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Caos e calcinacci, lo stato dei Conservatori italiani

di Dario Ronzoni (Linkiesta)

L’ultimo concorso risale al 1990, la riforma al 1999, con sette decreti ancora da attuare. Mancano soldi, gli edifici in pezzi. E la musica fatica

Caos e calcinacci, lo stato dei Conservatori italiani (Afp / Getty Images)

Caos e calcinacci, lo stato dei Conservatori italiani (Afp / Getty Images)

Se si dovesse riassumere la situazione dei Conservatori italiani in una sola parola, quella più adeguata sarebbe “abbandono”. Con i suoi 77 istituti (tra scuole di musica e Conservatori parificati all’università), i 8.000 docenti e i circa 50.000 studenti all’anno la musica è la minore delle preoccupazioni dei governi, passati e presenti.

Il problema non è che crollano i calcinacci nelle aule – anche se è successo al Bruno Maderna di Cesena, nel settembre 2015, con una parte del soffito che si è lasciata andare. E poi si è ripetuto al Bellini di Palermo, due mesi dopo, con un crollo durante una lezione di trombone. Perfino nella autonoma Bolzano, la relazione tecnica sullo stato del Conservatorio Monteverdi parla di “problemi abbandonati e irrisolti”. La questione è che la musica, in Italia, è dimenticata anche a livello legislativo.

«L’ultimo provvedimento importante risale al 1999, legge 508», spiega Paolo Troncon, presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori di Conservatori, «quando sono state date le linee guida per la riforma dell’istruzione musicale». In conformità con il processo di Bologna, il diploma di Conservatorio è stato equiparato a un percorso accademico, con laurea triennale e specialistica. Ma ci si è fermati lì, o quasi. «Dei nove decreti attuativi previsti – senza i quali, come è noto, le cose non possono partire – ne sono stati emanati solo due».

Il primo nel 2003, «per regolare l’autonomia statutaria, che è diversa sia da quella scolastica che da quella accademica». Il secondo, nel 2005 – dpr 212 – che, regolamenta la didattica. Ci ha permesso di fare i corsi per il triennio». E fino a quel momento come si faceva? «Era tutto in via sperimentale. Come è tuttora per i corsi del biennio». L’ipotesi poi «di creare un dottorato, al momento, ce l’hanno bloccata».

Il ritardo legislativo vuol dire assenza di regole. «Soprattutto in due ambiti fondamentali: il reclutamento dei docenti – serve una formulazione dei criteri di valutazione; e la distribuzione degli istituti nel territorio».

Al momento regna la confusione totale. Come si scrive qui, l’ultimo concorso per selezionare i docenti è avvenuto nel 1990 (26 anni fa). Ora (dal 2013) per diventare insegnanti occorre passare per due graduatorie, una riservata ai docenti di ruolo e un’altra per incarichi annuali. A queste si aggiunge una babele di graduatorie interne, relative ai bandi di ogni istituto: qui vengono valutati criteri oggettivi (gli anni di servizio) insieme ad altri, più fumosi, come i “meriti artistici”, decisi da una commissione insindacabile: capita che musicisti dal curriculum internazionale vengano superati da altri candidati con una carriera più modesta. I ricorsi non sono ammessi, e nemmeno il Tar li considera.

«Potrebbe succedere che, se uno come Riccardo Muti volesse insegnare in un Conservatorio italiano (accontentandosi di uno stipendio di 1.500 euro al mese) potrebbe vedersi superato da altri candidati, magari persone con famiglia e figli, e per questo avvantaggiati», spiega Troncon. È uno dei paradossi di un sistema lasciato a se stesso.

Altro segno di confusione è la presenza di vari istituti, con competenze distinte ma non chiare, oltre al fatto che per accedere al Conservatorio occorre avere compiuto un percorso di scuola superiore. Come ci si organizza? Non è semplice: «Da un lato c’è un’insegnamento “culturale” della musica, cioè non “professionale” e riservata a chi, per doti e capacità, non farà della musica un mestiere». Questo è un lavoro per i licei musicali, cioè scuole secondarie che comprendono corsi di musica e di strumento.

Chi invece volesse diventare musicista, dovendo cominciare presto, non potrà accedere subito al Conservatorio, «anche se sono presenti pre-corsi, indirizzati ai ragazzi più giovani», ma inizierà con scuole di musica, «che in Italia – a differenza di Francia e Germania – sono tutte private, messe in piedi da diplomati che, una volta concluso il percorso di studi, non riescono a trovare lavoro per insegnare». E poi, raggiunta l’età, ci si iscrive al Conservatorio. O meglio, ai pre-corsi «che però sono a numero chiuso, per questione di tipo didattico: l’insegnamento è – per forza – individuale, e richiede molti anni». Scansando i calcinacci.

Il problema è che i Conservatori, essendo ancora l’unico istituto che prepara per la musica professionale, sono sovraccarichi. Non ci sono divisioni, distribuzioni di competenze. Anche perché è necessario, affinché la preparazione sia completa, che l’offerta sia ampia, «perché nei Conservatori si fa musica, di ogni tipo. Servono musicisti sufficienti per mettere insieme le orchestre, ma anche solo i trii. Con un violino e una viola un trio non si può fare». Il diploma, comunque, arriverà solo al termine della triennale. Cioè molti anni dopo: «Una stortura dovuta all’adeguamento con gli standard europei». In ogni caso, il diploma non è vincolante per partecipare ai bandi, ad esempio per le orchestra («che tanto, in Italia, non escono quasi mai»).

L’istruzione musicale, che pure afferisce al Miur, «non ha soldi». Una potenza di fuoco bassissima, «dal momento che non abbiamo la stessa forza delle Università» e di conseguenza ha una forza di pressione «minuscola». L’intero settore dell’Afam, cioè l’Alta Formazione Artistica e Musicale, che comprende anche accademie d’arte, danza e recitazione, si spende in tutto 500 milioni. «Proprio come per la sola Università di Bologna». Si va avanti con i soldi degli studenti, mentre servirebbero almeno «55 milioni per far funzionare le cose». Ma da quell’orecchio i governi non ci sentono.

Per questo il 13 febbraio ci sarà una protesta, in tutte le città d’Italia. Una manifestazione fatta di concerti e piccoli spettacoli. Per «rendere chiaro il valore culturale della musica, che viene dimenticato con troppa facilità».

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