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nàulu

Nobile parola. Il padre si chiama “nàulum”, ed è di pura origine greco-latina. A differenza dell’evoluzione nel toscano, dove assistiamo al passaggio au>o (come in aurum>òro, p. e.) al quale partecipiamo normalmente anche noi, qui il vocabolo conserva il dittongo au.

Non è forma solitaria nel dialetto del Porto; si ritrova pure in “làurum>làuru o melàuru” (alloro). Si tratta di un fenomeno limitato, di importazione settentrionale, più ricorrente già a poca distanza da noi: a Castelfidardo succede anche per e>ei (accèitta<francese hachette) oppure per o>ou (bastòu>latino bastònem).

Ciò premesso, torniamo a questo nàulu, che vuol dire nolo, o meglio affitto, soprattutto con riferimento al mensile da pagare al proprietario della casa dove si abita.

Case dì Castennou viste dal mare (foto Gian Franco Fazzì)

Case dì Castennou viste dal mare (foto Gian Franco Fazzì)

I contadini di un tempo chiamavano tutti i cittadini “naulànti” perché quasi nessuno di loro possedeva casa di proprietà e perciò avevano l’appuntamento fisso con la scadenza dell’affitto. Cercavano di farla cadere sempre dopo la riscossione del salario, il che significa che la maggior parte pagava a fine mese.

Nemmeno io ho vissuto in casa di proprietà fino ai 10-11 anni, quando mio padre finì di fabbricare un’ottantina di metri quadri, suddivisi in quattro vani più servizi e una chiostrina, spazio un tempo occupato dalla casetta dei suoi genitori, nel rione Castennôu.

Per tre anni affittò la casa, l’ha dàtta à nàulu, quindi vi si trasferì con la famiglia. Ricordo quanto è costata di sacrifici e rinunce, quella casa. Ma era un obiettivo di vita, per i miei come per i portorecanatesi in genere, e non solo portolotti naturalmente.

Avere casa “del sua” significava essersi realizzati: famiglia, lavoro e casa. Non c’era altro da desiderare. Ah, sì: la salute, ma quella, un giorno, viene meno per tutti, come la beata gioventù.

(l.p.)

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