeeg Robot, invece, aggrega elementi disparati filtrati attraverso l’autogestione offerta dalle tecnologie domestiche e digitali. Leone ricreava, evocava; Mainetti interviene direttamente nel dna dei suoi materiali prima di riassemblarli. Riformula e rimodula.

Rispetto a un Leone, o a John Woo, entrambi manieristi sublimi, Mainetti non possiede, per sua fortuna, un modello di riferimento forte cui guardare. L’unico elemento politico in grado di tenere uniti i vari filamenti immaginari del suo film, è il territorio urbano di Roma e in particolare le sue periferie. Oltre a un linguaggio che è soprattutto un codice e un sentire. I materiali sui quali lavora Mainetti sono già rielaborati alla base, non giungono intatti nelle sue mani. Sono già lavorati dalla condivisione (partecipazione), in un processo di ri-alfabetizzazione immaginaria e orizzontale che deve tanto ai Colle der Fomento quanto a Totti; che deve sia a Il muro del canto che a Zerocalcare.

Mainetti è il primo a intercettare in forme compiutamente cinematografiche il vero tessuto culturale (non quello pigramente desiderato da assessori e combriccole politiche assortite) di Roma e per estensione del paese (e del resto delle sue periferie). Tessuto che resiste a modo suo ai piani regolatori generali e alla gentrificazione ricreandosi in rete come comunità fantasma e trasversale. Autentico ghost in the machine.

La precisione documentaria di Mainetti permette di osservare all’opera nel film un passaggio chiave. Lo chiamavano Jeeg Robot è il primo film italiano post-Caligari. La poetica sottoproletaria pasoliniana rielaborata da Caligari trova una formulazione sorprendente e inedita in Lo chiamavano Jeeg Robot. I personaggi risuonano di altri storie ma è il contesto mitologico intorno a loro a essere profondamente cambiato. Per dirla con un cortocircuito: immaginate Tommaso Puzzilli morso da un ragno radioattivo. L’estensione politica e mitologica di Lo chiamavano Jeeg Robot è questa.

Come un antieroe Marvel degli anni Settanta, gli eroi riluttanti come Johnny Blaze di Ghost Rider o Shang-Chi, Enzo si ritrova dotato di poter superumani dopo essere stato contaminato da rifiuti tossici russi gettati nel Tevere. E già questa è un’intuizione… superumana che lega immediatamente il tuffo di Accattone a quello involontario di Enzo. Nel Tevere si nasce e si muore mentre la camorra si gioca gli appalti della Capitale a suon di bombe e pigrissimi comunicati emergenziali risuonano dalle mille radioline (e la memoria corre alle tavole di Ranxerox di Tamburini e Liberatore: I can feel the fear in the western world).

Enzo però al centro di Roma “ci lavora”. Come tanti, lui vive a Tor Bella Monaca. Ed è il viaggio che Enzo compie verso il centro di Roma, il suo nostos, la traccia epica del film di Mainetti. L’ultima inquadratura, infatti, lo coglie sul bordo del colosseo come Devil attaccato al Flatiron o Batman ai gargoyle di Gotham.

Intrecciare la mitologia nipponica di Go Nagai che a partire dalla fine degli anni Settanta ha (tras)formato intere generazioni di telespettatori annodandole idealmente a quella precedente che sognava sugli albi Marvel della Corno mettendole però idealmente in dialogo e con le nuovissime generazioni digitali, attraverso il vernacolo capitolino, è un’operazione di rara lungimiranza. La cultura pop si rigenera instancabilmente, essendo la merce che contiene tutte le altre merci, ma Mainetti è riuscito a cogliere, ancora una volta: con precisione documentaria, l’attimo in cui questa trascende se stessa e diventa altro. Nuovo luogo di aggregazione, discorso, parola, possibilità politica.

Lo chiamavano Jeeg Robot è davvero l’anno zero del cinema di genere italiano. A Gabriele Mainetti l’augurio di realizzare altri film del valore di questo.

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