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Dialetto in pillole (7) La lingua della sciabica

Foto da La civiltà marinara (Archeoclub d'Italia, Cupramarittima)

Foto da La civiltà marinara (Archeoclub d’Italia, Cupramarittima)

Sostiene un caro amico e collega che i portorecanatesi hanno un’origine levantina; ciò si rispecchierebbe in un linguaggio fatto di immagini grottesche create da vivida fantasia. Ancor di più, queste caratteristiche apparirebbero evidenti nei modi di dire degli sciabbegotti (pesca alla tratta).

Dissento dall’amico, ma qui di seguito il lettore troverà un campionario di questi modi di dire e, se vuole, potrà cominciare a farsi un’idea sua sulla questione.

(In questa “pillola” non faccio uso di tutte minuzie ortografiche – accenti, apostrofi et similia – presenti per evidenti ragioni nel mio vocabolario del dialetto “Léngua Màtre”, ma qui non necessarie)

 

Fa’ la croce = raccogliere la rete.

Magnà’ el cappó = ammucchiare la rete appena tratta dall’acqua; per alcuni la frase servirebbe a incitare a sbrigarsi e fare per bene il lavoro per aspettarsi un buon guadagno.

Dàje che quessi nun è fenanzieri = si diceva quando la rete emergeva carica di lattarì (l’insieme dei lattarini, novellame), assai più buoni dei sarduncì nei quali, proprio perché meno buoni dei primi, venivano identificati gli agenti della Guardia di Finanza, forza armata addetta anche al controllo delle attività commerciali, con relativo corredo di frequenti multe elevate a danno dei pescatori.

Scòte e cala = scuoti e cala la rete, più velocemente che puoi; altro invito alla rapidità nel lavoro.

Nun tirate a scossi = invito a tirare la rete con continuità, senza scossoni.

El pesciu smaja = quando il pesce rischia di scappare dalle maglie della rete.

Nun la fa’ scagarellà ‘ssa croce = non far cadere la rete quando la porti a bordo.

Spòja el pizzale = togli il pesce dal pizzo, dall’angolo della maneca (detta anche saccu, con maglie sempre più fitte), quello in fondo.

Sunà la resta = raccogliere le corde.

(v)a’ in teretta, el pesciu è méstu! = vai verso terra ché il sacco è stato gettato in mare; lo grida il paró (capo sciabica) ordinando di virare gradualmente, ma con velocità, verso terra per mettere in mezzo il pesce.

E tantu le rusciure ce ‘ffoga! = per dire che non c’è ombra di pesce.

Fàjela sentì de dietru, la rete! = mettere più forza rispetto a quello che sta davanti.

Scote, scote = esclamazione (esortazione a se stessi) degli sciabbegotti quando fanno cerchio intorno al sacco per vedere il risultato della pescata.

 

Il movimento dell’acqua del mare era oggetto di studio e si diceva l’acqua cure su, l’acqua cure ggió quando si notavano spostamenti più veloci del solito; si diceva anche l’acqua cure cum’un fiumu.

Al contrario, se non c’era movimento di corrente: l’acqua è stanga, mette fora, (v)iene in tera.

 

Per una rassegna più completa, comprensiva anche delle relazioni instaurate dagli sciabbegotti con il sole e la luna (tipo: luna in pia, marinaru colcu), si può vedere il n. 6 di Potentia-Archivi di Porto Recanati e dintorni (2001), dedicato interamente alla sciabica; ci sono: un giro panoramico in Europa e nel mondo sulla pesca alla tratta, poesie sulla sciabica, notizie sulla flottiglia sciabbegotta nel tempo, le donne della sciabica, l’impresa dell’alluvione di Montelupone, atti di coraggio etc… Magari ne scriveremo qualche cosa nei prossimi giorni. Intanto, c’è qualcuno che indovina da dove è nato il detto: U(n) sciabbegottu nun è bbònu mancu de fa’ da testemognu?

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