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ISIS, guerra al Califfo: un ponte nel vuoto

ISIS, il califfato del sedicente Stato Islamico

ISIS, il califfato del sedicente Stato Islamico

“Guantanamo è una sorta di terrificante museo dell’errore. Ho scritto errore, e conto sul senso di questa parola. Guantanamo, disumano com’era (come in parte è ancora) avrebbe piegato i combattenti di una guerra, non i “martiri” (condizione interiore e ascetica) del terrorismo. Quei “martiri” non li trovi prima del tempo, perché potrebbero essere chiunque, e non li trovi dopo, perché sono morti o sono evaporati (la “caccia” di Moullenberg, in Belgio, è un episodio esemplare) in un altrove in cui o tornano “al lavoro” o scompaiono per sempre.”

di Furio Colombo – Il Fatto Quotidiano

Un editoriale del Corriere della Sera (4 dicembre) ci avverte che per la guerra contro il Califfato bisognerà aspettare il 2017, quando l’America sarà un affidabile Paese guida, dopo il lungo languore di Obama. Paese guida significa (ci spiega l’autore dell’editoriale, Galli della Loggia) significa guerra. E finalmente, se Dio vuole, ci sarà guerra, quella cosa vera e solida che si combatte, senza tante storie, dove capita e quando è giusto.

Interessante, nell’articolo dedicato all’inettitudine bellica di Obama, il richiamo a Carter, altro presidente inadeguato. Cito: “Jimmy Carter, presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam, non farà nulla di nuovo, non restituirà all’America, men che mai alle faccende mediorientali, il ruolo dello Stato guida, della potenza che esercita una forte leadership sull’insieme degli alleati”. La parola chiave è “nuovo”. Se non fai guerra non fai nulla di nuovo, non sei nessuno e non conti niente, tanto è vero che l’articolista si dimentica che Carter è stato l’artefice di Camp David e non ha mai smesso di tentare di portare pace intorno a Israele e Palestina. Fa luce la frase “Carter, presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam”.

Carter è il primo dei presidenti Usa (non tutti, non Reagan, non Bush padre, non Bush figlio) a capire il senso di quella fuga disperata in elicottero dai tetti dell’ambasciata di Saigon. Non era debolezza, la ragione di quella fuga. Era la portata eccessiva della potenza. Con armi appropriate il Vietnam finiva in un giorno. Ma sono armi troppo potenti e distruggono anche chi le usa. Però se non le usi, il più potente perde, anche se distrugge molto persone e cose. La Corea, ilVietnam, l’Afghanistan, l’Iraq, sono lì a dimostrarlo. Se scorrete la lista delle guerre non vinte, vi accorgete che, nel frattempo, è cambiato il nemico. Non è più il comunismo, che era una immensa entità fisica, Stati, città, fabbriche, milioni di persone e un immenso accumulo di armi. È il terrorismo, che sta alla guerra tradizionale come la malattia mentale sta al dolore fisico. Non c’è, non la vedi, non la tocchi, ma il tormento è insopportabile. Una parte del mondo insiste nel portare in camera operatoria e mettere “sotto i ferri” questa condizione umana, il terrorista, che realizza se stesso come vocazione di morte (da dare e da avere) e quasi non lascia traccia. O ti lascia i morti, assassini inclusi.

Guantanamo è una sorta di terrificante museo dell’errore. Ho scritto errore, e conto sul senso di questa parola. Guantanamo, disumano com’era (come in parte è ancora) avrebbe piegato i combattenti di una guerra, non i “martiri” (condizione interiore e ascetica) del terrorismo. Quei “martiri” non li trovi prima del tempo, perché potrebbero essere chiunque, e non li trovi dopo, perché sono morti o sono evaporati (la “caccia” di Moullenberg, in Belgio, è un episodio esemplare) in un altrove in cui o tornano “al lavoro” o scompaiono per sempre.

Però i “martiri” del terrorismo, come quelli della fede, non nascono da soli. Ci vuole una Chiesa. Si alza il grido di battaglia: tutti a far la guerra a questa chiesa. Sappiamo dove sono e li sterminiamo, allo scopo nobile e legittimo di vivere in pace. Per questo è nato lo Stato islamico. Per attrarre i volonterosi del combattimento in un punto o in un altro, mentre crollano regimi e dittatori veri, mentre le rivolte locali (che un momento fa erano primavere) massacrano o vengono massacrate. Le regole sono state stabilite dal terrorismo e in ogni scontro epocale valgono le regole peggiori: si combatte per sterminare. Si sterminano i popoli, non gli eserciti. Si uccidono gli innocenti, non i colpevoli, perché la distinzione è sconosciuta e irrilevante.

Conta lo spettacolo perché la lezione ormai è imparata da tutti: se non vedi l’albero che cade nella foresta, l’albero non è mai caduto. Ma persino le regole peggiori e lo spettacolo più crudele e visivamente straordinario, non definiscono chi è il nemico. Ci siamo detti che manca la “intelligence”. Non è vero. C’è chi sta con noi e finanzia la parte con cui combatte, e quella contro cui combatte. C’è chi dona il benessere a livello finora sconosciuto a una parte, e all’altra parte quantità e qualità di armi che possono far durare qualunque guerra. Per misere ripicche personali fra leader, la Russia e la Turchia, due alleati, si sono accusate a vicenda di commerciare in grande col nemico. Abbiamo tutti capito che avevano ragione entrambi. Già, machi è il nemico? Qualcuno, abile e intelligente, sta facendo crescere una nostra macchina bellica immensa (crescerà di più, quando Obama se ne sarà andato) mentre il nemico c’è, non c’è, colpisce e sparisce a due passi da noi. Ha ragione Papa Francesco, che ha ereditato l’ossessione dei ragazzini dei centri sociali: finché continua la fabbrica delle armi, si può essere ottimisti. Forse non sulla sicurezza, ma certo su un certo benessere, che non c’è ragione di condividere. Se qualcuno viene su dalle scale, tu spari, uccidi e sei l’eroe del giorno. E così via.

Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2015

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