mènte, latino mens-mèntis. Quante volte ci è capitato di dire a qualcuno cui vogliamo bene, dàmme
mènte, quessu nu’ lu fa’ , nu’ ‘ndà’ cun quellu lì etc… Oppure, un tantino alterati: oh, se me (v)òì dà’ mènte (v)a bè’, se no fa’ cùme te pare e simili. Certamente parecchie volte, a testimonianza dell’uso frequente che si fa del vocabolo “mènte” e certo non solo nel dialetto. In italiano, per quanto ormai desueta, l’espressione vale “dar retta, dare ascolto, seguire qualcuno”, “dare la propria mente” nel senso di “fidarsi”. La adopera anche Giacomo Leopardi, per esempio nella lettera del 1° marzo 1826 alla sorella Paolina dove, riferendosi ad Amico Ricci (maceratese, letterato e critico d’arte), il poeta scrive: Del resto non date mente a Ricci, ch’è un bonissimo giovane, ma non capisce niente …. Il dialetto attesta anche: fàcce mènte per fai attenzione, pensaci.
(avviso agli specialisti: per l’accentazione degli etimi latini non si segnalano le classiche quantità delle sillabe, ma l’accento tonico per rendere più facile la lettura a tutti).
repregió’. Nel dialetto indica un’alterazione dei processi fisiologici a causa, per esempio, di un colpo di freddo. Si pensi a un blocco alla digestione. Viene, credo, dal latino reprèssio-ònis, con caduta della postonica (la “nis” finale, fenomeno frequentissimo in tutta Italia), nel senso del verbo collegato “reprimere, opprimere, comprimere, fermare, bloccare”: m’ha présu ‘na repregió de (v)ìta, un malore grave; “ripressione” è pure vocabolo del vecchio marchigiano segnalato da Giuseppe Compagnoni nella sua Raccolta di voci romane e marchiane edita in Osimo nel 1768. Scrive Compagnoni: Ripressione, per infermità, cagionata dal riscaldarsi, o raffreddarsi.
Per “dialetto”, senza specificazione ulteriore, si intende il dialetto di P.R.
La g di repregió’ è dolce (toscana); la s di présu è sonora (come in “rosa”).
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